martedì 31 dicembre 2013

OMELIA DI FINE ANNO

Si stanno chiudendo i cassetti di un anno intero. Dentro ci sono, in bell’ordine o sparpagliati, fotogrammi in bianco-nero o a colori, a secondo dei momenti brutti o belli vissuti. Il 2013 sta scivolando via.  Da un lato ci sono 365 giorni ormai finiti e da qualcuno tra noi archiviati con il timbro della sofferenza; dall’altro lato, si allarga la pianura dei 365 giorni del 2014. La fine dell’anno porta con se diverse riflessioni che si intercettano a vicenda. Pensieri ineludibili. Pensieri pensosi.
Siamo qui per ringraziare il Signore di un altro anno che si è, per quasi 11 mesi, identificato con l’anno della fede, la quale conserva una connotazione personale anche quando è professata comunitaria. Nel Credo infatti diciamo: “Io credo in Dio Padre…”. La fede, quella di sana e robusta costituzione, sorregge e illumina il nostro cammino monastico, da continuamente nuovi impulsi alle nostre speranze e tiene accesa la fiamma di una carità fattiva. Il tempo, senza l’avvertita presenza di Dio, è solo un susseguirsi di istanti che consumano e bruciano il tempo, che resta perciò senza fecondità.
Il Signore ci dona un altro anno per un ulteriore sforzo di conversione del nostro cuore per un decollo decisivo verso di Lui.
Il Signore ha in mano la storia del mondo ma è anche al timone della nostra piccola storia personale che è inserita nel grande progetto di amore di Dio.
Te Deum laudamus. Così tra poco canteremo con un solenne inno di ringraziamento vestito di festose parole in latino, che riepiloga e trasforma in preghiera diversi motivi per ringraziare Dio.
Te Deum, come un “grazie” comunitario per la presenza tangibili di Dio in mezzo a noi nella preghiera, nei sacramenti, nella fraternità, nell’ospitalità; per ogni miracolosa normalità accaduta nella stoffa di ogni giorno del 2013.  
In altre occasioni, il Te Deum si canta unicamente per motivi di grande gioia. Ma quello di fine anno si presenta sempre come un Te Deum in chiaro-scuro.
E allora Te Deum, per errori, debolezze assortite, piccoli dissesti interiori dovuti a motivi che talvolta sono difficili da spiegare anche a noi stessi. Ma Te Deum anche per quando abbiamo saputo sdoganare certe situazioni che ci avevano tolto la serenità. Non stiamo più a rimuginare un certo passato. Non guardiamo più indietro, ci siamo già stati! Non si giudica una persona dai suoi sbagli ma dalla sua voglia di cambiare.
Te Deum, per tutte quelle volte che siamo stati degli specialisti delle perplessità, siamo stati esegeti pessimisti e scettici di certe situazioni. L’arrivo di un nuovo anno ci porti ad un ottimismo sia pure realista, per non cedere alla tentazione di “pensare con chiarezza e non sperare più”, come ammoniva Camus.
Te Deum, per quando non abbiamo fatto esercizi di comunione ma Te Deum anche per quando abbiamo cooperato alla pace e all’armonia della nostra famiglia monastica. Te Deum per quando abbiamo voluto seguire ostinatamente la nostra volontà e per quando invece abbiamo accolto volentieri quello che S. Benedetto chiama  “bonum oboedientiae” (Rb 71,1).
Te Deum, per quando, a motivo di certe circostanze intessute di tristezza e di amarezza, abbiamo pensato che l’inverno fosse l’unica stagione ma Te Deum anche per quando e quanto abbiamo fatto circolare aria di primavera intorno a noi.
Chiediamo a Maria, che già da stasera abbiamo iniziato a festeggiare come Madre di Dio, un supplemento di protezione e di aiuto per il nuovo anno 2014.

giovedì 26 dicembre 2013

FESTA DI SANTO STEFANO

                     
Ieri, gli angeli, la mangiatoia, un bambino. Oggi, quasi un dirottamento . Si ha l’impressione di essere un po’ destabilizzati dalla celebrazione di un martire dopo le gioiose ore appena trascorse. Sembra quasi che i riflettori della liturgia abbiano dimenticato il Protagonista e slittato su Stefano, uno dei primi sette diaconi. Sembra quasi un calo di tono.
In questa epoca di fast-tutto, in cui cioè si vive all’insegna del continuo cambiamento e della velocità, la liturgia vuole invece con santa sapienza, non esaurire nel 25 dicembre l’immensa ricchezza spirituale del Natale di Nostro Signore. Possiamo dire che il Natale ha in questo giorno, tinto di rosso sangue, il suo tempo supplementare, perché Gesù è nello spirito, nel cuore, nei pensieri di Stefano, il primo martire. Stesso itinerario, stesso destino. Stefano fotocopia nella sua vita quella di Cristo: nella predicazione, nel processo subito, nella morte violenta. Ci sono dei sorprendenti parallelismi tra la morte del Maestro e quella del discepolo: quest’ultimo ripete più o meno le stesse parole di Gesù in croce.
Il sangue versato da Stefano è un inno di amore a Gesù e un attestato di fedeltà al Vangelo. Natale dunque non è solo un coro di dolci melodie ma anche una sinfonia drammatica fatta dei rantoli di morte di tanti martiri.
 La prima lettura ci ha trasmesso quello che sembra essere un dettaglio e invece non lo è: la presenza di Saulo. Il mondo è come una grande ragnatela, fatta di migliaia di fili, ognuno dei quali collegati ad un altro. C’è un filo che collega la morte violenta di Stefano a Saulo, è come se Stefano avesse passato il testimone al futuro S. Paolo.
Gli Atti degli Apostoli (At 6,15) ci riportano il particolare che il volto di Stefano era “come quello di un angelo”. I testimoni di Gesù sono sempre luminosi anche se dentro hanno qualche sofferenza. I loro occhi brillano perché hanno una febbre costante: quella di raccontare con la vita chi è Gesù. E così sia anche per noi.

mercoledì 25 dicembre 2013

NATALE (giorno)

                                  
L’Atteso nasce nella forma più inattesa. Nasce come un profugo. Nasce in una stalla! Nasce nella nostra vita per abitarla. Nasce sulla paglia delle nostre fragilità e miserie. Quel Bambino ci ruba il cuore e non chiede altro che essere ospitato nella nostra vita. E così, dentro il battito umile e ostinato del nostro cuore batte un altro cuore. Di quel Bambino, una volta incontrato, non se ne può più fare a meno. Ci tiene per mano fin dal suo primo respiro. Il Natale non è una delicata leggenda raccontata per commuoverci, non è una fiaba per bambini. E’ storia nel senso crudo, letterale della parola. Il cristianesimo poggia sulla roccia solida della storia, verificabile e documentata, sulla roccia solida della grotta di Betlemme.

Abbiamo ascoltato un vangelo immenso e da vertigine. Racconta di Dio. Vangelo che ci vieta pensieri piccoli. Non ci lascia incollati all’istante che fugge. Non sono parole bio-degradabili: restano lì, allineate come stelle. Diciotto versetti, pacati e solenni e che forse dovremmo leggere in ginocchio. Ci fanno “navigare” nel mistero dell’Incarnazione e scopriamo che nei misteri dolorosi delle mille Via Crucis del mondo e nei mille sentieri di gioia che la vita sa ancora regalarci, la Parola, oggi, si è fatta carne. Prende casa in mezzo a noi. Una Parola che si fa carne tra le lamiere contorte di una baracca distrutta dal tifone (come recentemente nelle Filippine) o tra le macerie di case distrutte da un terremoto; una Parola che si fa carne tra gli scafi delle carrette del mare ondeggianti verso Lampedusa; una Parola che si fa carne tra i capannoni deserti di fabbriche chiuse per la crisi; una Parola fatta che si fa carne in certi reparti di ospedale dove i malati attendono più o meno rassegnati la morte.
E per quel che ci riguarda personalmente, siamo davanti ad un bivio: accettiamo o rifiutiamo che Dio pianti la sua tenda nella nostra vita? Accettarlo, vuol dire cambiare il modo con cui si guardano le cose e così le cose che guardiamo cambiano.

Lo sguardo di un bambino appena nato ci offre un percorso con due coordinate: la serenità e la spontaneità. La serenità, perché per un bambino tutti sono amici, con i quali giocare. Se a noi adulti si avvicina qualcuno di nuovo, spesso attiviamo dei filtri mentali se non dei sospetti.  E poi, la spontaneità, perché per un bambino tutto è un regalo. A noi adulti le cose non bastano mai, vogliamo di più e di meglio. Un bambino, con una cosa che magari noi buttiamo via, ci può giocare per un intero pomeriggio. Dovremmo tornare a quel bambino che c’è in noi per lasciarlo giocare. Recuperiamo quella serenità e quella spontaneità che nonostante tutto non abbiamo perso ma che sono in qualche angolo buio del nostro cuore.

Sia questo l’impegno che prendiamo, insieme ad altri impegni di pura marca evangelica, oggi ma non solo oggi. Il Natale infatti si allarga a tutti i 365 giorni dell’anno. Rivestiamo ogni giorno con la bellezza del Natale!

martedì 24 dicembre 2013

NATALE (notte)


Non poteva essere che così!
Nasce per essere il custode innamorato di ogni frammento della mia vita. Un bambino, Lui, figlio della notte. Un bambino, Lui, il figlio di Dio. Dio lui stesso. Possiamo dire sottovoce agli angeli di Betlemme che anche in terra adesso c’è il Paradiso.  
                Il Figlio di Dio nasce anzitutto, come diciamo nel Credo, “per la nostra salvezza”. Ma nasce anche non tanto per essere amato, quanto per amare, per avere qualcuno da amare e dire a ciascuno di noi: io ti amo non perché ho bisogno di te, ma ho bisogno di te perché ti amo. E, come ricorda la quarta strofa del canto natalizio Adeste fideles, “come non amare chi tanto ci ha amato” (“sic nos amantem quis non redamaret”)? Capita a volte che quando si vuole troppo bene a qualcuno si perde se stessi. Alcuni colori, tra i più belli, della nostra identità si smarriscono. Amare Dio invece ci fa tirar fuori il meglio di noi stessi.
                   Natale è un po’ come dire: Dio allo specchio. Dio si tradisce con il suo amore. In questo campo Dio non è come noi uomini. Noi spesso  facciamo di una persona la nostra priorità quando poi, dopo, magari l’esperienza ci mostra che per essa non siamo stati e non siamo che un’opzione. Per Dio no. Per Lui siamo tutti figli “unici”. Se nessuno è escluso dal suo amore, però egli nasce soprattutto per i bastonati dalla vita, per quelli che hanno una grande sofferenza, per quelli che sono amareggiati, tristi, disperati, sporcati dalla maldicenza. Per quelli che sono paralizzati da problemi più grandi di loro, per chi il Natale lo passerà da solo. Oppure magari anche in compagnia ma con tanta solitudine interiore. Ci si può sentire soli anche in mezzo ad una folla. A Natale questo si avverte ancora di più. La solitudine, in questo caso, è come un grande ricevimento dove ognuno balla da solo. Tutte queste persone, e altre ancora, sono gli invitati speciali e preferiti al compleanno di Dio come uomo. Perciò se tra noi c’è chi sta vivendo queste ore di Natale con la morte nel cuore per la cattiveria di qualcuno, questa è esattamente la sua festa, perché Dio viene ad abitare dentro il suo cuore a pezzi.  Natale, ovvero elogio della piccolezza! Dio è vicino a ciò che è piccolo, debole, emarginato, insignificante… per noi, ma non per Lui!
                        Il Natale ci impedisce di bastare a noi stessi e ci educa al dono di sé. Le nostre ferite interiori spirituali, psicologiche, morali, affettive, si rimarginano nella misura in cui curiamo quelle degli altri. E così Betlemme (“casa del pane”) è dovunque le nostre mani sanno inventare atti di amore. Le nostre impronte non sbiadiscono mai sulle persone che tocchiamo per  un gesto di amore. Il Signore le fa sue, diventano tatuaggi indelebili del suo cuore. Ogni giorno è il primo giorno del resto della nostra vita. Viviamolo come fosse l’ultimo e l’unico, amando come se nessuno ci avesse mai fatto soffrire, donando senza far sentire in obbligo, perdonando senza farlo pesare. E sarà Natale ogni giorno!

martedì 17 dicembre 2013

NOVENA DI NATALE (Apertura)

                             
Anche la Liturgia ha i suoi twitters! Sono le cosiddette “Antifone O”, che risalgono al tempo di papa Gregorio Magno o poco dopo, che ci accompagneranno da stasera, ogni giorno al Magnificat, fino all’antivigilia di Natale compresa: sette telegrafiche antologie bibliche, ricche di riferimenti messianici, per sottolineare altrettanti titoli cristologici del Salvatore. Sette antifone con una simile struttura musicale, introdotte da una “O” più di stupore che di invocazione, e tutte si annodano in un “veni” struggente, un grido che esprime il nostro bisogno di Dio. Sapientia, Adonai, Radix, Clavis, Oriens, Rex, Emmanuel: un crescendo di inquadrature del Messia. Vi avvertiamo il desiderio appassionato di Dio di metterci suo Figlio nelle braccia. Quella di stasera, O Sapientia” viene dalla tradizione monastica applicata all’abate, come fonte di ispirazione per il suo servizio nel monastero. Un sistema anche intelligente quello che regge queste Antifone: la quinta, quella del 21 dicembre, giorno esatto del solstitio, quando cioè, toccato il massimo del buio, il sole comincia a risalire, si canta: “O Oriens..”: O Astro che sorgi…”
Esse ci aiutano a pregare con più intensità in questi speciali giorni di immediata preparazione al Natale e ci vogliono programmare interiormente per cogliere l’autentico significato del Natale. Le loro lettere iniziali, in ordine capovolto, nascondono una promessa antica: “Ero cras”, ci sarò domani. Ci sarò domani, e aggiungiamo, sempre. Non è enigmistica ma una certezza grande e consolante!

Dopo ogni “Antifona O” è bello pensare che è come se ci fossero dei puntini di sospensione che si riempiono di diversi significati, si trascolorano in parole non dette, che sono depositate nel nostro cuore, in attesa di lievitare e diventare realtà. Ma direi che soprattutto quei puntini di sospensione attendono di essere sostituiti dalle nostre  personali risposte al messaggio delle antifone. Coraggio, rispondiamo.


Mt, ci ha presentato la genealogia di Gesù, un lungo e monotono schedario anagrafico costruito con perfezione matematica. Un intreccio di luci e ombre. Nel DNA umano di Gesù c’è un concentrato di storia biblica non priva di fragilità e di colpe. Si resta colpiti dalla ripetizione quasi ossessionante (39 volte!) di un “generò”. Ma quel “generò” ci riguarda e ci provoca: si potrà dire di ciascuno di noi che il 25 dicembre 2013  “generò” nella sua vita Gesù, lasciandola da Lui illuminare e cambiare?

domenica 8 dicembre 2013

SOLENNITA’ DELL’IMMACOLATA CONCEZIONE DELLA B.V. MARIA


A volte il nostro cuore è mosso da corde che neanche sappiamo di avere. Corde come la semplicità, la capacità di stupirsi, la freschezza interiore, la generosità nel far felici gli altri. Questo e ben altro ancora anche in Maria che oggi festeggiamo.
Sembra di vederla questa ragazza di Nazareth, villaggio senza storia. Lei, Maria, con ancora nelle orecchie la voce leggera dell’Angelo e nel cuore un mix di gioia e di confusione. Più che alla porta, l’Angelo ha bussato alla sua persona. E infatti il racconto è tutto un dialogo. “Non temere…concepirai” (1, 30-31). Le promesse profetiche danzano tra le parole dell’angelo. Erano al futuro, ora sono al presente. Maria si lascia avvolgere dal piano di Dio. Maria diventa “Ianua coeli”, porta del cielo, perché attraverso lei Dio entra nel mondo. Anche a ciascuno di noi è chiesto, secondo la vocazione ricevuta, di offrirsi come porta d’ingresso di Dio là dove e con chi abitiamo.
Non temere”, dice l’Angelo a Maria ma lo dice anche a ciascuno di noi. “Non temere” lo devo dire anche a me stesso, non solo quando vedo sulla mia vita le orme chiare di Dio ma soprattutto quando esse sono cancellate, semplicemente perché (come ricorda uno splendido raccontino) in quei momenti Dio mi sta portando in braccio. “Non temere” di ricominciare tutto daccapo: tu non coincidi con i tuoi errori. “Non temere” di donarti a Lui con il tuo “eccomi”, limpido e senza riserve, prendendo come navigatore della tua vita la sua Parola e, per noi monaci e oblati, anche la Regola di S. Benedetto.
A ognuno di noi la vita racconta quante volte Dio è venuto a visitarci con le sue piccole “annunciazioni”: un momento felice, una crisi, una gioia inattesa, un problema di salute, l’incontro con una persona speciale. Come Maria dire: “Non so come… non so perché... ho delle paure… ho dei dubbi… mi pongo delle domande… ma mi fido di Te”.
“Sì”: tutto ruota intorno a questo piccolo e semplice monosillabo. Il “sì” di Maria deve essere l’ icona dei nostri piccoli “sì” quotidiani.
Maria ci invita a fidarci di Dio che ha fatto cose grandi in lei e che può fare grandi cose anche in noi…  Dire a Dio: “Fai tu”. E dopo il fidarsi di Dio c’è l’affidarsi a Dio.
Maria ha compreso una cosa fondamentale: Dio non ti chiama per realizzare quello che hai in testa tu. Ti chiama o ti ha chiamato, perché vuole altro da te. Tu, così come sei. Anche se ti senti inadeguato e pieno di ombre. I fili d’erba crescono anche nella steppa…

Maria che si mette nelle mani di Dio ci insegna che la vita, che è il gioco più appassionante, non è un capitale da investire secondo i propri progetti ma secondo il sogno che Dio ha avuto su di te creandoti. Anche se ti senti pieno di limiti. Non si deve aver paura delle inevitabili difficoltà: l’aquilone si alza nel cielo con il vento contrario, mai con il vento favorevole! Fare la sua volontà, con semplicità e con una buona dose di umiltà. Meno “io” e più “Dio”. E più si sta con le mani vuote davanti a Dio, più Lui pensa a riempirle.

domenica 1 dicembre 2013

PRIMA DOMENICA DI AVVENTO (A)

“I giorni di Noè”(Mt 24,37): in quei giorni gli uomini erano troppo normali! Erano diventati smemorati di Dio. Erano impegnati solo a vivere alla giornata, rosicchiando il quotidiano. Una vita senza profondità. “I giorni di Noè”, per noi, sono quelli in cui ci dedichiamo solo a dimensioni corte, quando saziamo inutilmente la nostra fame di cielo con abbuffate di piccoli bocconi di terra. Ci sono delle persone che si incontrano quando la vita vuole farci un regalo. Dio, ci fa incontrare, ci manda continuamente suo Figlio. Una Presenza che non si vede con gli occhi ma si sente con il cuore, se è rimasto quello di un bambino.
… e non si accorsero di nulla”(Mt 24,39), soggiunge Matteo. Loro del diluvio, noi del respiro di Dio sotto il quotidiano. Viene in mente la storia del Titanic. L’orchestrina continuava a suonare mentre la nave si riempiva di acqua e si inabissava. Mentre una musica suadente invita al ballo, i nostri attuali iceberg (crisi economica, pericolo nucleare, disastro ecologico, terrorismo, ecc. ….) tentano di affondarci. Ma noi possiamo e dobbiamo reagire alla tentazione dello scoraggiamento e della rassegnazione, perché abbiamo nella manica l’asso vincente che ci permette di restare in piedi ed andare avanti: Cristo che è “lo stesso ieri, oggi e sempre” (Eb 13,8). Possiamo cogliere una chiara indicazione per uscire dalla superficialità, dall’essere persone-sughero, cioè a dare spessore con la pratica della Parola di Dio, ad ogni dimensione del nostro vissuto quotidiano. E’ un impegno robusto ma che ci abilita a rendere profondo ogni momento.
La pagina di Matteo si presenta a tinte fosche, debordante di terrificanti minacce. Pur sapendo che non si tratta di una fantasiosa fiction ma di una realtà vera anche se futura, non guardiamo al linguaggio ma al messaggio. Resettiamo quegli atteggiamenti elencati dalla seconda lettura e puntiamo all’essenziale. “Due uomini saranno nel campo, uno sarà portato via e uno lasciato” (Mt 24,40). Non è un accenno alla morte, ma a due modi diversi di stare nel campo della vita. La vita non è un dono ma un prestito, va vissuta bene. Ed è una sola, non c’è una sua replica. La grazia connessa con l’Avvento è quella di essere un colpo d’ala verso ciò che veramente conta.
L’Avvento è un tempo per non essere più degli inguaribili distratti: Gesù certo è venuto più di 2000 anni fa, verrà alla fine dei tempi ma viene anche nella ferialità di ogni giorno e nelle pieghe delle ore, attraverso fatti e persone. Si impasta nella nostra storia personale come lievito di felicità vera. Nella filigrana dei nostri giorni inserisce pagliuzze di bellezza spirituale. Ecco perché dobbiamo avere i sensori sempre accesi per cogliere il suo passaggio, che possiamo facilmente percepire soprattutto nei piccoli gesti di amore, dati e ricevuti. Come ricorda Matteo, Dio a volte può venire come un ladro, ma solo per rubarci quello che di noi ci fa stare male come certe valigie pesanti dove ci sono quelle esperienze negative che spesso siamo tentati di ripetere.

In fondo tutta la vita dovrebbe essere un Avvento! E allora, adottando le coordinate della vigilanza e della prontezza, mettiamoci - un po’ come i soldati in caserma - sull’“attenti!” cosicché un giorno incontrando Dio, Egli nel suo abbraccio eterno ci dica: “riposo!”.

domenica 24 novembre 2013

SOLENNITA’ DI CRISTO RE DELL’UNIVERSO

Un re senza trono e senza scettro, appeso ad una croce, un re che necessita di un cartello per essere identificato. Un piccolo spazio pubblicitario per dire a tutti: ecco come Dio vi ama.
Gesù sta sulla croce come colpevole di innocenza. Da lì, da udienza a tutti. Morire voce del verbo amare, amare voce del verbo regnare.
Ci sono vari modi per guardare a Cristo in Croce: quello dei capi del popolo, quello dei soldati e quello del ladrone. E a quest’ultimo che dobbiamo guardare: nel dialogo a distanza di Croce è stato un ladro d’amore. “Fu ladro fino all’ultimo, con una sola parola rubò il Paradiso”, così sottolinea S. Agostino.
“Oggi sarai con me in Paradiso …”. Un editto regale! Un assassino morente diventa un santo canonizzato in diretta da Gesù. Il miracolo richiesto però non lo ha fatto lui. Ci ha pensato Gesù stesso a rimediare, compiendolo al suo posto: il miracolo della misericordia. A differenza degli altri santi, nessuna pratica delle virtù eroiche, ma in extremis, ha praticato la speranza: “Ricordati di me…”. Si è aggrappato allo sguardo di Gesù, uno sguardo pieno di Paradiso. Non più ladro ma teologo di prima classe, perché riconosce il Cristo come Re non quando è trasfigurato ma quando è sfigurato. Nel contesto del più plateale fallimento: Gesù è inchiodato, piagato, deriso, bestemmiato.
“Oggi…”: Gesù ha avuto fretta di salvarlo. A volte, la fretta può essere sinonimo di amore. “Oggi…” a partire da adesso e per sempre, io intreccio il mio respiro con il tuo. Un uomo dalla vita sbagliata, come può essere qualche volta o in parte o del tutto la nostra, quando bleffiamo con noi stessi e ci disancoriamo da Dio. I due ladroni sanno di aver sbagliato a vivere, ma solo uno dei due lo ammette e riceve il perdono che è l’unica strada per tornare a vivere. Chi non sa accettare il proprio sbaglio, non si perdona e non chiede perdono a Dio, resta con il senso di colpa e, in un certo senso, si uccide, perché non si concede un’altra possibilità di ripartire. Vive a metà.

sabato 2 novembre 2013

COMMEMORAZIONE DI TUTTI I FEDELI DEFUNTI

Il passaggio sembra brusco. Siamo passati dall’abito di festa indossato dalla liturgia di ieri - Tutti i Santi - a quello di lutto di oggi. Ma non è così. Le due celebrazioni vanno insieme, c’è una continuità tra esse. La Chiesa oggi ci chiede semplicemente di passare dalla celebrazione alla commemorazione. Non è una sottigliezza linguistica. Accanto a cammini pienamente compiuti che sono quelli dei Santi, ci sono altri cammini (le persone defunte che noi abbiamo conosciuto) che attendono la carità della nostra preghiera di suffragio, che è anche un modo per far sentire loro il nostro affetto, anzi, ancor più, per entrare in comunione con loro. Oltre la S. Messa, certamente il S. Rosario e altre preghiere. Anzi, la preghiera, soprattutto il Rosario, mette sempre un lievito di eternità nelle nostre giornate. SE ci pensiamo bene, solo la fede, ci aiuta a superare il dolore, talvolta durissimo, per la perdita di una persona cara.
La morte è maestra di vita. Davanti alle tombe non possiamo barare con noi stessi, perché li ci poniamo domande fondamentali. Il cimitero ci invita a impostare con serietà e serenità la nostra vita, a ritrovare la freschezza originaria della nostra vocazione monastica, dando il vero e il meglio di noi stessi là dove siamo chiamati a stare. Il pensiero della morte non ci deve far paura, quello che ci deve piuttosto far paura è quello di una vita dove per vari motivi fingiamo con noi stessi, oltre che con gli altri; quando non abbiamo il coraggio di certi passi che invece, una volta fatti, ci farebbero stare meglio anche se con qualche iniziale sofferenza destinata però poi con il tempo a diradarsi e a sparire.
Oggi è soprattutto una grande celebrazione della speranza, che ci viene dalla Risurrezione di Gesù che ha vinto la morte. “Io sono la Risurrezione e la vita, chi crede in me anche se morto, vivrà”. Dal momento in cui siamo stati concepiti, ci canta nel cuore la nostalgia di una casa: quella dell’eternità. Ecco perché la morte, quell’attimo che salpa verso l’infinito, in
fondo, è solo un pass per l’eternità. Morire, vuol dire allora arrivare a casa, quella vera, dove Dio ci attende per un abbraccio inesprimibile e bellissimo.

venerdì 1 novembre 2013

SOLENNITA’ DI TUTTI I SANTI

Forse, neanche loro, i Santi, sanno di essere così tanti. Una litania infinita di nomi, annoverati in quel numero simbolico di 144.000, registrato dal passo dell’Apocalisse. Una contabilità impossibile. Un censimento irrealizzabile.
I Santi, conosciuti e sconosciuti, sono la prova e la garanzia che si può vivere il Vangelo. Oggi oltre ad essere la festa dei santi dovrebbe essere la “festa della santità”! Della nostra santità. Di noi, santi incipienti. Basterebbe togliere una lettera: invece di leggere “tutti i santi”, leggere “tutti santi”… Se non subito, almeno prima possibile. Col grembiule del servizio e in dialogo orante non-stop con Dio.
La santità non è infatti un dono esclusivo ed elitario per pochi fuoriclasse della fede o per chi ha doni straordinari! Essa è la naturale vocazione di ogni cristiano. Il cristiano o è santo (almeno nelle intenzioni e buona volontà) o non è tale. Santi non si nasce ma si diventa con una scelta da rinnovare ogni giorno, consumata là dove siamo chiamati a vivere, anche con i gesti più piccoli: una briciola può sembrare di poco valore ma è sempre pane … Madre Teresa suggeriva di essere come una matita in mano al Signore, che Lui potesse usare come voleva. Recentemente, Papa Francesco ha esortato ciascuno di noi ad essere la carezza di Dio su ogni “tu”. Ma prima della mano si deve muovere il cuore, altrimenti è solo un toccare l’altro senza senso. U(n grande santo diceva che bisogna far scendere il cuore alle mani.
Interpretare la vita sullo spartito delle nove Beatitudini, che ci lasciano ogni volta emotivamente pensosi e sconcertati. Frasi semplici e brevi che si intrecciano come una litania. Esse sono delle sfide e delle provocazioni ad andare contromano e controcorrente rispetto ad una certa mentalità. La chiave di lettura è Gesù stesso perché esse sono il suo ritratto, ci narrano di Lui perché raccontano in filigrana la sua vita ma sono anche il salmo della felicità del cristiano. Ma attenzione perché Gesù definisce beati i poveri ma non la povertà. Dio è dalla parte di chi piange, ma non dalla parte del dolore. Le beatitudini fotografano con nove brevissimi scatti la coraggiosa inversione che Dio suggerisce a chi si ritrova in una lista di nove situazioni di sofferenza e di prova. Ad esempio, forse quella più paradossale: “Beati gli afflitti”. Non ho bisogno di andare sotto la pioggia per non piangere da solo perché Dio è nel riflesso più profondo delle mie lacrime per moltiplicarmi il coraggio di andare avanti. E’ al mio fianco, è forza della mia forza, mi apre il futuro. Ogni beatitudine infatti ci apre una finestra di cielo. Ogni beatitudine contribuisce al prodotto interno lordo della felicità. Quella vera! Beate Beatitudini!

domenica 27 ottobre 2013

DOMENICA 30ma del TEMPO ORDINARIO

Certamente tutti abbiamo presente la parabola di Lc 18,9-14 che ci consegna la liturgia della Parola in questa Domenica e che, per il suo contenuto e la sua chiusa finale - “chiunque si esalta sarà umiliato, chiunque invece si umilia sarà esaltato” (Lc 18,14) - potrebbe essere integrata dal cap. VII della Regola, il “De humilitate. La parabola del fariseo e del pubblicano che salgono al Tempio a pregare. Due uomini così vicini, così lontani. Due storie srotolate per essere afferrate dalle mani di Dio. Due modi diversi di stare davanti a Lui.
Il fariseo si mette in vetrina. Non fa un esame di coscienza ma di auto compiacenza. Un Narciso allo specchio. Sgrana e sbandiera i propri meriti, una continua auto incensazione. Non prega, si racconta. L’evangelista Luca sottolinea che “pregava tra se” (Lc 18,11), in realtà la traduzione esatta è: “pregava se stesso”. In effetti, la sua è una preghiera “a-tea” nel senso che non è Dio il suo interlocutore, ma se stesso. Secondo le norme liturgiche ebraiche sta in piedi ma in realtà è genuflesso in adorazione di sé. Con la sua presunta perfezione pensa di far luce. Già, anche le stesse brillano ma però non illuminano. Chi guarda solo se stesso non può illuminare! Una vanitosa autoesaltazione produce solo cortocircuiti a raffica.
Il fariseo non sa uscire fuori dal perimetro del suo “io”. Una parolina che lo ha imprigionato e che non smette di ripetere: “Io non sono come gli altri… io digiuno… io pago le decime…” Ha dimenticato la parola più importante del vocabolario: “tu”.
Sotto le navate del tempio, se da una parte c’è il mantra ripetitivo del fariseo: “Io sono bravo…io sono osservante..io qui…io là…”, dall’altra c’è la preghiera sincera e fiduciosa del pubblicano che nella parete di fondo, immerso nella penombra, si fa gomitolo di umiltà, consapevole delle sue colpe, tra le quali quella di venduto agli odiati invasori romani, per i quali riscuoteva le tasse. La telecamera lucana che si focalizza su di lui ce lo mostra mentre non osa alzare gli occhi al cielo e nemmeno le mani, vuote di opere buone. Le adopera solo per battersi il petto, come un segnale a Dio che vuole ricominciare da zero. Come lui, nella preghiera, non nascondiamo la verità di quello che siamo. Riconosciamo certe zone d’ombra. Non diciamo bugie a noi stessi. Almeno davanti a Dio leviamo certe maschere. Facciamolo entrare in certe stanze del nostro cuore. Quelle che noi nascondiamo agli altri. Davanti alle nostre miserie, il Signore non ci toglie il suo amore anzi, si fa più vicino che mai. E ci dice: “Amami come sei”. Se abbiamo tanta buona volontà di cambiare, Dio azzera tutto e ci fa ripartire alla grande.
Lasciamoci graffiare spiritualmente da questa parabola.
“Io non sono come questo pubblicano” (Lc 18,11). A volte anche noi siamo rimorchiati da questo atteggiamento del fariseo, ad esempio quando non sappiamo perdonare a motivo di certe cose che non ci siamo legate al dito ma all’orecchio. Ma, soprattutto quando giudichiamo gli altri con il veleno della maldicenza, delle insinuazioni se non con la calunnia, magari con complici servizievoli e interessati di questo killeraggio. Il tutto spesso condito da ipocrisia e doppiezza, finzione e slealtà. Papa Francesco lo ha ripetuto più volte, nelle sue omelie a S. Marta.
Ciò che io condanno negli altri è ciò che rifiuto in me. Chi, come il fariseo della parabola, non sa vedere o non vuol vedere i suoi limiti e le sue debolezze, li vede negli altri e li giudica. Il fango che io getto sugli altri lo tiro fuori dalle mie tasche, quindi vuol dire che prima ancora ne sono pieno io. Il fango che io butto parla di me! Dall’amore invece non può uscire fango.
Sì, mettiamoci accanto al pubblicano. E’ il posto di ogni cristiano. E’ il nostro posto.

*“Non giudicate per non essere giudicati” (Mt 7,1).
“Chi sei tu che giudichi il tuo prossimo?” (Gc 4,12).

domenica 6 ottobre 2013

DOMENICA 27ma del TEMPO ORDINARIO

“Signore, accresci in noi la fede” (Lc 17,6). Non c’è domanda più indovinata. E, non c’è risposta più sconcertante ma anche pacificante di quella data da Gesù: “Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: ‘Sradicati e vai a piantarti nel mare’, ed esso vi obbedirebbe”(Lc 17,6). Gesù cambia la prospettiva da cui guardare la fede, introducendo come unità di misura il granello di senape, proverbialmente il più piccolo di tutti i semi: non si tratta di quanta fede ma di quale fede. La fede è un “niente” che è e può tutto. Leggera e forte. Forte perché sradica gli alberi, leggera perché li fa volare sul mare.
“Se aveste fede…”. Se abbiamo fede, tutto è possibile. Un gelso che vola: immagine per dirci che anche quello che ci sembra impossibile, con la fede è possibile. Anche cambiare se stessi. Come per quel gelso, la fede può far volare via tante cose negative dalla nostra vita. A volte, a proposito di certe situazioni, si esclama: “ La realtà è quella che è, la realtà non si cambia. Non è mai cambiata…”. “Io sono quello che sono, mi devo arrendere; la mia realtà è quella che sono, non cambia…”. “Se aveste fede…”. Cioè la realtà è quella che è perché la mia fede è quella che è, cioè non è fede.
La Regola di S. Benedetto è percorsa da una dinamica di fede, anche se questo vocabolo ricorre pochissime volte e con alcune significative varianti. La fede permea la giornata del monaco, dandogli uno sguardo che va “oltre”: riguardo all’obbedienza (obbedisca con amore confidando-confidens nell’aiuto di Dio); riguardo ai confratelli, agli ospiti, ai poveri, ai pellegrini; verso l’abate (per fede-creditur si crede che tiene le veci di Cristo). Il nostro cammino monastico si snoda alla luce della fede. La fede del monaco è simboleggiata anche dall’immagine della cintura ai fianchi cui allude il Prologo (RB Prol. 21). Cioè, la fede ci deve accompagnare ogni momento. Una fede semplice, umile, nascosta, silenziosa, che ci fa vedere le cose e le persone con gli occhi di Dio. La fede ci fa vivere (Ab 2,4), e se
non fa vivere non è fede.
“Signore, accresci in noi la fede” (Lc 17,6). Facciamo nostra questa preghiera degli apostoli. Adottiamola e moltiplichiamola come una giaculatoria.

domenica 22 settembre 2013

25ma DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Spesso Gesù, quando vuole insegnarci qualcosa di importante, va a pescare professori fuori ruolo, addirittura senza alcuna laurea, senza uno straccio di diploma come, ad esempio il samaritano della nota parabola. Il Vangelo di questa domenica ci trasmette (Lc 16, 1-13) una parabola dal finale sconcertante, con la lezione - una lectio difficilis da digerire - sul dovere di essere intelligenti e di saper usare la fantasia; Gesù ci sorprende dandoci come maestro un imbroglione, un ladro matricolato, simpatico fin che si vuole, ma pur sempre un ladro. E ci dice di imitarlo.
C’è un amministratore che viene accusato di aver sperperato il patrimonio del suo padrone, con disordini amministrativi, con falsi in bilancio, tangenti e tutto quello che la nostra attualità può aggiungere. Il padrone lo viene a sapere e il licenziamento risulta inevitabile. E lui cosa fa? Con una spregiudicata e abile saggezza last minute, evita la sua rovina dimezzando quanto i creditori dovevano al suo padrone, invitandoli a falsificare le ricevute: a chi il 50%, chi il 30% dei debiti.
E il padrone? Il padrone, raggirato due volte, lo loda e lo stima. Gesù in realtà non loda la disonestà e l’imbroglio ma loda la tempestiva capacità di reazione di quell’uomo, che di fronte ad un errore non perde la fiducia in se stesso e si tira fuori da una situazione critica. Il Signore ama le persone che si danno da fare, che non dimenticano di possedere un cervello, che ricorrono alle risorse della fantasia.
La parabola ci insegna a compiere “irregolarità” che vanno a vantaggio del prossimo. Si tratta di minimizzare le colpe degli altri e non di maggiorarle. Si tratta di non mormorare che è un verbo purtroppo molto coniugato, verso i confratelli e i Superiori ; in certe comunità è lo sport preferito. A volte la mormorazione, senza prove oggettive e senza riscontri si trasforma in maldicenza e calunnia, figlie dell’ignoranza e dell’invidia. Il veleno di quest’ultima finisce sempre nel bicchiere di chi lo ha versato. Papa Francesco, nelle sue omelie quotidiane a S. Marta, è ritornato più volte su questo argomento. Venerdì scorso ha addirittura definito “cristiani omicidi” coloro che giudicano e sparlano degli altri. E se le chiacchiere corrispondono al vero? Il Papa ha suggerito questo comportamento: “Prega per lui, fai penitenza per lui”. Non altro. Si racconta negli apoftegmi dei padri del deserto che un giorno un giovane monaco si era recato da un anziano e santo confratello per sottomettergli il suo desiderio di non mangiare mai la carne. Il santo monaco, sapendo che quel giovane monaco aveva la lingua lunga, gli diede questa risposta:” E’ meglio per te mangiare la carne ogni giorno piuttosto che ogni giorno mangiare la carne dei tuoi fratelli con la maldicenza”. Si tratta di ridurre i difetti degli altri, cancellare le offese, tirare una riga sopra i torti, non ragionare in termini di diritti o ragione, ma in termini di amore.
Di fronte a Dio siamo tutti debitori, nessuno di noi ha i registri in ordine. Ciò che noi facciamo per Dio è niente confronto a ciò che Lui ha fatto e fa per noi. La nostra vita è sempre un’amministrazione in rosso. Dio comunque non ci chiede di ripagarlo per il dono della vita (sarebbe impossibile!) ma ci chiede di viverla bene, meglio facendo del bene. Dio non ci chiede di fare quello che non possiamo fare. Lui sa fino a che punto possiamo arrivare. Ci chiede solo quello che possiamo fare. In tutto ciò che facciamo, facciamo del nostro meglio, anche se non è perfetto. Il bene è sempre bene, è comunque bene. Creare oasi di positivo. E molte piccole oasi conquisteranno il deserto.
Perché il disonesto amministratore viene lodato? Perché il bene vale di più, conta di più, pesa di più, dura di più, illumina di più; perché una spiga di buon grano vale più di tuta la zizzania del campo.
Alla fine della nostra vita, Dio non guarderà tanto a quanto abbiamo commesso ma a quanto bene abbiamo seminato nei solchi della vita degli altri. Il giudizio di Dio sarà non sulla nostra disonestà ma sulla nostra bontà, e non guarderà tanto noi ma attorno a noi, cioè alle persone che sono stare raggiunte dal nostro cuore. Le braccia di chi abbiamo aiutato sono le braccia di Dio. Esse hanno in mano, per noi, le chiavi del Paradiso.

domenica 15 settembre 2013

24 ma DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Il cap. 15mo del Vangelo di Luca sarà domani, dalla Liturgia della Parola, offerto alla nostra riflessione. Non si tratta di tre parabole, ma di tre racconti di un’unica parabola: quella che narra la misericordia di Dio. La pecora perduta con il pastore che rischia la vita per recuperarla, la moneta smarrita con quella casalinga che rovista dappertutto per ritrovarla, un figlio che scappa di casa con un padre che, al suo ritorno, non lo condanna ma risolve tutto in abbracci e baci di gioia e organizza una grande festa.
Con voi, vorrei però limitarmi a compiere una breve sottolineatura che riguarda un verbo che si trova proprio agli inizi del capitolo, dove brilla sinistro e inquietante: “mormoravano”… Anche Gesù ha avuto i suoi mormoratori, chi lo ha giudicato negativamente. Nessuna meraviglia se questo può forse capitare anche a noi! Mormorare, purtroppo è un verbo molto coniugato. In certe comunità, per qualcuno è lo sport preferito! Senza poi guardare se ci sono riscontri e prove oggettive, magari ci si basa sui “si dice”, sui “sembra che” - “pare che”, il tutto alimentato da grande fantasia. Con bassezza di toni e argomenti pretestuosi. Papa Francesco più volte, nelle sue omelie quotidiane nella cappella di S. Marta, ha ricordato che la mormorazione e la maldicenza sono un male grave. Se poi essa si trasformano in diffamazione e calunnia, figlie dell’ignoranza e dell’invidia, diventa peccato grave. L’esperienza dimostra che il veleno dell’invidia finisce sempre nel bicchiere di chi lo ha versato. Anche se è vero che il segreto della libertà interiore consiste nel non preoccuparsi di quello che dicono e pensano gli altri di noi, se abbiamo la coscienza a posto, non è però piacevole ritrovarsi schizzati di fango. Dice Papa Francesco: “La diffamazione avviene quando una persona davvero ha un difetto, ne ha fatto una grossa raccontarla, fare il giornalista… e la fama di quella persona è rovinata; la calunnia è dire cose che non sono vere. Questo è proprio ammazzare il fratello! Questo è come dare uno schiaffo a Gesù nella persona degli altri” (18 maggio 2013). Due giorni fa, ha ripreso lo stesso argomento, dicendo cosi: “Coloro che vivono giudicando il prossimo, parlando male del prossimo sono ipocriti, perché non hanno il coraggio di guardare i loro propri difetti. E allora li leggono o pensano di leggerli negli altri. Coloro che giudicano e sparlano degli altri sono cristiani omicidi. Se parli male del fratello, uccidi il fratello. Imiti il gesto di Caino, il primo omicida della storia.” Parole molto forti quelle del Papa e che fanno riflettere. Se poi le chiacchiere corrispondono al vero, Papa Francesco suggerisce questo comportamento: “Prega per lui. Fai penitenza per lui.” Ognuno di noi si impegni personalmente nel non cadere nella mormorazione, nella maldicenza e, peggio ancora, nella calunnia.

domenica 8 settembre 2013

SOLENNITA’ DELLA NASCITA DELLA B. V. MARIA

“Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo…” (Mt 1,1). Mentre i nomi si susseguono come una cascata, con un alternarsi di luci e di ombre introdotto per 39 volte da un “generò” di personaggi biblici, forse non ci rendiamo conto che, come cristiani, quella litania di ritratti è il nostro album di famiglia. Quei nomi sono i nostri antenati. Si tratta della nostra genealogia, perché noi facciamo parte di quei “molti fratelli” di Gesù, come ricorda la seconda lettura. La catena di generazioni, con un lento zig-zag che intreccia miserie e grandezze, giunta al nome di Giuseppe rompe quest’ultimo anello per dirci che egli “era lo sposo di Maria dalla quale è nato Gesù” (Mt 1,16). Gesù, l’estuario benedetto in cui finisce quel lungo fiume di vita.
La Liturgia della Parola della Solennità della nascita di Maria riporta intenzionalmente la nascita di Gesù , perché le due nascite sono collegate e l’una spiega il perché dell’altra. Dallo stelo Maria, il fiore Gesù. Maria nasce, cioè viene alla luce, per darci la Luce che è suo Figlio. La sua nascita è in prospettiva di quella di Gesù. Con lei inizia il cammino della Redenzione.
Ma, in povere parole, questa festa in fondo è un appuntamento con il nostro cuore. Stamattina noi siamo qui per chiedere a Maria la sua materna protezione. E chi non ne ha bisogno? Siamo qui per pregarla ed onorarla.
Il regalo più bello che possiamo farle per il suo compleanno lo troviamo indicato in quelle poche parole che ha detto alla nozze di Cana: “Fate quello che Gesù vi dice”. Facciamo il suo Vangelo. Non sostituiamolo con altri testi di vita. Mettiamoci alla scuola del suo Gesù, soprattutto per quanto riguarda i rapporti con il nostro prossimo. Se lo vedessimo con i suoi occhi, forse le cose andrebbero meglio. Certo, l’altro può avere limiti e difetti pesanti da accettare ma è anche vero che se non sopportiamo il suo peggio non meritiamo il suo meglio.
Il titolo di mamma per Maria non è un titolo onorifico o retorico. Lei è davvero mamma per ciascuno di noi, anche se viviamo in un certo modo,
anche se siamo lontani dal Signore. Per lei, noi siamo e restiamo suoi figli. Gli siamo stati affidati da Gesù in croce. Facciamola diventare la coinquilina dei nostri appartamenti, delle nostre case (per noi monaci, delle nostre celle), ma anche la persona con la quale noi confidiamo per prima le nostre sofferenze, i nostri dispiaceri, le nostre preoccupazioni, i nostri sbagli ma anche le nostre gioie, i nostri progetti. Permettiamole di starci accanto soprattutto quando sperimentiamo che a volerci bene c’è rimasta solo lei.
Abbiamo bisogno di Maria, un nome semplice ma che pronunciandolo ci mette addosso una gran voglia di ricominciare e di ripartire dopo periodi e situazioni difficili; forse alcune pagine del libro della nostra vita, si sono incollate tra loro racchiudendo momenti e segreti che talvolta ci fanno ancora star male. Maria: un nome che ci mette addosso una gran voglia di far pulizia nella nostra vita e nel nostro cuore, forse inquinato da qualcosa o da qualcuno. Maria: basta che questo nome risuoni nelle pareti più sensibili del nostro cuore, esso risveglia nostalgia verso tutto un alfabeto di valori che forse è andato in tilt. Abbiamo tutti bisogno di Maria, perché tutti abbiamo bisogno di umanità, sensibilità, attenzione, delicatezza, dolcezza, tenerezza, fantasia, vita!
Se qualche volta ci ritroviamo senza pace, non dobbiamo esitare a chiamarla, rivolgendoci a lei con quella umile preghiera che è l’Ave Maria. Ma questa è la preghiera che ci apre il cuore di Dio. E’ la preghiera che cambia la nostra vita.

domenica 1 settembre 2013

22ma Domenica del Tempo Ordinario

L’importanza di non essere importanti. Per essere importanti è importante non essere importanti. Mi sembra sia questo un po’ il messaggio di Gesù che, nel contesto di un pranzo - da osservato ad osservatore - nota il comportamento degli altri invitati, intenti nella corsa ai primi posti. Ed ecco che scocca la sua lezione, non priva di una certa vena ironica: “Tu, quando sei invitato, non metterti al primo posto ma va all’ultimo” (Lc 14, 8.10). Non mettersi in pole position! Gesù invita a farci indietro non a farci avanti.
Gesù non intende dare regole di galateo o di bon-ton.
I primi, cioè gli ultimi. “Chi si umilia, sarà esaltato” (Lc 14,11). Il rapporto con Dio e con gli altri va modellato sul rapporto che Dio ha con noi. Francesco d’Assisi diceva a Dio: “Tu sei umiltà”. Dio è umiltà, nel senso che non avendo nessuno al di sopra di sé, non può fare altro, per amare, che abbassarsi. E Gesù veramente “è tutto suo Padre”, perché in tutta la sua vita non ha fatto altro che servire, fino a lavare i piedi ai suoi discepoli.
L’umiltà, quella vera, non le sue contraffazioni. L’umiltà non è autodisprezzo. Non è umile chi dice a Dio: “Non valgo nulla, faccio schifo”. Uno così è una persona depressa, non una persona umile! Dio non fa sgorbi, ma capolavori.
L’umiltà vera è vedere e far vedere con verità chi si è. Essere se stessi non è una brutta idea. E l’umiltà è l’arte di essere se stessi. Ci libera dalla fatica di coprirci con maschere sempre più insostenibili. L’umiltà vera è accettare i propri limiti e le proprie fragilità, prendendone atto con serenità ma anche con l’impegno a correggerli. E’ non spaventarsi se abbiamo più ombre che luci: non dimentichiamo che anche le pozzanghere riflettono il sole e questo le rende meno brutte. A volte non sappiamo accettare i nostri difetti ed un giudizio negativo detto da qualcuno su di noi vale più di mille pensieri positivi, e ci mette di malumore tutto il giorno. Siamo sinceri: la più grossa fatica è quella di amarci. Non importa cosa gli altri pensano di te. Agli occhi di Dio siamo importanti, cosa vogliamo di più?
Si scrive umiltà ma si legge “servizio”. L’ultimo posto non è una condanna, è il posto di Dio. L’ultimo posto è sempre il posto di Dio “che è venuto per servire e non per essere servito”. Gesù ci offre anche un criterio: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini”(14,12) : sono quattro gradini del cuore. Non invitarli, perché anche loro poi ti inviteranno e così c’è solo la legge del dare e del ricevere. Un cerchio che ci chiude in una logica gretta. “Ma invita poveri, storpi, zoppi, ciechi (Lc 14,13). Cioè, fuor di metafora: accogli nella tua vita e fai sedere intorno al tuo cuore coloro che non ti possono ricambiare perché sono gli ultimi della fila, là dove vivi. Gesù poi chiude con una bellissima promessa: “sarai felice”. Perché Dio regala gioia a chi produce amore.

domenica 25 agosto 2013

21ma DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Non ci sono corsie preferenziali o scorciatoie. La porta è una sola ed è stretta. Ma è proprio così? A Gesù viene posta da uno sconosciuto una domanda: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?” (Lc 13,23). Come fa spesso, Gesù lascia l’interrogativo nell’aria: non risponde direttamente ma prende in contropiede l’interlocutore, non fornisce dati e statistiche ma sposta l’attenzione dal numero dei salvati al modo di salvarsi, dal quanti al come ci si salva: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno “ (Lc 13,24). “Sforzatevi”: un verbo che indica fatica.
La porta è stretta ma è aperta. Ma non si apre con raccomandazioni, agevolazioni, referenze o con un codice d’ingresso. Sarà aperta solo per coloro la cui voce verrà riconosciuta dall’interno. Ognuno verrà riconosciuto nella misura in cui la sua vita avrà rispecchiato qualcosa di quella di Dio. Egli cercherà in noi tracce di Vangelo. Per passare da quella porta occorre avere una certa consanguineità di amore con Gesù. Sulla soglia dell’eternità Dio cercherà se stesso in noi. E, se Dio riconoscerà in noi almeno un tratto, un riflesso del sua amore, ci dirà: Vi conosco. Anzi diremo, ad una sola voce noi e Lui, da una parte e dall’altra della porta: Ci conosciamo! Come sorgente e come goccia d’acqua, come sole e come raggio. Altrimenti - come ricorda il Vangelo - udremo una risposta inquietante: “Non vi conosco” (Lc 13,25). Non basta mangiare il pane, bisogna anche farsi pane. Cioè, non basta ricevere l’Eucarestia, bisogna anche vivere la sua dimensione del dono di se agli altri. Chi non vive eucaristicamente, vive solo egoisticamente.
Ma quella porta è stretta perché a misura di un bambino: “Se non diventerete come i bambini, non entrerete!” (Mt 18,3). La porta è larghissima per chi non si trascina dietro la montagna del suo “io”. Certo, “Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati” (1 Tm 2,4) e così ribadisce il cap. 13 della LG. Dio ci vuole tutti in cielo e in Paradiso tiene un posto per ognuno di noi. Se qualcuno troverà il cartello con il divieto di ingresso sarà soltanto imputabile al suo mancato impegno di conversione e di carità. Essere discepoli di Gesù non è una polizza di assicurazione ma è una provocazione a vivere con gesti no profit, cioè dare senza contraccambio, verso gli altri. Come ci suggerisce il Vangelo. Come ci suggerisce anche la Regola, soprattutto nel cap. IV “Gli strumenti delle buone opere” e nel cap. 72 “Dello zelo buono che devono avere i monaci”.
Durante questa vita prepariamoci bene a passare quella porta che ci scansionerà con accuratezza, per evitare quello che a volte succede quando si passa sotto i metal detector, cioè che suonino gli allarmi, perché c’è qualcosa che non va.
“Gli ultimi saranno i primi e i primi saranno gli ultimi?”, incalza Gesù. Dio imbarazza la storia e fa saltare preclusioni, mentalità e pregiudizi, perché allarga l’orizzonte. Lassù non c’è un club a numero chiuso. Dio vuole che sia piena la sala della sua festa!
“Signore, sono pochi quelli che si salvano?”(Lc 13,23). Forse dobbiamo allenarci a riformulare questa domanda iniziale, esprimendo un desiderio che è secondo il cuore di Dio: “Signore, sono molti quelli che si salvano?”.

domenica 18 agosto 2013

2Oma DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Il vangelo di questa Domenica (Lc 12, 49-53) cuce insieme una serie di detti “incandescenti” ed enigmatici di Gesù, con i quali - nonostante i loro toni drammatici (sono pronunciati in un contesto letterario apertamente apocalittico) - Egli non intende spaventarci ma richiamare la nostra responsabilità ad essere suoi veri discepoli.
Gesù sembra spingere l’acceleratore della coerenza.
Un medico talvolta deve essere duro e inflessibile se questo è l’unico modo per curare e guarire il suo paziente. Si suol dire che “è preferibile una pessima verità ad un’ottima bugia”. La verità libera anche se fa male, ci pone davanti a noi stessi ma è anche la base per decollare di nuovo e meglio. La bugia invece copre ma fa sprofondare sempre più; nasconde e forse ripara ma non da soluzioni. La verità ferisce una volta sola, la bugia ferisce ogni volta che la si ricorda.La stessa libertà è autentica solo se si accompagna con la verità; dove non c’è la verità di quello che siamo e facciamo spunta sempre qualche forma di dipendenza, come quella di dare la nostra testa in comodato d’uso o quella di affittare il nostro cuore. Sono catene che ci impediscono di crescere. Se incontriamo Gesù con cuore libero da altro e da altri, Egli ci cambia la vita…
La pace interiore che Gesù ci porta non è una gelatina spirituale, una pace low cost, a poco prezzo, da saldo di fine stagione. Essa porta incorporata un fuoco che brucia le nostre mediocrità quotidiane e fa saltare quella rete di piccoli compromessi che determinano certi nostri comportamenti.
Con i suoi insegnamenti incisivi e scomodi, Gesù non ci invita semplicemente ad adottare un repertorio di buoni sentimenti ma a prendere in mano il metro della radicalità per misurare le scelte che facciamo; a non giocare al ribasso o al rimando, a puntare verso grandi ideali di vita. Si deve fare una scelta: o con Lui o contro di Lui. Non si può fare fifty-fifty con altre realtà. Certo ci vuole una fede ad alta temperatura, senza mai scoraggiarsi di fronte alle inevitabili difficoltà perché come ha detto una volta Benedetto XVI: “Chi crede non è mai solo”.

domenica 4 agosto 2013

18ma DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Ciò che colpisce nell’uomo ricco e avido presentatoci da Gesù è la sua solitudine. Nessuno è così solo come quell’uomo che è circondato e quasi soffocato dai suoi beni. Lo vediamo a colloquio con le cifre. La sua voce ha il suono dei soldi. Si identifica con le proprie ricchezze. Lui stesso diventa campo, granaio, frumento, magazzino, numero. Non è più un uomo: è una cosa in mezzo alle cose. L’inventario delle sue fortune, le rosee previsioni di un futuro senza problemi, punteggiato da regolari abbuffate e spensierate bevute, vanno a cozzare contro un muro: “la notte”, anzi “questa notte”…”ti sarà richiesta la tua vita”. Ma, in realtà, lui era già morto da tanto tempo, chiuso nel cerchio murato del suo “io”. Continua a ripetere un unico aggettivo: “ i miei raccolti, i miei magazzini, i miei beni, la mia vita; dirò a me stesso…”. Sempre questa ossessione del “mio” e questa droga dell’ “io”. Chi vive solo per se stesso spegne il proprio domani. Uno può avere tante cose ma se gli manca Dio è il più gran povero che c’è! Nella tomba non potrà portarsi nulla di quello che ha! Se invece, come chiede Gesù, ci “si arricchisce presso Dio” tutto è diverso.
E’ un po’ anche questo e altro ancora che sta alla sorgente di una vocazione beedettina come quella ricevuta da D. Alfonso che oggi festeggia i 50 anni del suo impegno, con la professione monastica, a vivere con gioiosa intensità la sua identità di monaco benedettino olivetano. 50 anni: un bel compleanno, un lungo filo di grazia sul quale d. Alfonso ha avvolto la sua vita e sul quale è inciso soprattutto il nome di un luogo: Rodengo. E quindi è molto bello che, voi del paese siate presenti numerosi insieme a noi monaci - di questo monastero e di Monte Oliveto - per associare tanti e assortiti sentimenti di riconoscenza e gratitudine.
50 anni: è la festa dell’incontro di due fedeltà: quella da parte di Dio e quella da parte del monaco. Ma è soprattutto la prima che conta perché l Signore sa che siamo fragili. Dio non cerca e non chiama uomini perfetti. Ci prende come siamo, con i nostri chiaro-scuri, con le nostre ombre, con i nostri limiti di ogni tipo. Basta far salire Lui nella barca della nostra vita, anche se la barca magari fa acqua da tutte le parti. Non dimentichiamo che non siamo noi a scegliere Lui ma Lui ha scegliere a noi. Questo ci può essere di conforto. Certamente ci sono persone migliori di noi, con più qualità e capacità, ma Dio fa come gli pare, può scegliere anche quelli sono considerati o che si sentono loro stessi degli scarti, inadeguati, pieni di limiti e fragilità anche grosse. Dio può far saltare tutte le cosiddette controindicazioni. Sì, può scegliere degli stracci per farne tovaglie d’altare. Molti invece si avvicinano a Dio con il progetto personale della propria vita cercando quasi di strappargli la firma di approvazione. Non si può fare così. Bisogna seguire quello che è il suo progetto su di noi, qualunque esso sia. Occorre massima fiducia e serena apertura alla sua volontà.

domenica 28 luglio 2013

17ma DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Con una concretezza semplice, umile e calda, Gesù nel contesto di una catechesi sulla preghiera, ci insegna il Padre Nostro (la redazione di Luca è più breve di quella di Matteo che lo inserisce a conclusione del cosiddetto Discorso della Montagna) che non è solo una preghiera da dire ma una preghiera da fare, un programma di vita, perché in essa si condensano tutte le principali lezioni del Vangelo. Più che una preghiera da imparare è una preghiera che ci fa imparare, perché è come uno specchio nel quale vedere come diventare copia conforme all’originale, il Cristo. Una preghiera che è anche un serio esame di coscienza.
Riflettendo sul Padre Nostro si va infatti in molte direzioni. Noi stasera ne imbocchiamo almeno una. Una preghiera-specchio ma anche una preghiera-tranello: “perdona a noi le nostre colpe come noi le perdoniamo a chi ci ha offeso”. Una domanda in cui non solo chiediamo qualcosa, ma anche promettiamo qualcosa e, precisamente, di perdonare, a nostra volta, gli altri. Per ricevere il perdono di Dio occorre essere a nostra volta pronti a darlo. La porta da cui entra il perdono di Dio è la stessa da cui esce il nostro perdono, perché il perdono non si concede ma si condivide. La pace con Dio ha un prezzo: quella di farla con chi ci ha offeso o fatto del male. La Regola ci ammonisce: “Tornare in pace prima che tramonti il sole con chi è in discordia con noi” (RB 4,73) che si ispira ad Ef 4,26 : “Non tramonti il sole sopra la vostra ira”.
C’è quel paletto: “ante solis occasum”... Le “scandalorum spinas”-“le spine dei contrasti” (RB 13,12) che non mancano mai nella vita comunitaria, formato small o extralarge, devono essere prontamente risanate, sia per evitare che una piccola frattura degeneri in una rottura ricomponibile poi con maggiore difficoltà sia perché il differimento potrebbe portare ad una situazione insanabile o quasi. Si va avanti per settimane, mesi, forse anche anni con questo inquinamento interiore. Proprio per questo, nel cap. 13mo della Regola, S. Benedetto, chiede all’Abate di dire il Padre Nostro al termine dei Vespri. Penso che sia difficile per i monaci, in quel momento inchinati profondamente, sottrarsi all’urto delle parole cantate dall’Abate: “dimitte nobis debita nostra sicut et nos dimittimus debitoribus nostris”. Quel “sicut - come” non è una pretesa di Dio ma è una clausola luminosa! Chi non perdona rompe il ponte sul quale egli stesso deve passare. Ci sarà capitato di sentir bussare alla porta della nostra cella e trovarci di fronte un confratello che ci viene a chiedere scusa per un comportamento sbagliato, per una parola di troppo, una discussione in cui ha trasceso. Se proprio non si ha un cuore indurito e superbo, si resta disarmati, senza parole; magari viene anche un nodo alla gola. Poi si prova una grande gioia.
Il perdono fa più bene a chi lo da che a chi lo riceve, perché mentre lo si da si espelle il veleno del risentimento e della rabbia. E, invece, purtroppo ci sono alcuni in cui da tempo, da troppo tempo, ringhia un ostinato rancore. Con il perdono dato e ricevuto ci si sente meglio. Tra parentesi: le scienze mediche oggi scoprono sempre più come il perdono sia anche una causa di salute, di benessere fisico!
Il Padre Nostro: una preghiera semplice ed essenziale, da dire con il dialetto del cuore, dove mai si dice “io”, dove mai si dice “mio”, ma sempre “tuo” e “nostro”. Gesù mette in fila le poche cose indispensabili per vivere bene: il pane, il perdono e l’impegno contro il male.
Una preghiera dove si avverte il respiro di Dio che ci viene consegnato come Padre.
Accogliamo il Padre Nostro dalle mani di Dio: a volte sono mani di gioia, a volte sono mani di dolore, ma sono sempre mani di amore.

domenica 21 luglio 2013

16ma DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

L’ “alto” e l’altro…
Con il Vangelo di questa domenica, ci vengono incontro due sorelle, Marta e Maria, due amiche di Gesù insieme con il fratello Lazzaro. Bisogna accantonare l’interpretazione datata e superata che vede in Marta l’immagine della vita attiva e in Maria di quella contemplativa, con un 30 e lode alla seconda e un 18 alla prima. Marta e Maria sono un’unica icona. Ma resta lì, e nessun esegeta lo può cancellare, l’affettuoso e delicato rimprovero di Gesù: “Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una sola cosa c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore che non le sarà tolto” (Lc 10,41). Qual è questa parte migliore, scelta da Maria? E’ tutta condensata in un verbo: “seduta”… “Maria seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola” (Lc 10,39). Si mette a scuola di Gesù che gli fa imboccare la strada del darsi. Marta si limita a quella del dare.
Marta accoglie Gesù in casa ma lo tiene fuori da se stessa. Maria ospita Gesù nella sua interiorità, come fosse un tabernacolo.
Marta offre delle cose. Marta offre se stessa.
Marta fa. Maria “è”.
Marta si caratterizza per i brontolamenti. Maria per lo stupore estatico di stare in compagnia di Gesù.
Marta sente. Maria ascolta. C’è differenza tra sentire e ascoltare. Sentire è un problema di acustica, ascoltare è un problema di cuore. Ascoltare è sedersi vicino a qualcuno. Non sbirciare l’orologio. Si ascolta con le orecchie, ma si ascolta con lo sguardo. Si ascolta con gli occhi. Si ascolta con le mani che si tendono per aiutare.
Ma non si tratta di scegliere tra Marta e Maria. La dimensione Marta e la dimensione Maria devono coabitare in noi. Marta e Maria, non Marta o
Maria. Sono due sorelle e vanno tenute insieme. Marta non può fare a meno di Maria, perché il nostro servire ha la sua sorgente in Dio che fa grande e buono il cuore. Maria non può fare a meno di Marta, perché l’amore per Dio non ci fare le corse con gli angeli in cielo ma ci fa muovere i passi in gesti concreti. I pensieri più belli e profondi che sono quelli targati servizio, nascono in ginocchio. Perché è davanti al Signore, all’Eucarestia, che impariamo a servire nel modo giusto. Altrimenti, tutti i nostri gesti di bene sono come il rumoroso agitarsi delle pentole e dei mestoli di Marta.
Marta e Maria si tengono per mano per farci capire che l’amore è un binario doppio: Dio e i fratelli. Avere le mani di Marta e il cuore di Maria. Scocca qui, per ognuno di noi, la doppia beatitudine: “Beati quelli che ascoltano la Parola di Dio. Beati quelli che la mettono in pratica” (Lc 8,21).

domenica 14 luglio 2013

15ma DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Avanti il “prossimo”! Ma chi è?
Tutti conosciamo la parabola del Buon Samaritano che costituisce la terza Lettura della 15ma Domenica del Tempo Ordinario dell’Anno C.
Questa parabola, probabilmente tratta dalla cronaca nera del tempo, si snoda tra due domande. Quella iniziale: “Chi è il mio prossimo?” e quella finale: “Chi ha dato prova di essere il prossimo ?”.
Gesù non snobba la prima domanda, postagli da un dottore della legge. Sembra che Gesù non ami discutere con gli intellettuali. Porta il discorso su un terreno concreto. “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico”. “Un uomo”. Gesù non aggiunge un aggettivo che lo inquadri. Non ha un nome, perché può avere uno qualsiasi dei nostri nomi. Quella strada, la strada da Gerusalemme a Gerico, passa dappertutto, anche dal nostro monastero. La strada da Gerusalemme a Gerico, allora notoriamente pericolosa, è lunga 27 chilometri. Sufficienti a dividere le persone in due categorie. Quelli che tirano diritti e coloro che si fermano per occuparsi della sofferenza altrui. 27 chilometri, per noi anche meno. Può anche essere solo un corridoio. O i pochi metri che separano la nostra cella da quella dove forse c’è chi ha bisogno di me. Quella è la nostra personale strada che scende da Gerusalemme a Gerico dove, se perdo tempo, guadagno però l’eternità.
Tornando alla parabola, sappiamo che quell’uomo ferito viene incrociato da un sacerdote e da un levita. Questi due non sembrano fare una bella figura perché per entrambi va in onda la stessa sequenza di indifferenza. Nella loro agenda liturgica non era fissato l’appuntamento con quell’uomo ferito. Essi sterzano il loro sguardo dall’altro lato della strada. Verrebbe voglia di rincorrerli, tirarli per i vestiti e domandare: Perché non vi siete fermati? Ma non lo avete visto quel poveraccio? Certamente lo hanno visto, ma sono proseguiti imperterriti autogiustificandosi con delle ragioni. Anche noi, qualche volta, abbiamo una scorta di motivazioni per sottrarci agli impegni dell’amore. “Non è compito mio, ci deve pensare l’Abate, c’è un Procuratore, c’è già un incaricato ecc…”. Ma tutte le nostre presunte valide ragioni, davanti a Dio, equivalgono ad avere torto. Colpevoli di aver fatto tacere il cuore. E’ il tuo fratello: questo titolo è sufficiente e lo legittima ad avere il tuo aiuto. Il nostro cuore deve saper trovare un varco tra le maglie di eventuali e rigide armature interiori.
Impariamo dal Samaritano. Luca sgrana dieci verbi per descrivere il suo amore, una vera e toccante liturgia della compassione: lo vide, si mosse a pietà, si avvicinò, versò, fasciò, caricò, lo portò, si prese cura, pagò… fino al decimo verbo: al mio ritorno salderò il debito se manca qualcosa. 10 verbi, un nuovo decalogo. Ogni gesto è una miniera di riflessioni. Su quella strada non c’è stato solo l’agguato dei briganti ma c’è stato anche l’agguato dell’amore. Al v. 33 del cap. 10 di Luca ci dovrebbe essere registrato il nostro nome.
Possiamo allora capire la domanda finale di Gesù che sposta i termini e il senso della questione. Non mi devo chiedere chi è il mio prossimo ma se io sono “prossimo”, cioè vicino.
“Anche tu fa lo stesso”, cioè “amerai”: un verbo al futuro perché amare è un’azione che non si conclude mai.
Questa parabola, insieme a quella del Figlio prodigo (meglio del Padre prodigo, prodigo di perdono) è al centro del Vangelo e, al centro della parabola, c’è un uomo. E un verbo: tu amerai.

sabato 29 giugno 2013

SOLENNITA’ DEI SANTI PIETRO E PAOLO

Stiamo celebrando la Solennità dei Santi Pietro e Paolo, le due colonne e i due polmoni della chiesa.
Pietro: il pescatore di Cafarnao, uomo semplice e rozzo, entusiasta e irruente, generoso e fragile. Unico per quella sua solare professione di fede, che è un resumé di teologia allo stato puro: “Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio”. E che si accorda alla pagina di Giovanni (21, 15-19), letta all’Ufficio delle Letture, dove Gesù chiede per tre volte a Pietro se lo ama. “Signore, tu conosci tutto, tu sai che ti voglio bene” (Gv 21,17). E’ stato un po’ l’esame di maturità di Pietro!
Paolo: l’intellettuale raffinato e polemico, lo zelante e fanatico persecutore, il convertito divorato dalla passione per Cristo. E’ significativo che questo nome - Christos - ricorra ben 400 volte nel corpus dei suoi scritti! E’ il dato biografico più importante e più bello di Paolo. Senza di lui il Vangelo sarebbe rimasto chiuso nel piccolo orizzonte di Israele. Con lui, ha valicato i confini e la storia.
Pietro: rinnegatore di Gesù. La sua storia ha un’impennata inattesa quando sbatte la testa contro i suoi limiti. Uomo abituato alle ruvide corde, all’odore pungente del pesce, alle lunghe noti passate in mare, scelto per custodire la nostra fede. Capace di piangere i suoi sbagli. Per questo pianto noi ti amiamo, Pietro, per questo tuo silenzioso singhiozzare di amico fedele, perché la tua fragilità e la tua paura sono anche le nostre.
Nonostante il suo tradimento, Gesù lo rende il primo - il leader fra gli Apostoli, consegnandogli la responsabilità di guidare la Chiesa. Ogni Papa, con la sua fede-roccia (super hanc petram!), con la potestà delle chiavi, con l’uso del binomio legare-sciogliere, è il Pietro del suo tempo.
Dio non guarda i meriti perché il suo amore non lo si merita ma lo si accoglie e condivide. Anche chi tra noi proviene da fragilità, miserie e debolezze assortite se se ne pente, può sperare e ottenere fiducia da Dio che trasforma in positivo la nostra vita. I Santi non sono coloro che non sbagliano mai, non cadono mai, non peccano mai, ma sono piuttosto coloro che, quando sbagliano si ravvedono, quando cadono si rialzano, quando peccano si pentono. La grandezza di Dio è sempre superiore ai nostri sbagli.
Adesso riascoltiamo quella inquietante domanda di Gesù, la domanda delle domande, che dal plurale si restringe al singolare: “Chi sono io per te?”. Una domanda che forse vogliamo fuggire, perché ci mette al muro. La risposta vera deve essere personale. La nostra risposta, come quella di Pietro, deve pennellare il rapporto che abbiamo con Gesù. Riguarda il “come” e il “quanto” collochiamo la sua presenza nelle nostre 24 ore. Cristo non è ciò che dico di Lui, ma ciò che vivo di Lui. “Chi sono io per te?”. Domanda da amare.

domenica 23 giugno 2013

PRIMI VESPRI DELLA SOLENNITA’ DELLA NASCITA DI S. GIOVANNI BATTISTA – Vestizione del postulante Ezio

Carissimo Ezio, mi sembra oltremodo significativo che la tua vestizione, come novizio, avvenga nel contesto della Solennità della nascita di Giovanni Battista.
Egli nasce inatteso e fuori tempo come una sorpresa. Entra nella storia con un nome, Giovanni - “Dio fa grazia” - che è la sua identità, la sua vocazione. Un nome che è come una fotografia. Giovanni, era anche il nome del nostro Fondatore prima di assumere quello monastico di Bernardo. Giovanni: un nome carico di futuro, anche se nelle pieghe dell’imprevedibile. Come lo è il nome di ciascuno di noi. Come lo è e lo sarà il nome monastico che tra poco riceverai.
Come ciascuno di noi, anche tu non sei nato per caso ma per compiere un sogno di Dio. Ed è nella volontà del Signore, da te scoperta, accolta e realizzata con umile disponibilità nel nostro monastero che risiede e risiederà la tua pace interiore. Come il Battista, anche tu sei chiamato ad essere un testimone limpido della potenza di Dio che si manifesta nella debolezza. Il padre del Battista, Zaccaria, era rimasto muto perché non aveva creduto all’annuncio dell’angelo. Eppure il suo dubitare non ferma Dio e questo è molto consolante per noi: i nostri limiti, le nostre fragilità non bloccano Dio che appunto sa scrivere diritto su righe storte.
Giovanni Battista è il Precursore del Salvatore ma è anche il precursore dei monaci, a motivo della sua scelta di vita nel deserto dove, come ricorda Elredo di Rievaulx nel suo sermone Nella Nascita di Giovanni il Battista, “poté liberamente vedere e gustare come è buono il Signore” (Sl 30,20). Anche il monaco è chiamato ad essere un “precursore” di Cristo per molte persone, se non direttamente almeno con la preghiera e il buon esempio. Sii “voce”, proprio come il Battista.
In un museo tedesco, c’è un famoso dipinto in cui il Battista è raffigurato con un enorme indice puntato verso il crocifisso. E’ in questo atteggiamento che si riassume la sua storia e la sua vocazione. Anche, tu fai tuo questo atteggiamento, su di esso plasma la tua vita in ogni direzione. Se metti
La voce di Giovanni, con il suo appello alla conversione, risuona ancora oggi, non più nel deserto della Giudea ma, per te e per tutti noi monaci, nel nostro monastero che, come tutti i monasteri, è una chiesa addossata al deserto.

domenica 9 giugno 2013

DOMENICA DECIMA DEL TEMPO ORDINARIO

Gesù e un corteo funebre. La Vita incontra la morte. E, su tutto l’episodio, quelle parole: “ne ebbe compassione”.
Una madre privata dell’unico figlio. In quella bara ci sono due vite. Il suo viso rigato di lacrime che disegnano sentieri dolcissimi di nostalgia del figlio, è una preghiera senza parole. “Vedendola…”, ci dice Luca riferendosi a Gesù. “Vedere” non è solo posare lo sguardo sull’altro ma è farlo entrare dentro di se, perché l’occhio è la vera finestra del cuore. Così fa Gesù, anzi il Signore, come lo chiama quasi d’improvviso Luca. Gesù, che ha in sé cuore di uomo e cuore di Dio, si commuove. “Ne ebbe compassione”, traduzione pallida di un verbo greco che significa sconvolgimento dentro di sé insieme ad un’incontenibile tenerezza. La terra che più tardi berrà il suo sangue, adesso beve il suo piangere commosso. Il Signore raccoglie ogni nostra sofferenza, ogni nostra paura, ogni nostra malattia, ogni nostra tristezza. Ogni nostro pianto più o meno sommesso. Con noi, in quei momenti, anche Dio è infelice.
La Vita tocca la morte. Quel figlio viene restituito vivo a sua madre.
“Non piangere” le ha detto Gesù. Lo dice a tutti noi. Equipaggiati di questo suo annuncio, possiamo vincere ogni paura. Egli ripete a ciascuno di noi: “Ragazzo, te lo dico io: alzati!” (lc 7,14). E quanto è bello quel “te lo dico io”, quanto da pace e sicurezza, quanto ci fa abbandonare in Dio ed avere più fiducia nella vita.
Ma, anche noi, se abbiamo compassione, possiamo compiere dei piccoli miracoli. In certe tristi situazioni sono più efficaci le lacrime delle parole. Qualche volta, invece di dire “non piangere” sarebbe bello chiedere di poter piangere insieme perché ci sono dolori più grandi di noi, ci sono dei drammi più grandi della nostra intelligenza.
Ci sono tante “risurrezioni” possibili, se non necessarie, da attuare. Anzitutto, dentro di noi. Possiamo avere forse una fede spenta, un cuore sotto anestesia, sepolto dall’egoismo e dall’indifferenza. Una coscienza disattivata da troppo tempo. Addirittura ci può essere un’anima morta dentro di noi. Le peggiori morti sono quelle spirituali anche se dall’esterno non si notano. Sono molte e variegate le situazioni verso le quali esercitarci in tentativi di restituzione alla vita. Sono miracoli alla nostra portata.
A pensarci bene, ci sono anche vivi da risuscitare! Persone che non si aspettano più nulla. Persone mai amate o mal amate. Persone paralizzate dalla solitudine o dalla disperazione, magari per una brutta malattia. Persone che hanno perso la voglia di vivere o che sono stanche di non vivere. Prima o poi incontriamo qualcuno che ci offre la possibilità di rappresentare Dio che ama la vita, cambia la vita, restituisce la vita.
Essere cristiani non significa solo avere il coraggio della propria fede ma avere anche il coraggio del proprio cuore, commisurato su quello di Cristo.

venerdì 7 giugno 2013

SOLENNITA’ DEL SACRO CUORE DI GESU’

A pochi giorni dalla Solennità del Corpus Domini, celebriamo oggi quella del Sacro Cuore di Gesù. Nel cuore del Figlio c’è tutto il Padre. Dio è “cuore”! E è questa la conclusione cui si arriva dopo aver ascoltato la parabola di Gesù che, insieme ad altre due, Luca raggruppa nel capitolo 15° del suo Vangelo e che vengono significativamente collocate sotto il comune denominatore della misericordia.
Viene abitualmente chiamata la parabola della pecora smarrita. Non è un raccontino strappa lacrime anche se commuove. In realtà, dovrebbe essere definitiva come la parabola dell’uomo dalle cento pecore. E’ lui, il proprietario e pastore, che sta al centro. Un comportamento un po’ atipico e strano il suo, anzi piuttosto imprudente. Ne lascia 99 incustodite per cercare quella non smarrita ma perduta. Dio non ragiona come il contabile di una ditta. Per una, rischia tutte le altre. Sembra quasi che Dio sappia contare solo fino ad uno. E’ la logica del suo amore esagerato che non si rassegna a perdere nessuno di noi. Questa ostinazione di Dio ci è rivelata da un avverbio: “finchè…”. Dio non accetta il fallimento del suo amore per ciascuno di noi. Non vuole un posto vuoto in cielo. In un libro dedicato all’arte romanica, ho notato che in uno dei capitelli di una basilica si contempla il Cristo, che appena risorto, va all’albero da cui pende Giuda e se lo mette sulle spalle. Quelle spalle che hanno portato il peso della croce diventano lo spazio su cui ognuno di noi può essere portato col suo carico di debolezze e fragilità.
A questo punto, il vero protagonista della parabola è la gioia che celebra un amore che non si è arreso. Una gioia che si trasferisce anche in cielo: “… così vi sarà gioia nel cielo”. (Lc 15,7).
Entriamo nel Cuore di Dio attraverso l’accesso unico, il solo, il sole di quel Cuore: Gesù.
Per entrare nel cuore di Dio e nel nostro stesso cuore basta un nome: Gesù!
E saremo salvati da tutto ciò che non è amore.
Inizio: A pochi giorni dalla Solennità del Corpus Domini, celebriamo oggi la Solennità del Sacro Cuore di Gesù, che ha riferimenti biblici saldi e profondi. Un Cuore che ci rivela il Padre. Un Cuore che ci educa a vivere nell’amore.

venerdì 31 maggio 2013

FESTA DELLA VISITAZIONE DELLA B.V.MARIA

Se l’Annunciazione è il “che cosa” è successo a Maria, la Visitazione è il “che cosa” Maria fa succedere.
Maria canta il suo Vangelo=lieta notizia, il Magnificat - che si snoda in una serie di contrasti - infatti è un’esplosione di gioia. Una specie di voce solista verso il cielo. “Magnificat”: Maria accoglie Dio nella grandezza che Lui ha. Ognuno di noi riceve Dio nella misura un cui lo “magnifica”, cioè gli cede grande spazio nella sua vita e questo comporta rimpicciolire il proprio io, spesso troppo ingombrante.
Maria va da Elisabetta: è il primo viaggio apostolico!
Maria in viaggio è come un ostensorio che cammina, perché porta Gesù ad Elisabetta che conierà per lei la prima beatitudine del vangelo, centrata sulla fede: “Beata colei che ha creduto…” (Lc 1,45). Per sapere se i nostri rapporti interpersonali sono positivi e sani, la prova è se ci portano Dio e dunque la gioia, quella vera.
Dei 14 verbi del Magnificat, 10 sono riferiti a Dio: ha guardato, ha fatto, ha spiegato, ha disperso, ha rovesciato, ha innalzato, ha ricolmato, ha rimandato, ha soccorso, si è ricordato. Maria, maestra di stupore, ci sgrana un crescendo di verbi in chiaro-scuro che sono una celebrazione riassuntiva della Storia della salvezza. Ci insegna a stupirci anche per ciò che la mano di Dio compie nella nostra vita.
Come ha fatto Maria, la vera fede non è mettere al centro quello che io faccio per Dio ma ciò che Dio ha fatto e fa per me. Lui, non io. L’ubriacatura peggiore che può capitare è quella di se stessi.
La Regola di S. Benedetto non parla espressamente di Maria, ma possiamo trovarne la presenza discreta in tre capitoli: il 5° sull’obbedienza, il 6° sul silenzio, il 7 sull’umiltà. Obbedienza-silenzio-umiltà sono tre virtù mariane. Così pure, il Prologo se lo leggiamo attentamente è un po’ come l’annunciazione fatta al monaco. Sarebbe interessante esaminarlo sotto questo profilo. Pensiamo, ad es. a Prol 14-16…
Così pure, non si trova nessun riferimento al Magnificat, tuttavia ne possiamo ritrovare alcune tracce che ne fanno presente lo spirito: “ Il bene di cui si è capaci, attribuirlo a Dio e non a se stesso” (RB 4,42), equivale a dire: “Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente”. E, il Prologo, completa: “… il bene lo ritengano dovuto da Dio e non per proprio merito, e per questo magnificano il Signore che opera in loro” (Prol 29). Non è forse questo “operantem in se magnificant Dominum”la traduzione monastica del Cantico di Maria?
Magnificate Dominum mecum, ci dice Maria.

domenica 19 maggio 2013

PENTECOSTE

Sette settimane dopo la liberazione della Pasqua, il Risorto ci regala da parte di Dio Padre una persona viva: lo Spirito Santo, dito di Dio che ci modella interiormente e, lavorando di cesello, costruisce in noi i lineamenti di Gesù. In un certo senso, compie incessantemente in noi quanto ha operato in Maria: ci porta Cristo dentro, ci porta la Parola carica di semi di vita nuova, suscitandoci energie forse insperate e insospettate. Travolgente come un ciclone, leggero come un soffio, delicato come un respiro, inaspettato come un dono, anzi, il dono dei doni, lo Spirito Santo è il debordare di un amore inquieto - quello trinitario - che dilaga e si fa strada verso i nostri cuori. Oltre ai magnifici sette, lo Spirito Santo ci porta anche il dono della luce della verità, ma nella Chiesa, dove tutte le verità si danno appuntamento. La Pentecoste è l’Epifania della Chiesa che si trova catapultata ad annunziare il Risorto. La seconda lettura accenna ad un “vento impetuoso” che scende sugli Apostoli asserragliati nel cenacolo. Strano, non succede quasi mai (dicono) in primavera, a Gerusalemme. Ma non è un vento: è un uragano. Un uragano che li scompiglia e li scapiglia, li converte in evangelizzatori.
La Pentecoste è la globalizzazione di Dio, il contrario della babele creata dagli uomini: in questa, confusione di lingue, in quella, un’unica lingua: quella dell’amore fatta più di gesti che di parole. Un codice comportamentale che tutti abbiamo dentro il cuore, anche i più scorbutici ed introversi.
Lo Spirito Santo è la carezza di Dio sul nostro cuore, è la voce di Dio nella nostra coscienza, è la mono forte di Dio nelle nostre debolezze.
Lo Spirito Santo è colui che ci consola quando siamo stanchi e sfiduciati, è Colui che guarisce le nostre ferite più segrete o quelle provocateci dalla cattiveria di qualcuno che vive con noi. Se capiamo l’importanza di inserire lo Spirito Santo nel nostro circuito esistenziale, allora lo invocheremo spesso e non solo nelle grandi occasioni: prima di pregare, prima di prendere una decisione, prima di telefonare ad una persona speciale, prima di accostarci al perdono nella confessione. “Sine tuo numine…” “senza la tua forza, nulla è nell’uomo”, ci ha ricordato la bella sequenza cantata prima della proclamazione del Vangelo. Una sequenza, nel Medioevo chiamata “aurea” per la ricchezza del suo contenuto.
C’è sempre una persona da incontrare, da accogliere, da consolare, da amare. Questa è la vita dello Spirito e nello Spirito. Diamogli voce.

sabato 18 maggio 2013

VEGLIA DI PENTECOSTE

La mattina di Pentecoste è per la Chiesa l’inizio del suo porsi al cuore dell’umanità come sale e come lievito, capaci di scomparire senza per questo essere assenti.
Dopo il trauma della Passione e lo shock della risurrezione, gli apostoli vengono spinti fuori dal cenacolo per rivelarsi come Chiesa che sta sulla soglia, dove l’incontro con Dio e il confronto con l’altro sono obbligati e necessari.
Nell’ultima veglia di Pentecoste ho condiviso con voi una riflessione sullo Spirito Santo nella Regola di S. Benedetto. Questa volta vorrei parlare di una certa amnesia che i credenti soffrono a proposito dello Spirito Santo. Mi faccio aiutare da un raccontino, udito dal Vescovo di Rovigo, venuto a celebrare nel nostro Santuario di Lendinara l’ultima solennità di Pentecoste prima del Capitolo Generale. L’ho rielaborato con le mie parole ma il contenuto è lo stesso. Un giorno, in un aeroporto, tutto era pronto per la partenza di un volo, ma si era scatenato un temporale violento. Quando i passeggeri furono saliti e le valigie caricate, la hostess chiuse i portelloni. Tutto era pronto per il decollo, nonostante la pioggia. Ad un certo punto però si sentirono dei colpi al portellone. La hostess vide un uomo che bussava insistentemente e disse a costui: “Non è possibile aprire, tutto è a posto, stiamo per partire”. Ma quell’uomo non mollava e continuava a bussare. Allora la hostess, esasperata da quell’insistenza, decise di aprire il portellone e si accorse che quell’uomo era…il pilota!
Lo Spirito Santo a volte è come il grande dimenticato. Lo Spirito Santo è l’ovvio necessario. Una sentinella distratta è un nemico dentro le mura.

mercoledì 15 maggio 2013

FESTA DELLA MADONNA DI MONTENERO

Un mosaico perfetto. Maria si accorge, Gesù interviene, i servi obbediscono.
Quando nella nostra vita viene a mancare il vino, che nel linguaggio biblico è simbolo di gioia, di pace e serenità, c’è sempre la madre di Gesù che ci indica il percorso e le modalità da seguire per trasformare una difficoltà in un’occasione di positivo, una ferita in una nuova possibilità. Questo brano evangelico, tutto patinato di luccicante simbolismo, è certo cristologico (il nome di Gesù ritorna per sei volte), ma mette in primo piano la sensibilità e la delicatezza di Maria che non dice “Non c’è più vino” ma: “ “Non hanno più vino”, mettendosi dalla parte degli sposini che vedevano naufragare la loro festa. Quando si ascolta una mamma, soprattutto LA mamma - Maria - non si può sbagliare, perché lei ci riporta sempre a Gesù. A volte, il nostro equilibrio interiore può appannarsi, perché mancano nella tavolozza dei nostri colori quelle intensità che vengono dal cuore che originano scelte spirituali forti, che ci danno quella semplicità che rende grandi le cose apparentemente insignificanti della nostra vita quotidiana. Dio è attento, si occupa e preoccupa della nostra gioia che ci dona senza calcolo: erano 600 i litri di vino!
E siccome Dio non guarda i meriti ma le nostre necessità, alla povertà del nostro cuore fragile come una barca di canne: riempiamo d’acqua, fino all’orlo, le nostre anfore, essa si trasformerà nel vino di quella gioia che solo Dio, e non altri, ci può dare. Una gioia – quella sì – davvero DOC! Lasciamo che Gesù ritenti anche per ciascuno di noi lo stesso miracolo compiuto a Cana.

domenica 12 maggio 2013

SOLENNITA’ DELL’ASCENSIONE

No, non se ne è andato …
Gesù ha preso, per così dire, la doppia cittadinanza: quella del cielo e quella della terra. Perciò, l’Ascensione non è la festa della partenza ma è la festa della … permanenza! Gli Angeli stessi si sono lasciati sfuggire un indizio: “Perché state a guardare il cielo?”. Come a dire: è nel “basso dei cieli”, cioè sulla terra, che dovete guardare per trovare Gesù. Per cui non ci sono ore piccole e ore grandi nella nostra vita, perché ogni ora ci riserva la sorpresa della Sua presenza, che è una primavera infinita. Le sua mani sono impigliate nel folto della nostra vita, anche in certe paludi del nostro cuore. L’Ascensione … come un gioco, per farci innamorare ancora più di Lui!
E’ vero che con l’Ascensione si conclude il tempo del Gesù storico e sboccia quello della Chiesa nata dalla fede nel Salvatore, ma Gesù non fa le valigie e lascia gli apostoli e noi da soli. L’Ascensione non è un sottrarsi di Gesù ma un moltiplicarsi della sua presenza; non è una sua evasione ma l’invasione di tutto il cielo nella terra.
La sua apparente assenza comporta ritmi di presenza: nella Chiesa, nei segni sacramentali, negli occhi degli altri. Gesù non è finito nei quartieri residenziali del cielo, ogni luogo conserva la memoria segreta che Lui la abita. Quei suoi piedi che hanno camminato duemila anni fa in Palestina, girano oggi per le nostre strade. L’Ascensione ci fa anche capire che non c’è solo la forza di gravità che porta verso il basso, ma anche una forza di gravità che punta verso l’alto. E’ quel’istinto o nostalgia di cielo che tutti abbiamo dentro, anche se a volte non lo vogliamo riconoscere.
Luca ci ha riferito: “E, alzate le mani, li benedisse” (Lc 24,50). Questa è l’ultima immagine che rimane negli occhi degli Apostoli. Una benedizione che continua e raggiunge ciascuno di noi, come un abbraccio di grazia. Sappiamo che il nodo è un simbolo dell’amore. L’uomo è un nodo di umano e di divino, di tempo e di eterno, di sangue e di cielo. Questo nodo che è ciascuno di noi, diventa un nodo di sole per quella benedizione di Gesù, che corrisponde ad un’enorme investimento di fiducia e speranza su di noi perché ci chiede di essere suoi testimoni, scrivendo con i fatti una sorta di Atti degli Apostoli parte seconda. Siamo chiamati ad essere la trascrizione visibile e credibile del Risorto. Siamo chiamati ad essere la trasparenza limpida, fedele, serena del’amore di Dio.

venerdì 3 maggio 2013

SANTI FILIPPO E GIACOMO, APOSTOLI

Filippo, con disarmante semplicità da un vestito di parole alla richiesta che urge, da sempre, anche nel cuore di ogni uomo, come documenta l’AT: “Il tuo volto, Signore, io cerco, mostrami il tuo volto” (Sal 27,8). La nostalgia di quella sorgente - Dio - da cui siamo sgorgati.
“Chi vede me, vede il Padre”, e Lui è sempre a nostra portata di mano. Nel’Eucarestia, ecco perché sono necessarie soste davanti al tabernacolo che danno poi spessore di autenticità a tutto ciò che facciamo lungo la giornata; nel nostro cuore, da ascoltare nel silenzio, nei fratelli che la volontà e la fantasia di Dio ci ha messo accanto nel monastero. Nelle pieghe del quotidiano, dove ha domicilio, Lui ci da tanti e ripetuti appuntamenti, perché possiamo vederlo, toccarlo, gioire della sua presenza. Come non ricordare quei versetti della Prima Lettera di Giovanni: “… ciò che noi abbiamo visto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato” (1Gv 1,1). L’esperienza di Giovanni, il discepolo che ha toccato Gesù, non solo con le mani ma anche con il capo, è possibile anche a noi. E’ importante impegnarsi in questa direzione se vogliamo “perseverare nel monastero fino alla morte” (RB Prol 50). Come ricorda H. U. von Balthasar, in una sua riflessione sulla Regola benedettina: “Il monaco persevera nel monastero perché persevera in Cristo“.
Un piede e una gamba sono le due reliquie dei Santi Filippo e Giacomo: in fondo sono due messaggi da raccogliere nella loro provocazione fisica e vengono a dare un profilo concreto a quella liturgia esistenziale delle “ore” che è intermezzata da quella celebrata nel coro monastico. Il piede, per richiamarci le orme del Cristo da vedere nei nostri ambienti di vita e avere così la gioiosa certezza che sta con noi, che ha posto i suoi piedi accanto ai nostri. La gamba, come l’umile ma robusta icona di una spinta missionaria per evangelizzare prima di tutto il nostro cuore dove forse ci sono delle zone, degli angoli dove Gesù ancora non è arrivato. E, trasmettere in diretta Gesù, con quel fervor caritatis cui accenna Benedetto in alcuni capitoli della Regola, con l’immediatezza di un testimone oculare, con un annunzio che adotti quel codice infallibile e contagioso di trasmissione che è l’esempio.

lunedì 29 aprile 2013

FESTA DI S. CATERINA DA SIENA

Mistica, stimmatizzata, energica donna d’azione, operatrice di pace, abile diplomatica, fine mediatrice. Riporta il Papa (“il dolce Cristo in terra”) a Roma. Ricuce lo strappo di uno scisma. Analfabeta, ma ci ha lasciato lettere (ben 13 ai monaci olivetani) che sono capolavori di spiritualità. Questo, e altro ancora, è stata S. Caterina, compatrona d’Europa, patrona d’Italia insieme a S. Francesco d’Assisi e, con S. Teresa d’Avila, tra le prime donne ad essere proclamata Dottore della Chiesa.
Il brano di Vangelo proclamato, che riprende la logica delle Beatitudini, considerato un po’ come il “Magnificat” di Gesù, ci aiuta a cogliere il “segreto” di questa grande Santa: la sua vita è stata improntata a quella dei “piccoli” di cui parla Gesù. Essi non sono soltanto i bambini che sono i nostri migliori maestri, perché sono disarmati e disarmati, semplici, diretti ed immediati. Ma, “piccoli” per Gesù sono anche i portatori di ogni tipo sofferenza. Questi li dobbiamo mettere in cattedra. Ci insegnano più loro che forse tanti anni di teologia. Passare un’ora sola con un malato, un sofferente ci fa entrare nel mistero di Dio: è teologia viva, è fare teologia allo stato puro. Ma i piccoli sono anche tutti coloro che non hanno il potere né il sapere né l’avere, come S. Caterina che era povera e illetterata. Inoltre, i piccoli sono quelli che abbandonano la pretesa di bastare a se stessi.
Gesù ci chiama a riposare in Lui, capace di ricaricarci, motivarci e farci riprendere il cammino dopo qualche possibile sbandata. Non è un rifugio di fortuna ma un porto di amore nel quale approdare. Ci chiama alla sua scuola per imparare la mitezza e l’umiltà. Gesù si impara imparandone il cuore, il modo di amare. Discepoli del suo cuore per non essere analfabeti del nostro cuore. Vuole che prendiamo su di noi il suo giogo, che è pesante e leggero insieme, perché amare da tanta gioia ma anche tanta sofferenza.

venerdì 26 aprile 2013

VENERDÌ DELLA QUARTA SETTIMANA DI PASQUA – Anniversario della Canonizzazione di S. Bernardo Tolomei (26 prile 2009)

Ricordare il felice anniversario della Canonizzazione di S. Bernardo Tolomei, significa e comporta anzitutto fare spazio ad un supplemento di riflessione sulla sua scelta di sequela Christi, con l’adozione della Regola Benedettina assumendo il progetto di vita concreta che essa propone. E il Vangelo di questo venerdì della quarta settimana di Pasqua ce ne offre sorprendentemente l’aggancio.
Gesù da una risposta chiara e lapidaria alla domanda di Tommaso: “Come possiamo conoscere la via?”. “Io sono la via, la verità e la vita”. Tre parole in crescendo. Tre parole immense che nessuna spiegazione può esaurire del tutto. Sono le tre “V” di Cristo, unico “navigatore” per approdare al Padre. Con lui non si può sbagliare strada. Gesù è la Via, perché ci manifesta la Verità che ci conduce alla Vita.
“Io sono la via”. Non c’è una strada da percorrere, ma una persona, se così si può dire. Percorrere Cristo vuol dire ripercorrere la sua vita con la mia vita, cioè rinnovare i suoi umanissimi gesti di amore, di accoglienza, di perdono: pregare come lui, pensare come lui, amare come lui.
“Io sono la verità”. La verità non sta in una definizione, in un libro ma in un “io” (ego sum veritas), la verità non è un sistema di pensiero ma una persona: Gesù. Le sillabe di questa parola sono i gesti e i detti di Gesù. Lui è la mappa colorata di cielo che ci porta al Padre.
“Io sono la vita”. Nella nostra esistenza ci dovrebbe essere questa proporzione: più Dio equivale a più io. Più Vangelo entra nella nostra vita, più si vive. Con l’adesione al Padre noi realizziamo pienamente noi stessi, a tutti i livelli. In Dio noi troviamo le risposte vere ai nostri interrogativi più drammatici: il dolore, la sofferenza innocente, la morte.
Guardiamo davvero a Gesù, come nostra via, nostra verità, nostra vita. Proprio come ha fatto San Bernardo Tolomei.

giovedì 25 aprile 2013

FESTA DI SAN MARCO EVANGELISTA

Stiamo celebrando e prega con noi, oggi, San Marco, o meglio, Giovanni (At 12,12) alias Marco, un evangelista forse ancora tutto da scoprire. Collaboratore per qualche tempo di Paolo e Barnaba nella missio ad gentes ma legato a Pietro del quale riflette la predicazione, ci presenta un vangelo che incastona agilmente pochi discorsi ma molti fatti, un vangelo visualizzato. Si tratta di 661 versetti - il più breve dei quattro vangeli - e proprio a motivo della sua sobrietà narrativa, per secoli è stato sottovalutato e interpretato come un riassunto di Matteo o di Luca e, forse proprio per questo, snobbato dai commenti dei Padri. In realtà è il più antico dei quattro vangeli, che ad esso si sono ispirati.
Adottando un linguaggio semplice, asciutto ma vivace, ci regala uno splendido ritratto di Gesù del quale, nel suo racconto, fa emergere in filigrana due tratti fondamentali: Gesù è il Messia (Cristo) ed è il Figlio di Dio. Ci disegna il volto umano di Dio, come al momento della morte in Croce e il volto divino dell’uomo, cioè il cristiano non è tanto uno che ha imparato tante cose su di lui ma è uno che cammina dietro a Gesù, fino al Calvario. In sintesi, vuole rispondere a due domande: chi è Gesù? (Mc 1,27 e 8,27) e, chi è il discepolo di Gesù?
“Initium evangelii Iesu Christi Filii Dei” (Mc 1,1) - Inizio del Vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio… E’ il mattutino in Marco. E’ un incipit che annovera due titoli cristologici: “Cristo” e “Figlio di Dio”. Due titoli cristologici che dovrebbero accompagnare il nostro respiro. Ecco perché l’incipit marciano dovrebbe essere l’incipit cristiano, il nostro incipit esistenziale
Non basta conoscere Gesù ma occorre condividerne anche il dramma, perché egli non è una dottrina da imparare, ma una persona da seguire.
Chiediamo a questo discepolo della prima generazione cristiana di saper scoprire, quando meditiamo sul Vangelo, che Gesù è il Figlio di Dio, accolto dal mondo intero, raffigurato dal centurione sotto la croce. E, come quest’ultimo, anche noi stupirci davanti a Gesù Crocifisso ed esclamare: “Davvero costui era il Figlio di Dio!” (Mc 15,39).