Certamente tutti abbiamo presente la parabola di Lc 18,9-14 che ci consegna la liturgia della Parola in questa Domenica e che, per il suo contenuto e la sua chiusa finale - “chiunque si esalta sarà umiliato, chiunque invece si umilia sarà esaltato” (Lc 18,14) - potrebbe essere integrata dal cap. VII della Regola, il “De humilitate. La parabola del fariseo e del pubblicano che salgono al Tempio a pregare. Due uomini così vicini, così lontani. Due storie srotolate per essere afferrate dalle mani di Dio. Due modi diversi di stare davanti a Lui.
Il fariseo si mette in vetrina. Non fa un esame di coscienza ma di auto compiacenza. Un Narciso allo specchio. Sgrana e sbandiera i propri meriti, una continua auto incensazione. Non prega, si racconta. L’evangelista Luca sottolinea che “pregava tra se” (Lc 18,11), in realtà la traduzione esatta è: “pregava se stesso”. In effetti, la sua è una preghiera “a-tea” nel senso che non è Dio il suo interlocutore, ma se stesso. Secondo le norme liturgiche ebraiche sta in piedi ma in realtà è genuflesso in adorazione di sé. Con la sua presunta perfezione pensa di far luce. Già, anche le stesse brillano ma però non illuminano. Chi guarda solo se stesso non può illuminare! Una vanitosa autoesaltazione produce solo cortocircuiti a raffica.
Il fariseo non sa uscire fuori dal perimetro del suo “io”. Una parolina che lo ha imprigionato e che non smette di ripetere: “Io non sono come gli altri… io digiuno… io pago le decime…” Ha dimenticato la parola più importante del vocabolario: “tu”.
Sotto le navate del tempio, se da una parte c’è il mantra ripetitivo del fariseo: “Io sono bravo…io sono osservante..io qui…io là…”, dall’altra c’è la preghiera sincera e fiduciosa del pubblicano che nella parete di fondo, immerso nella penombra, si fa gomitolo di umiltà, consapevole delle sue colpe, tra le quali quella di venduto agli odiati invasori romani, per i quali riscuoteva le tasse. La telecamera lucana che si focalizza su di lui ce lo mostra mentre non osa alzare gli occhi al cielo e nemmeno le mani, vuote di opere buone. Le adopera solo per battersi il petto, come un segnale a Dio che vuole ricominciare da zero. Come lui, nella preghiera, non nascondiamo la verità di quello che siamo. Riconosciamo certe zone d’ombra. Non diciamo bugie a noi stessi. Almeno davanti a Dio leviamo certe maschere. Facciamolo entrare in certe stanze del nostro cuore. Quelle che noi nascondiamo agli altri. Davanti alle nostre miserie, il Signore non ci toglie il suo amore anzi, si fa più vicino che mai. E ci dice: “Amami come sei”. Se abbiamo tanta buona volontà di cambiare, Dio azzera tutto e ci fa ripartire alla grande.
Lasciamoci graffiare spiritualmente da questa parabola.
“Io non sono come questo pubblicano” (Lc 18,11). A volte anche noi siamo rimorchiati da questo atteggiamento del fariseo, ad esempio quando non sappiamo perdonare a motivo di certe cose che non ci siamo legate al dito ma all’orecchio. Ma, soprattutto quando giudichiamo gli altri con il veleno della maldicenza, delle insinuazioni se non con la calunnia, magari con complici servizievoli e interessati di questo killeraggio. Il tutto spesso condito da ipocrisia e doppiezza, finzione e slealtà. Papa Francesco lo ha ripetuto più volte, nelle sue omelie a S. Marta.
Ciò che io condanno negli altri è ciò che rifiuto in me. Chi, come il fariseo della parabola, non sa vedere o non vuol vedere i suoi limiti e le sue debolezze, li vede negli altri e li giudica. Il fango che io getto sugli altri lo tiro fuori dalle mie tasche, quindi vuol dire che prima ancora ne sono pieno io. Il fango che io butto parla di me! Dall’amore invece non può uscire fango.
Sì, mettiamoci accanto al pubblicano. E’ il posto di ogni cristiano. E’ il nostro posto.
*“Non giudicate per non essere giudicati” (Mt 7,1).
“Chi sei tu che giudichi il tuo prossimo?” (Gc 4,12).
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