Avanti il “prossimo”! Ma chi è?
Tutti conosciamo la parabola del Buon Samaritano che costituisce la terza Lettura della 15ma Domenica del Tempo Ordinario dell’Anno C.
Questa parabola, probabilmente tratta dalla cronaca nera del tempo, si snoda tra due domande. Quella iniziale: “Chi è il mio prossimo?” e quella finale: “Chi ha dato prova di essere il prossimo ?”.
Gesù non snobba la prima domanda, postagli da un dottore della legge. Sembra che Gesù non ami discutere con gli intellettuali. Porta il discorso su un terreno concreto. “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico”. “Un uomo”. Gesù non aggiunge un aggettivo che lo inquadri. Non ha un nome, perché può avere uno qualsiasi dei nostri nomi. Quella strada, la strada da Gerusalemme a Gerico, passa dappertutto, anche dal nostro monastero. La strada da Gerusalemme a Gerico, allora notoriamente pericolosa, è lunga 27 chilometri. Sufficienti a dividere le persone in due categorie. Quelli che tirano diritti e coloro che si fermano per occuparsi della sofferenza altrui. 27 chilometri, per noi anche meno. Può anche essere solo un corridoio. O i pochi metri che separano la nostra cella da quella dove forse c’è chi ha bisogno di me. Quella è la nostra personale strada che scende da Gerusalemme a Gerico dove, se perdo tempo, guadagno però l’eternità.
Tornando alla parabola, sappiamo che quell’uomo ferito viene incrociato da un sacerdote e da un levita. Questi due non sembrano fare una bella figura perché per entrambi va in onda la stessa sequenza di indifferenza. Nella loro agenda liturgica non era fissato l’appuntamento con quell’uomo ferito. Essi sterzano il loro sguardo dall’altro lato della strada. Verrebbe voglia di rincorrerli, tirarli per i vestiti e domandare: Perché non vi siete fermati? Ma non lo avete visto quel poveraccio? Certamente lo hanno visto, ma sono proseguiti imperterriti autogiustificandosi con delle ragioni. Anche noi, qualche volta, abbiamo una scorta di motivazioni per sottrarci agli impegni dell’amore. “Non è compito mio, ci deve pensare l’Abate, c’è un Procuratore, c’è già un incaricato ecc…”. Ma tutte le nostre presunte valide ragioni, davanti a Dio, equivalgono ad avere torto. Colpevoli di aver fatto tacere il cuore. E’ il tuo fratello: questo titolo è sufficiente e lo legittima ad avere il tuo aiuto. Il nostro cuore deve saper trovare un varco tra le maglie di eventuali e rigide armature interiori.
Impariamo dal Samaritano. Luca sgrana dieci verbi per descrivere il suo amore, una vera e toccante liturgia della compassione: lo vide, si mosse a pietà, si avvicinò, versò, fasciò, caricò, lo portò, si prese cura, pagò… fino al decimo verbo: al mio ritorno salderò il debito se manca qualcosa. 10 verbi, un nuovo decalogo. Ogni gesto è una miniera di riflessioni. Su quella strada non c’è stato solo l’agguato dei briganti ma c’è stato anche l’agguato dell’amore. Al v. 33 del cap. 10 di Luca ci dovrebbe essere registrato il nostro nome.
Possiamo allora capire la domanda finale di Gesù che sposta i termini e il senso della questione. Non mi devo chiedere chi è il mio prossimo ma se io sono “prossimo”, cioè vicino.
“Anche tu fa lo stesso”, cioè “amerai”: un verbo al futuro perché amare è un’azione che non si conclude mai.
Questa parabola, insieme a quella del Figlio prodigo (meglio del Padre prodigo, prodigo di perdono) è al centro del Vangelo e, al centro della parabola, c’è un uomo. E un verbo: tu amerai.
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