domenica 30 dicembre 2012

Prima Domenica dopo Natale - LA SANTA FAMIGLIA

Forse i due giovani e inesperti genitori - Maria e Giuseppe - non avrebbero superato l’esame di idoneità all’adozione di un figlio come oggi avviene! Infatti, smarriscono il bambino, ormai dodicenne, affidato alla loro cura… Possiamo immaginare il loro spavento, il loro affanno, la loro apprensione nel non ritrovare più il figlio. Infine c’è l’abbraccio con questo figlio dodicenne che a Gerusalemme si mostra per quello che è: la nuova legge.

La famiglia di Nazareth: nel presentarla c’è sempre il rischio di fare un ritratto zuccheroso. E invece quella famiglia ha avuto anch’essa un percorso difficile da compiere, non privo di sofferenza. Il belle
che a creare le difficoltà era proprio Gesù. Ad esempio, il suo arrivo annunciato, prima ancora della sua nascita, ha messo in crisi la relazione tra Maria e Giuseppe.

Gesù, un figlio che involontariamente ha fatto star male i suoi genitori come vediamo nel vangelo di oggi che smentisce la facile immagine oleografica che ci siamo fatti della Santa Famiglia. E’ evidente il tono accorato di Maria: “Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati ti cercavamo”. Sotto questo aspetto, Maria e Giuseppe sono vicinissimi ai tanti genitori di oggi in difficoltà davanti ai propri figli e al loro futuro.

Un figlio è portatore di mistero che lo supera. Si porta incorporato un sogno di Dio. Nessuno si sceglie i figli, nessuno si sceglie i genitori. Proprio per questo esistono in famiglia dei passaggi dolorosi che possono essere superati solo dall’amore, dalla comprensione, dalla pazienza.

Dal dialogo: dialogo, non solo in famiglia, è far viaggiare le parole nel luogo dove si abita. Perché quando le cose sono difficili, non parlandone diventano ancor più difficili. Bisogna cercare sempre
di capire, di capire, e ancora di capire. Perché una spiegazione c’è sempre, per qualsiasi gesto, e forse questa spiegazione è molto più bella o più semplice di quello che si pensa.

Naturalmente, questo vale anche per ogni gruppo di persone che alla famiglia si ispirano e si modellano come una comunità monastica di stampo benedettino. Vivere in famiglia non è semplice anche se ci si vuole molto bene e forse proprio perché ci si vuole molto bene. Ci sono dei “perché” che emergono di tanto in tanto. E spesso restano senza risposta, oppure c’è una risposta che suona incomprensibile, come quella data da Gesù ai suoi genitori: “Perché mi cercavate?”

Le difficoltà e le sofferenze nella vita, arrivano prima o poi a tutti.
Ma non vengono per distruggerci ma per irrobustirci così da renderci capaci di portare ciò che pesa perché vale. Le difficoltà e le sofferenze non sono per stroncarci ma per farci spuntare le ali.
Questo succede anche ad una pianta: per crescere, non gli occorre solo il tepore della primavera o il calore dell’estate ma anche il freddo dell’inverno.

mercoledì 26 dicembre 2012

FESTA DI SANTO STEFANO

Ieri, gli angeli, la mangiatoia, un bambino: il natale. E, oggi, quasi un dirottamento. Siamo un po’ destabilizzati dalla celebrazione di un martirio dopo le gioiose ore appena trascorse.

I riflettori della liturgia sembrano aver dimenticato il Protagonista e slittato su Stefano, il primo martire. In realtà non è così, perché Gesù è nello spirito, nel cuore, nei pensieri del suo discepolo. Stefano fotocopia nella sua vita quella di Cristo: nella predicazione, nel processo subito, nella morte violenta. Stesso itinerario, stesso destino.

Attraverso il volto del protomartire, intravvediamo come in dissolvenza, i volti innumerevoli di tutti quelli che hanno pagato con la vita la loro fedeltà a Cristo o anche, semplicemente, soffrono per l’ingiustizia. Quanti “Stefano” in varie parti del mondo.  E, c’è un particolare che fa riflettere anche se non è da assolutizzare. Guardiamo in faccia i lapidatori di Stefano: non sono dei teppisti con il marchio di fabbrica della delinquenza. No! Sono uomini d’ordine, difensori delle leggi e della religione (però intesa a modo loro!).

Stefano, lo abbiamo ascoltato, “fissando il cielo, vide la gloria di Dio e Gesù” (At 7,56). E poche righe sopra, nel capitolo precedente, si riporta che il volto di Stefano era “come quello di un angelo” (At 6,15). I testimoni sono sempre luminosi. I loro occhi brillano perché hanno una febbre costante: quella di raccontare con la vita chi è Gesù. Non assomigliano a noi che quando parliamo di Gesù, lo facciamo senza emozioni e trasalimenti.

Sono le prove che la vita ci riserva che rivelano quanto siamo testimoni di Cristo. Gli inevitabili ostacoli sono esattamente ciò di cui abbiamo bisogno. Dio ci aiuta ma non sempre come desideriamo noi.

Un mistico contemporaneo ha detto di sé: “Chiesi la forza e Dio mi ha dato difficoltà per farmi forte. Chiesi la sapienza e Dio mi ha dato problemi da risolvere. Chiesi favori e Dio mi ha dato intelligenza, forza e opportunità. Non ho ricevuto niente di quello che chiesi, ma ho sempre ricevuto tutto quello di cui avevo bisogno…”

martedì 25 dicembre 2012

S. NATALE

Vangelo immenso che ci impedisce piccoli pensieri, onda immensa che viene a infrangersi sulle nostre piccole vite. Vangelo da leggere in ginocchio. Parole da sillabare piano piano. Occorre allacciare le cinture di sicurezza perché quei 18 versetti dell’evangelista Giovanni fanno volare alto e declinano litanie di luce e di vita.

Questa notte il Vangelo ci ha sgranato, una dopo l’altra, le immagini della nascita del Redentore. Gesù, facendosi uno della nostra razza, fa di ogni corpo umano una finestra di cielo. Dentro il battito umile e testardo del nostro cuore batte un altro cuore, e non si spegnerà più.

Gesù che nasce non è il solo ad essere in una mangiatoia. Molti tra noi vivono in mangiatoie di tristezza e scontentezza, piallati da stress di ansie e nella nebbia di dubbi su se stessi. Quel Bambino, che è Dio, non si impone ma si propone. Si offre e soffre per noi. Ci ruba il cuore e non chiede altro che essere ospitato nella nostra vita: con Lui tutto cambia. Con Lui, l’ultima parola non tocca ad una crisi che possiamo avere ma ad un nuovo slancio per riprendere il cammino. Animati dal plus-valore della fede. Qualcuno ha scritto: “La paura bussò alla porta, la fede andò ad aprire: non c’era nessuno!” Da quel Bambino riceviamo la capacità di vedere noi stessi per quello che siamo e Lui azzera i nostri sensi colpa e le nostre paure dai tanti nomi. Ci fa capire che ciascuno di noi è unico e irripetibile. Che non importanza la tua età o la tua cultura, non ha importanza che cosa sei stato, le cose che hai fatto o non fatto, le maschere che ti sei messo, gli errori che hai commesso, le persone che hai ferito. Lascia perdere, è passato. Per Dio tu appartieni al presente, da vivere in linea con il Vangelo. Tu sei tu e questo è tutto quello che devi essere.

In questi giorni avremo modo di fissare lo sguardo sui bambini Gesù nella mangiatoia dei presepi. Il suo volto ci richiama tutti i volti che l’umanità assume, compreso il nostro. Il volto di Dio rimane sul volto dell’uomo per sempre da quella notte di Betlemme.

Natale: Dio allo specchio.

Dio ha preso il volto di un bambino nato più di 2000 anni fa in una culla di emergenza alla periferia dell’impero romano.

Oggi prende il tuo volto… ma anche il volto di ogni essere umano.

Dio prende il volto di chi ami e anche il volto di chi ti sta antipatico.

Ha il volto di chi ti ha fatto un torto e anche di colui a cui tu lo hai fatto.

Ha il volto di persone che la nostra indifferenza non nota. A volte essi sono un piccolo-grande presepe che ci accompagna tutto l’anno e noi non ce ne accorgiamo… Ci sono delle lacrime che non arrivano agli occhi ma si fermano al cuore: le dovremmo saper vedere.

Dio ha il tuo volto. E sul tuo volto, che è anche il suo, non vuole sguardi di odio. Non vuole giudizi trinciati dalla malizia e dalla cattiveria. Non vuole che i tuoi-suoi occhi siano distratti verso chi ci tende una mano per un piccolo segno di amore. Le nostre ferite interiori, spirituali, psicologiche, affettive, si rimarginano nella misura in cui curiamo quelle altrui. Amare senza voler troppo capire, senza farsi troppe domande, senza paura di esagerare… L’amore è sempre in ritardo sulla sua fame di abbracci. Il più felice dei felici è chi fa felici gli altri e così si prenota il Paradiso.

Con il tuo volto Dio vuole sorridere, perdonare, consolare, amare…
Dio si è fatto come te. E tu hai il volto di Dio.

lunedì 24 dicembre 2012

S. NATALE (notte)

Dio ama la notte, testimone della sua nascita (è un figlio della notte!) come della sua risurrezione. E’ di notte che si è più veri, più liberi, più autentici. E’ di notte che si dicono le parole più belle. Dio non è sfuggito a questa regola non scritta e, più di 2000 anni fa, in una notte fasciata di profondo silenzio, è evaso dal cielo per farsi ancor più vicino a noi. Il sogno dei Profeti che attraversa tutto l’AT è finalmente diventato realtà. L’eterno, quasi in punta di piedi, prende casa nel tempo. E così il nostro piccolo pianeta terra che ruota negli spazi immensi di miliardi di anni-luce ha ricevuto una dignità incredibile: il Figlio di Dio è sceso su di esso… si è fatto “terrestre”. Viene tra noi usando una porta secondaria, quella di una stalla. Non nasce da due vip ma dalla piccola Maria con accanto il falegname Giuseppe, suo padre solo legale. Quella di Natale è la più antica notte “bianca” della storia!

Gesù non sceglie di nascere in una reggia bella e lucente ma in una stalla. Quindi, possiamo essere sicuri che nasce anche nei nostri cuori che sono forse poco accoglienti, disordinati e magari un po’ sporchi. Nasce sulla paglia delle nostre fragilità e miserie. Questo ci è di conforto e di coraggio.

Mentre i nostri cellulari si infittiscono di sms di auguri, la posta elettronica dei nostri computer fatica a scaricare tanti messaggi, mentre intrecciamo le mani di chi  incontriamo scambiando gli auguri, mentre ci troviamo nell’ineguagliabile contesto artistico di questa chiesa abbaziale, mentre con l’aiuto del canto gregoriano siamo immersi nel vivo di una liturgia solenne, io vorrei essere un angioletto per andare a vedere la festa che fanno in cielo, ma penso che non troverei nessuno, perché sono tutti qui, con noi, intorno al presepio. Nel quale noi dobbiamo entrare con i passi del cuore per incontrare i due occhi medio-orientali di un bambino senza audience che ci tiene per mano fin dal suo primo respiro. Lasciamoci scomodare da quegli occhi. Sono due occhi pieni di luce che vogliono incrociare i nostri per resettare certi interrogativi che ci lacerano la mente e il cuore, per liquidare certi tormenti e nodi esistenziali che spesso ci pesano dentro come macigni, per sciogliere certe croniche inquietudini. Fidiamoci di Lui. Ricordiamoci che Dio fa più di quanto aspetti quando meno te lo aspetti…

L’annuncio dell’angelo è chiaro: smettete di avere paura. La paura è il più brutto regalo che uno può fare a se stesso. Quel Bambino che è Dio ci vuole pacificare dentro, tonificare il cuore, farci respirare alla grande. Grazie a quel Bambino, stanotte siamo autorizzati ad aprire finestre di cielo nella nostra vita. Altrimenti le nostre giornate sono una serie infinita di spruzzatine di vaporoso niente!

Gli angeli infatti non cantano una canzone qualsiasi ma quelle parole che tutti - sì, proprio tutti! - abbiamo bisogno di sentirci dire: “Dio ti ama”. Qui, adesso, come sei.
Buon Natale a tutti!

lunedì 17 dicembre 2012

NOVENA DI NATALE (Apertura)

Con il presepio nella mente e nel cuore.

Stasera iniziamo il conto alla rovescia. Per nove giorni, in parte mediante le cosiddette “Antifone O”, saremo accompagnati da una vera e propria antologia biblica. Sette antifone, introdotte da una “O” di stupore, ricche di riferimenti messianici, per sottolineare altrettanti titoli cristologici. Sette inquadrature dell’Emanuele: pregandole, ci aiuteranno ad entrare nel cuore del Natale.

Come un arcobaleno che attraversa il cielo della storia umana per intrecciarsi con il “nunc” di Dio è quella galleria di ritratti trasmessaci da Matteo. Ogni nome, un tassello del grande mosaico della Storia della Salvezza. Un lungo e arido schedario anagrafico, costruito con simmetria matematica: tre serie di nomi, ognuna con quattordici generazioni. Non è solo esattezza cronologica ma una perfezione teologica. Perché? Perché la monotonia litania di personaggi biblici, pensata con la perfezione di un orologio, sussurra sempre più forte un nome: l’Emmanuele, il Dio-con-noi. Egli è l’estuario dolcissimo e benedetto in cui finisce il fiotto di vita, la catena delle generazioni, un lento zig-zag che intreccia miserie e grandezze, ombre e luci e che si rompe all’ultimo anello: giunto al nome di Giuseppe, Matteo abbandona lo schema costante e quasi ossessionante dell’albero genealogico: “X generò Y” per dire che “Giuseppe era lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù” (Mt 1,16). Gesù: nel suo DNA umano c’è un concentrato di storia non priva di fragilità e di colpe.

In quella cascata di nomi ci sono anche i nostri. Sarebbe interessante infatti scoprire con quali di essi possiamo almeno in parte identificarci.  Hanno, a modo loro, preparato l’arrivo di Gesù. Anche noi sentiamoci impegnati a trasformare le ore di questi giorni di novena in materiale di costruzione spirituale per farne una grotta, una mangiatoia, un cuscino che sappia accogliere la carne del Verbo. Sto pensando in questo momento a quel dettaglio del famoso affresco di Michelangelo - la Creazione di Adamo - in cui Dio tocca con il dito la mano di Adamo.  In fondo, a Natale succede questo.

domenica 16 dicembre 2012

TERZA DOMENICA DI AVVENTO (C)

Dimmi quanto e come sorridi e ti dirò che fede hai. E’ il test che viene proposto a ciascuno di noi dalla Parola di Dio di questa IIIa Domenica di Avvento che è un grande invito alla gioia.

Questo filo quasi musicale inizia a dipanarsi già con gli splendidi versi dell Prima Lettura: “gioisci… esulta…rallegrati…”: sono come tre ondate successive e incalzanti dalle quali è bene farci sommergere. Questo filo della gioia continua a snodarsi nel Salmo Responsoriale: “cantate…gridate giulivi” e pervade anche il brano di S. Paolo con quel suo “rallegratevi”.

Il cristiano deve essere lo specchio della gioia che Dio riversa in lui in tanti modi, anche fantasiosi.

Se perdo la gioia, devo chiedermi prima seriamente se ho perso Cristo. Contro gli specialisti dello sconforto e i musoni in servizio permanente effettivo siamo chiamati a praticare il contagio della gioia. Chi cerca  Dio trova sempre la gioia, mentre chi cerca la gioia non sempre trova Dio.
Certo, tra noi ci può essere qualcuno per il quale la parola “gioia” è una parola lontana annii-luce, e per tanti motivi. Nella Prima Lettura c’è una frase che sembra fatta apposta per lui: “Non temere, non lasciarti cadere le braccia” (Sof 3,16).  Non arrendersi alla tristezza e allo sconforto. Reagire! Il rimedio migliore, l’anti-depressivo più efficace e meno pericoloso per la salute è proprio la speranza. Guradare in avanti. Credere che l’angoscia finirà, che il tunnel buio non sarà senza fine. Non c’è notte così lunga che non abbia il suo mattino. Credere che nel cuore dell’inverno c’è la primavera.

martedì 11 dicembre 2012

Secondo anniversario mensile dell’apertura dell’anno della fede.

Diciamocelo subito. Non è normale che un pastore di cento pecore, ne lasci novantanove “sui monti” (Mt 18,12) per andare a cercare una sola pecora che si è smarrita! Rischia, al ritorno, di trovare che altre si sono perdute. Ma Gesù è un pastore eccezionale: per Lui una pecora su cento non equivale ad un centesimo del gregge, ma conta tanto quanto le altre novantanove messe insieme. Per Lui quella pecora è unica ed irripetibile, fa parte della sua vita. Si premura di trovare la pecora perduta semplicemente perché si è perduta: questa è la logica di Dio.

Il suo amore, non calcola le volte che ci perdona, i tempi di attesa che ha vissuto mentre noi, in diversi modi, ci siamo allontanati da Lui. Ci cerca. Non per rimproverarci ma per abbracciarci.
L
a domanda che Gesù pone ai suoi ascoltatori è rivolta anche a ciascuno di noi per irrobustire la nostra fede: “Che vi pare?” (Mt 18,12). Siamo invitati a commisurare il nostro cuore sulla Sua tenerezza… non escludendo nessuno dal nostro amore anzi, cercando e accogliendo quelli che possono aver sbagliato, magari anche pesantemente, nei nostri confronti. Ed è così che la fede diventa vita.

sabato 8 dicembre 2012

SOLENNITA’ DELL’IMMACOLATA CONCEZIONE

Il coraggio di dire: “ci sto”. Tutto ruota intorno a quel piccolo e semplice monosillabo, leggero come un soffio, pronunciato da Maria: “”. Maria arriva al suo “eccomi…”, venato di entusiasmo, attraversando sentimenti ed emozioni contrastanti che sono anche i nostri quando ci troviamo davanti a qualcosa che Dio ci chiede. Maria ci è così vicina in quei momenti  che il “rallegrati” rivolto a lei dall’Angelo lo sentiamo anche noi all’orecchio… e dall’orecchio scende nel cuore e ci da uno scatto di coraggio. Se ci si fida più di Dio che di noi stessi allora anche l’apparente impossibile diventa possibile. Maria ci insegna a gettare il cuore oltre gli ostacoli, a prestare la nostra vita, anche se la pensiamo piccola, inutile e difettosa, ai sogni di Dio.

Possiamo pensare che, in un certo senso, quel “”, senza “se” e senza “ma” di Maria sia stato una specie di Professione. Chissà se Maria ha festeggiato gli anniversari del suo “eccomi”? Se lo ha fatto, non lo ha fatto pensando agli anni della sua vita passati da quel momento, ma guardando gli anni di Gesù, gli anni di presenza dell’Emmanuele, del Dio-con-noi che ci chiama e ci dona di stare con Lui. Maria non diceva: oggi compio 25 anni di Annunciazione, ma: “oggi sono 25 anni che Gesù è con me, che è entrato nella mia vita e che io vivo tutta per Lui!”. E penso che è così che anche noi monaci dobbiamo contare e celebrare gli anni della nostra Professione e voi Oblati quella della vostra Oblazione.

Maria si mette nelle mani di Dio. Ci insegna che la vita, che è il gioco più appassionante, non è un capitale da investire secondo i propri progetti, ma un dono da mettere a disposizione di Dio perché Egli ne disponga come vuole. Lasciandoci plasmare e riplasmare dalla sua mano. La Madonna ha compreso una cosa fondamentale: Dio non ti chiama per realizzare quello che hai in testa tu. Ti chiama perché vuole altro da te.

Ed è questa l’obbedienza della fede: fare la volontà di Dio, con semplicità e con umiltà. E più si sta con le mani vuote davanti a Dio, più Lui pensa a riempirle.

Non temere”, dice l’Angelo a Maria e a ciascuno di noi. Il Signore viene a riempire la tua vita, ti chiede la tua disponibilità perché vuole regalarti la gioia di fare il bene insieme a Lui.

Non temere di ricominciare da capo: tu non sei i tuoi errori e, se ne chiedi perdono a Dio, sei più grande del tuo esame di coscienza.

Non temere di donarti con il tuo “eccomi”, limpido e senza riserve, prendendo come navigatore della tua vita la Parola di Dio.

Non temere quello che ti sembra “impossibile”che Dio ti chieda: se c’è Lui di mezzo, l’impossibile diventa la sola strada possibile.

Adesso esprimiamo un supplemento di amore a Maria, perché lei che la “ianua coeli” - la porta del cielo - come la invochiamo in una litania, ci aiuti ad offrire la nostra vita come porta d’ingresso di Dio nel nostro piccolo mondo quotidiano.

domenica 2 dicembre 2012

1a DOMENICA DI AVVENTO (C)

 “Avvento” è una parola la cui radice latina significa: “venire accanto, farsi vicino”. E’ il tempo in cui tutto si fa più vicino: Dio all’uomo, l’altro (se c’è) a me, io al mio cuore. E’ un tempo in cui si accorciano le distanze.

Questa stagione liturgica che ci prepara al Natale, ci consegna delle istruzioni-per-l’uso. Cioè, guardare verso Colui (il Cristo) che sta per venire, guardare dentro noi stessi e guardare accanto a noi. Non è facile questo atteggiamento di paziente attesa per noi che viviamo nella società della fretta e della cultura “qui e ora”. Con questo sguardo strabico finiamo per non focalizzare ciò che conta. Anche Dio.

Per la mezzanotte del 25 dicembre abbiamo un appuntamento con Dio, ma anche con noi stessi. Attendere la riattualizzazione della nascita di Gesù (non come un semplice ricordo storico di un fatto avvenuto più di 2000 anni fa), comporta che ognuno di noi sia un grembo di nascite, impegnato a generare il suo futuro personale com’è nei sogni di Dio. Scintille di luce scalciano dentro di noi chiedendo di nascere. Le quattro settimane di Avvento ci servono anche per questo.

In mezzo alle cose che ci accadono continuamente, in mezzo a errori e splendori, necessità e paure, Gesù ci invita a restare svegli, cioè ad evitare il sonno del cuore che ci spegne la gioia e l’emozione di vivere. Questo sonno del cuore è infido, sgusciante, impalpabile. E’ come un’anestesia velenosa. Il cuore avvolto da questo sonno lo si riconosce subito perché perde il senso della gratuità e della gratitudine. Ci sciupa la vita che è un dono di Dio con ricevuta di ritorno.

“Attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano”(Lc 21,34). Attenti a che cosa? Ancora a lui, al cuore perché torni leggero, come quello di un bambino. Il cuore si appesantisce certo con il peccato dai mille nomi ma anche con quelli che Gesù definisce “gli affanni della vita”(Lc 21,34). Le difficoltà ci sono sempre, ma Dio anche, e perciò siamo sempre in vantaggio. Non importa quanto freddo sia l’inverno in cui ci troviamo, dopo c’è sempre la primavera.

Resta sveglio, ripete Gesù. Non addormentare il tuo amore per Dio.  E Gesù ci svela anche il segreto: “pregate senza stancarvi” (Lc 21,36). Cioè legare a Lui, con la preghiera, con un tete à tete nell’adorazione eucaristia, la soluzione di ogni storia al negativo, problema, tensione, inquietudine. Situazione per situazione, momento per momento.

Se non prego il cuore si addormenta.

Se non ho fiducia in me stesso, se mi macero in rimpianti, frustrazioni e delusioni, il cuore si addormenta.

Se non mi spendo per gli altri, il cuore si addormenta.   

Se coltivo rabbia, risentimenti assortiti, mutismi infondati, il cuore si addormenta.

Se navigo nell’invidia che rode e nella tristezza cronica, il cuore si addormenta.

Se non attendo Dio che sta per bussare alla porta del mondo, il cuore si addormenta.

E un cuore addormentato non è un cuore addormentato, è un cuore  che non c’è più.

sabato 1 dicembre 2012

Primi Vespri della Prima Domenica di Avvento

La liturgia della Chiesa computa il tempo non secondo i mesi, ma secondo i misteri della vita di Gesù. Diamo inizio al terzo anno del ciclo triennale denominato “anno C”, in compagnia con l’evangelista Luca, il famoso scriba mansuetudinis Christi. Il suo vangelo si distingue da quello degli altri detti sinottici e da quello giovanneo. A motivo di alcune celebri parabole è detto il vangelo della misericordia, anzi essa è il filo rosso che lo attraversa tutto; il vangelo dei poveri perché esprime una spiccata sensibilità ai temi sociali nella predicazione di Gesù; il vangelo della preghiera per l’attenzione posta su Gesù orante e in comunione con il Padre. Con questo tutor così speciale ripartiamo dalla “A” di Avvento che non è funzionale solo al Natale ma ci illumina sulla venuta quotidiana di Gesù.  

L’Avvento si propone a noi come un itinerario educativo alla fede, è una scuola per imparare a guardare oltre i nostri piccoli orizzonti ed assumere la prospettiva escatologica come, tra l’altro, ricorda anche S. Benedetto ad ogni monaco: “Tu dunque che ti affretti verso la patria celeste” (RB 73,8). Perciò possiamo dire che il monaco è l’uomo dell’Avvento! L’Avvento non va solo celebrato ma soprattutto vissuto.

Questo tempo forte dello spirito contiene un richiamo profondo ad assumere personalmente e comunitariamente alcuni atteggiamenti: l’attesa vigilante e gioiosa, la speranza fiduciosa e paziente, la capacità di cogliere la presenza e il passaggio del Signore nelle nostre 24 ore, la conversione. Guardando a quest’ultimo impegno, non possiamo abbinarlo al “tutto e subito”. Non ci si converte una volta per tutte, ma ci si converte ogni giorno. Antonio il Grande così si esprimeva: “Ogni mattina dico a me stesso: oggi comincio”. S. Benedetto, nella Regola, ci ricorda che il tempo che Dio mette a nostra disposizione è una dilazione - “ad inducias” – “ci sono prolungati i giorni di questa vita” (RB, Prol. 36).

C’è un’antifona che esprime molto bene questo aspetto così monastico dell’attesa vigilante e insieme dinamica: quella del communio della terza domenica di Avvento. E’ formata da due versetti del Profeta Baruc: “Sorgi, o Gerusalemme, e sta in piedi sull’altura”(3,5a) e: “osserva la gioia che ti viene da Dio” (4,36b). In quell’imperativo: “sta in piedi sull’altura”, possiamo leggere un’esortazione ad essere fermi e perseveranti, a volare alto quando sopraggiungono lo scoraggiamento, le delusioni, o quando difficoltà personali o comunitarie ci lasciano un po’ incerti.  Il monaco “sta in piedi” e non si lascia paralizzare dal possibile negativo.

Maria che ha offerto se stessa come pista d’atterraggio nel tempo all’Altissimo e che da volto all’Avvento come Vergine in ascolto e in attesa, ci aiuti ad essere in questi giorni come delle sentinelle del mattino che scrutano con gioia l’arrivo del Salvatore.
Auguriamoci a vicenda che l’Avvento fecondi la nostra vita per sbocciare a Natale in una festa di luce.

venerdì 30 novembre 2012

S. ANDREA APOSTOLO

Gesù cammina in riva al lago e incontra quattro pescatori- ignari futuri discepoli - che stringono nelle mani callose le reti della pesca. Tra essi  Andrea, il “Protocleto”, cioè il primo chiamato. “Subito”: questo avverbio brilla nel breve dialogo tra Gesù e quei pescatori. Stupisce e colpisce questa immediatezza nel seguire Gesù.

Al Signore si risponde prontamente ma non è facile seguirlo, perché è una scelta che comporta un abbandono e un abbraccio: l’abbandono di ciò a cui si rinuncia e l’abbraccio di ciò che si è preferito.

Matteo riporta che Gesù passa e guarda: “vidit…”, per due volte in pochi minuti. Lo sguardo di Gesù li cambia. Contrariamente ad una legge di psicologia che afferma che una persona inizia a esistere come tale quando inizia a guardarsi con gli occhi degli altri, quando legge negli occhi degli altri se stessa, ecco l’alternativa: guardare se stessi con gli occhi di Dio. Lui ci fa sentire diversi e veri.

Non c’è solo la sequela ma anche la testimonianza operativa.  Pescati per pescare. Ma non più le rotte del mare (cioè la vita fino ad allora condotta) ma le mappe del cielo (la vita nuova col Cristo).

“Lasciare” e “seguire”: sono due verbi che non vanno separati. Non si lascia per lasciare ma per seguire, per vivere sintonizzati con Cristo.

Qui cogliamo la fede in quello che è il suo aspetto essenziale. Siamo chiamati a fidarci di una Persona, la quale non ci dice cosa vuole e dove ci porterà: chiede un’adesione incondizionata a Lui. La fede allora non significa principalmente “credere che…” ma fidarsi di Lui senza troppe spiegazioni.

domenica 25 novembre 2012

SOLENNITA’ DI CRISTO RE

Sembrerebbe una pièce teatrale. Invece non lo è. Non è per niente un happy end. E’ uno degli ultimi fotogrammi drammatici della vita di Gesù.

La farsa di uno sconcertante processo lampo. Due poteri a confronto:

Ponzio Pilato, il governatore della Giudea, e Gesù il figlio di Dio. Così vicini, così lontani, perché mossi da una concezione di potere inconciliabile.

Una domanda ripetuta più volte, in un atteggiamento di superiorità e con martellante ironia: “Sei tu il re dei Giudei?” (Gv 18,33).

Legato, insanguinato, il viso tumefatto e sputacchiato, coronato di spine. Questo è il re dei Giudei!

Gesù è un re strano, non ha mai abitato nelle reggie. Una volta sola ci è andato ma nelle vesti di un condannato. Il suo primo trono è stato una mangiatoia, l’ultimo la croce dove morirà colpevole di innocenza. Da essa non ha voluto scendere, anche se avrebbe potuto farlo.

Non ha imposto segni di prepotenza ma ha proposto il grembiule del servizio. Ha promulgato una sola legge: amatevi.

Un re che non sta sopra di noi ma è inginocchiato davanti ai nostri piedi, come ai discepoli nell’ultima cena.

Nel suo Regno si va in croce per gli altri, non si mettono in croce gli altri; si ragiona facendo prevalere il dono, la disponibilità, il servizio, la giustizia.

La tua gente i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?” (Gv 18,35).  Questa domanda è rivolta a Gesù ma in realtà è rivolta a ciascuno di noi. “Cosa ha fatto questo re? Ha capovolto tutto: si è messo a proclamare beati i poveri, gli affamati, coloro che piangono, i miti, i perseguitati ed ha annunciato che gli ultimi saranno i primi e viceversa. Ha rivoluzionato le nostre comode classificazioni: i buoni da una parte, i cattivi dall’altra. Ha dichiarato che le prostitute staranno davanti a tutti noi nel suo Regno dove, come se non bastasse, si può entrare soltanto diventando bambini. Un Regno il suo, senza confini e senza censimento.

 Si è schierato dalla parte di un’adultera. Ha gradito il profumo di una pubblica peccatrice. Ha orchestrato una festa per un mascalzone che aveva sperperato il patrimonio paterno. Ha rivalutato i rottami della società.

Ha strappato Dio dal cielo e ce lo ha portato sulla terra, a camminare in mezzo a noi. E, questo Dio sulla terra, è terribilmente scomodo. Questo Dio lo possiamo incontrare ogni momento: nel fratello che ha fame, sete, è malato …
Ecco, per questo, Pilato, lo devi condannare. E’ venuto a disturbarci perché ci ha offerto la possibilità di un vivere diverso.

mercoledì 21 novembre 2012

PRESENTAZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA

Questa bella memoria mariana - la Presentazione di Maria - non ha fondamenti biblici, nasce da un Vangelo apocrifo (il Protoevangelo di Giacomo, sec. II), ha però un messaggio nascosto che va evidenziato: Maria si è presentata a Dio senza riserve, mettendosi ad una scuola dura e spesso misteriosa. E’ quindi un esempio stupendo per noi per orientare decisamente e ogni giorno la nostra vita a Dio e per vivere fino in fondo la nostra opzione per Cristo, con l’obbedienza che nasce dalla fede: radicata nel Battesimo, ravvivata dalla Cresima, illuminata dalla Professione monastica. E a questo punto, il collegamento con il Vangelo si disegna naturaliter, perché questo atteggiamento ci porta a fare la volontà di Dio e quindi ad essere “madre e fratelli di Gesù”. Siamo “parenti” di Gesù quando riusciamo a dare carne, concretezza a frammenti di Vangelo. Il discepolato include una certa  “maternità” perché se trasmettiamo agli altri Cristo, lo si genera diventando così “madre di Gesù”.

Essere della “famiglia” di Gesù significa andare continuamente alla Parola di Dio con la lectio divina, diventare ogni giorno scolari del Vangelo, ripartire dall’alfabeto della nostra fede, lasciarci dare “indicazioni per l’uso” dalla nostra Santa Regola che, come sappiamo, è cristologica.

Se non c’è questo legame di “parentela” con Cristo non solo si vive male, ma anche i conti con noi stessi non tornano mai. Manca Qualcuno. Lui.

Adesso chiediamoci: se Gesù in questo momento entrasse nella nostra chiesa e venisse qui sul presbiterio, in mezzo a noi, potrebbe rivolgerci le stesse parole indirizzate prima nel Vangelo a chi gli stava vicino: “Ecco i miei fratelli” (Mt 12,49) ?

domenica 18 novembre 2012

33ma DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (B)

Il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo…” (Mc 13,25).

Nel Vangelo di domani, penultima domenica dell’anno liturgico B e con la quale saluteremo l’evangelista Marco, Gesù adottando immagini mutuate dall’AT parla di scardinamento dei sistemi astrali e planetari che sfocia in un terrificante crollo cosmico, in un’impressionante scenografia apocalittica. Sappiamo tutti che si tratta di un linguaggio simbolico per farci riflettere non sulla fine del mondo ma sul fine del mondo. In ogni caso, gli avvenimenti ultimi della storia del mondo sono legati al mistero di Dio.

La vita va vissuta giorno dopo giorno, scoprendovi le improvvisazioni di Dio per non lasciarci piallare dal dejà vu. Se abbiamo Dio nel cuore, in ogni giornata possiamo inserire un po’ di fervore avventuroso.

A volte capita che nel nostro cielo personale il sole si spenga e le stelle cadano a grappoli, lasciandoci dei lividi di tristezza che lievita fino a farci stare male: ad es. per una malattia, la morte di una persona cara, una delusione da parte di chi non ce la saremmo mai aspettata. Ecco che in questi momenti Gesù ci educa alla speranza: se anche il cielo mi dovesse crollare addosso, nei suoi frantumi c’è la mano di Dio che vuole stringere la nostra, oltre il muro d’ombra c’è sempre la sua mano forte e sicura che vuole afferrare la nostra.

Imparate dalla pianta di fico:  quando spuntano le foglie voi sapete che l’estate è vicina” (Mc 13,28)… Gesù ci invita a vedere oltre il freddo dell’inverno, oltre certe gelate esistenziale e emotive, lea piccola gemma di futuro che è spuntata solo per noi. Quella fogliolina di fico basta a riportare la speranza di  un “e poi” diverso. 

Di una cosa sappiamo con certezza del domani, di ogni domani: Dio si alza sempre prima del sole per tessere la nostra giornata.

martedì 13 novembre 2012

TUTTI I SANTI DELL’ORDINE BENEDETTINO

Celebrando tutti i Santi dell’Ordine Benedettino possiamo arrivare ad una certezza condivisa: essi sono stati e sono tutt’oggi il commento più bello della Regola che anche noi abbiamo professato. Una Regola capace di generare dei Santi… e noi, a che punto siamo?

Mi sembra che, guardando a queste figure luminose che sono presenti in ogni secolo, ci possiamo porre una domanda: come sognò San Benedetto i suoi monaci? La risposta che viene spontanea è: ci sognò così affascinati da Cristo da essere capaci di “nulla anteporre al suo amore”(RB 4,21; 72,11).

S. Benedetto ci sognò, anzitutto, attenti alla Parola di Dio e a farne vita della nostra vita: “Ascolta, o figlio, i precetti del maestro, piega l’orecchio del tuo cuore, accogli con docilità e metti concretamente in pratica…” (RB Prl, 1).Non possiamo essere dei distratti, non si può non sentirla la Parola di Dio perché ha una voce forte: “clamat nobis Scrptura divina” (RB 7,1)… “clamat”… grida! E uno strumento delle buone opere ci ricorda: “Ascoltare volentieri le sante letture” (RB 4,55). Il ritmo possibilmente quotidiano della lectio divina, plasma l’identità del monaco, “nascosta con Cristo in Dio” (Col 3,3).

Ci sognò anche obbedienti, “con l’obbedienza di coloro che non hanno più nulla di caro che Cristo” (RB %,2), un’obbedienza che ha i colori della gioiosa disponibilità, che non conosce tristezze e mormorazioni. Un’obbedienza totale, non solo verso l’abate ma anche verso i fratelli: “facciano a gara nell’obbedirsi a vicenda” (RB 71,1). Addirittura cercata questa obbedienza perché è qualcosa di positivo, di bello e di buono: “oboedientiae bonum” (RB 71,1).

Ci sognò umili, non con un’umiltà da collo torto e occhi socchiusi, ma un’umiltà che si identifica con la verità di se stessi che porta all’accettazione senza complessi dei propri limiti. Per questo motivo San Benedetto ci incoraggia, nel Prologo, a “servire Dio con i doni che Egli ha posto in noi”(RB Prl, 6). E tutti ne abbiamo e da mettere al servizio della comunità. Nella Regola ci offre addirittura 12 scalini per non scivolare nello stagno di Narciso.
Sì, San Benedetto sognò ma il suo sogno è diventato realtà come ci prova la lunga fila di Santi e Sante che hanno tradotto nella vita la sua Regola e che oggi festeggiamo con l’impegno di imitarli.

domenica 11 novembre 2012

32ma DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (B)

Quando il “molto” è poco e il “poco” è molto …

L’amore si può quantificare in un solo avverbio: tutto. Non si da nulla finché non si da tutto. Ciò che non diamo lo perdiamo. Dio quando prende le nostre misure mette il metro intorno al nostro cuore. E’ esso la vera bilancia di Dio. E’ lì che avviene la verifica se da cristiani credenti siamo passati a cristiani credibili. Noi possiamo o “giocare con la fede” o “giocarci nella fede”.

Gesù  oggi ci mette alla scuola di una povera vedova, la fa salire in cattedra e da lì ci impartisce una straordinaria lezione di fede. Le vedove, ai tempi di Gesù, erano collocate al fondo della classe sociale e ai margini della vita civile.

Nel tempio, Gesù, osserva il susseguirsi di alcune scene disgustose che sfiorano il ridicolo da parte di molte persone che con voluta  e autoreferenziale ostentazione, farcita di orgoglio, gettano nelle cassette (in genere erano tredici specie di ceste a forma di tromba) diverse manciate di grosse monete, richiamando così, con il rumore sonante, l’attenzione estasiata dei presenti e assicurandosi una sciocca pubblicità. “… osservava come la folla vi gettava monete”(Gv 12,41). Notiamo il particolare: osservava “come”, non “quanto” la gente offriva. Gesù rileva qualcosa di dissonante. Possiamo paragonarlo al maestro d’orchestra che appena nota uno strumento fuori tono o non a ritmo con lo spartito, ferma tutti perché qualcosa non va.

A questo punto dell’episodio si inserisce, umile e furtiva, la semplice e commovente figura di una povera vedova che, dopo aver sussurrato a se stessa l’ammontare irrisorio che sta nelle sue mani - due monetine - le getta nella cassetta andando ad urtare leggermente le monete dei ricchi. Le getta con quelle sue mani di povera donna sola, certamente sciupate dalla fatica del sopravvivere. Due monetine: un niente che per lei è il tutto. Tutto quello che ha. Poteva almeno tenersi una monetina e offrire l’altra. Rischia di fare la fame, di bruciare il suo domani. Invece dona tutto. Ricalca il generoso atteggiamento della vedova dove si ferma Elia, come ci ha riportato la prima Lettura. La santità è fatta anche da piccoli gesti pieni di cuore.

Non vuole fare a metà con Dio. Il ricco invece fa l’elemosina di ciò che ha in più, del superfluo: i suoi averi li mantiene intatti. La vedova invece dona della sua povertà, di ciò che le è necessario per andare avanti. “Tutto quello che aveva per vivere” (Mc 12,44). ,La traduzione strettamente letterale è molto più forte e significativa suona: “Tutta la sua vita”. Dona a Dio ciò che dio le ha donato: la vita. Da a Dio quel che è di Dio.
Preferisce la provvidenza alla previdenza. Due monetine, le sue, che hanno i bagliori di diamanti perché dentro c’è tutto il suo cuore. Sono preziose come una pagina di vangelo vivo. Il suo gesto, colmo di una tenerezza infinita è avvolto dal silenzio, e il silenzio non si sente ma agisce, come tutti quei gesti di amore che facciamo senza i riflettori accesi. Quella della vedova è una mini-liturgia di speranza e di fiducia che provoca Dio: io ho pensato a Te, ora tocca a Te Signore pensare a me. Ti faccio più importante della mia stessa vita. Lei è convinta che dare a Dio significa ricevere ancor di più. E questa è autentica fede, che è fiducia totale in Dio o non è fede. Chi dona tutto non si deve poi stupire di ricevere tutto.

venerdì 9 novembre 2012

DEDICAZIONE DELLA BASILICA LATERANENSE

Oggi vogliamo ricordare la dedicazione della prima e più antica cattedrale, mater omnium ecclesiarum, sede del vescovo di Roma, centro di unità della Chiesa viva e palpitante. Ogni anno questa è un’occasione per meditare sul mistero del nostro essere Chiesa, cioè “tempio del suo corpo” (Gv 2,21), il corpo di una Persona - il Cristo - che illumina e profuma il nostro vissuto quotidiano con la sua presenza. La nostra fede è vera quando è esperienza di incontro con Lui, soprattutto nella preghiera e, in fondo, tutta la vita del monaco ruota intorno a questo preciso e mirato obbiettivo: arrendersi al fascino del Signore Gesù, da Lui amati e attesi così come siamo, con i nostri peccati e le nostre debolezze. Ogni volta che ci esponiamo alla sua luce, come quando facciamo l’adorazione eucaristica, si attiva una terapia che ci guarisce dalle nostre ferite interiori e da certe nostre inquietudini rimandandoci sempre alla cura energica ed energetica del suo Vangelo e a quella coadiuvante della Regola.

Sappiamo che ogni volta che una nuova chiesa viene dedicata, il primo gesto del rito previsto è l’aspersione con l’acqua lustrale. Così pure, ogni volta che noi entriamo in chiesa il primo gesto che compiamo è quello di segnarci, dopo aver immerso la mano nell’acquasantiera. Certo, è anzitutto un modo per segnare un passaggio da un luogo profano a quello sacro, ma, ancor più profondamente, un modo per ricordare il proprio battesimo quale inizio di un cammino di conversione per noi rafforzato anche dalla professione monastica.

Vogliamo riscoprire la bellezza della comunione con Cristo e rinnovare l’impegno personale e  comunitario di tenerci legati a Lui, come pietre vive che, l’una con l’altra, poggiano sulla pietra di fondazione, togliendo con il mezzo della carità fraterna - e alla carità tutto è permesso - ciò che impedisce di aderire: come fa  il muratore che pulisce le pietre prima di stendervi la malta e accostarle le une alle altre, perché diventino una sola cosa. Il confratello è tempio di Dio, e lo si profana quando prevale la sterile legge dell’egoismo e dell’interesse personale, al contrario, lo si onora con la gratuità, l’altruismo, il dialogo, il perdono. Lasciamoci anche noi raggiungere dalle cordicelle usate da Gesù verso i mercanti del tempio, perché porti un po’ di ordine nel nostro cuore, liberandolo da certe presenze.
L’eucarestia che stiamo celebrando ci mette in comunione con il tempio vero e vivo del Signore: il suo corpo crocifisso e risorto. Gesù sa bene quello che c’è in ognuno di noi, ma conosce pure il nostro desiderio: quello di essere abitati da Lui.

domenica 4 novembre 2012

31ma Domenica del Tempo Ordinario (B)

Qual è il primo di tutti i comandamenti?”. Questa è la domanda che risuona nel Vangelo di domani - Mt 12, 28b-34 – che è l’incipit di un dialogo tra Gesù e uno scriba, che si rivela come un uomo in ricerca. Occorre ricordare che la legge era costituita da 613 precetti: 365 formulati al negativo, “non fare…”, e 248 al positivo. Una vera giungla di norme, con annessa una morale complicata, nella quale era difficile districarsi.  

Qual è il primo di tutti i comandamenti?”. Come a dire: “Qual è il cuore della fede?  Gesù risponde allacciando in una felice sintonia l’amore a Dio e l’amore al prossimo.  Per arrivare al prossimo devo partire da Dio, per arrivare a Dio devo partire dal prossimo. Solo se prima si incontra Dio, sorgente di amore, si riesce poi ad amare l’altro in pienezza; d’altra parte l’ amore per gli altri è la verifica seria del mio amore per Dio. Dio ci aspetta negli altri. Sarebbe un’illusione pericolosa pensare diversamente. Non posso scavalcare il prossimo per arrivare a Dio. Ma è anche vero che Dio bussa alla nostra porta come mendicante di amore, perché Dio stesso vive di amore. Non dimentichiamo la folgorante affermazione di Gv: “Dio è amore”.

In sintesi: àmati e ama.  Gesù ci chiede di amare “come te stesso” “tamquam te ipsum”.. E’ una notazione importante perché ricorda il dovere anche di amare se stessi, naturalmente non in senso egoistico e narcisistico, ma come accettazione serena di come siamo, accettando anche i nostri limiti, le nostre parti oscure. Perdonando a noi stessi le nostre fragilità: lo fa Dio nel sacramento della Riconciliazione, perché noi non dovremmo fare altrettanto verso noi stessi? Altrimenti significa che siamo ancora attaccati al nostro amor proprio. Un sano amore di se stessi sta alla base del vero amore per gli altri. Un cattivo rapporto con gli altri denuncia sempre un cattivo rapporto con se stessi.

Per capire un po’ cosa è l’amore, forse dovremmo capire cosa è il suo contrario.  Il contrario dell’amore non è l’odio ma l’indifferenza che è peggio. L’odio è solo la versione impazzita dell’amore. L’indifferenza è peggio dell’odio perché fa si che l’altro per noi non esista. E nessuno ha il diritto di far provare questa terribile sensazione ad un suo fratello.

Dunque Gesù ci chiede un cuore plurale, a più voci, in cui l’amore a Dio è come la melodia principale attorno alla quale può dispiegarsi il contrappunto degli altri amori: famigliari, confratelli, amici. Dio non ruba il nostro cuore ma lo moltiplica.

Amerai”, ci chiede Gesù. “Amerai”, un verbo al futuro per dire  che l’amore è un itinerario infinito, non si conclude mai. Un futuro per dirci che nessun altro futuro è possibile sulla terra se non quello dell’amore. Quando si ama veramente ci si accorge che l’amore non basta mai, ce ne vuole sempre di più.

L’amore è sempre oltre l’amore.

venerdì 2 novembre 2012

COMMEMORAZIONE DI TUTTI I DEFUNTI

La Commemorazione di tutti i fedeli defunti ci pone ogni anno davanti al mistero della morte, ci dona la possibilità di esprimere la nostra fede nella risurrezione, ma soprattutto apre il nostro cuore alla celebrazione della comunione dei Santi che ci lega con coloro che ci hanno preceduti sulla sponda dell’eternità.

La nostra vita è un cammino esodale, siamo come mendicanti permanenti in attesa di raggiungere la meta. La tristezza o la paura della morte sono illuminate dalla certezza che in Dio c’è vita eterna. “Mortem cotidie… Avere ogni giorno presente la morte” (RB 4, 47) ci ammonisce la Regola. La morte fa parte della vita nel senso che, come comunemente si dice, “siamo nati per morire”, ma per i cristiani la morte è la porta che immette nella vita per sempre. La morte è la scintilla della vita per sempre. Non si vive più per vivere di più! Abbiamo più futuro che passato e presente. Possiamo dire che in realtà non si muore ma si nasce due volte. Il cristiano non è un essere mortale ma un essere “natale”, cioè che esiste per nascere continuamente.

La nostra serenità di fronte alla morte si fonda sulla Risurrezione di Cristo e, alla luce del mistero pasquale, mi sembra  che noi cristiani possiamo sentirci autorizzati a parlare dello splendore della morte. Splendore e morte, sembra che ci sia una contraddizione ad accostarli. Il primo termine, splendore, richiama luce, vita e gioia; il secondo, morte, richiama sofferenza e buio. Eppure la morte e la risurrezione di Cristo rendono possibile tale combinazione: lo splendore della morte! Ma che bello vedere la morte così!

Per questo, in tutto ciò che facciamo, nelle nostre scelte mettiamo quel briciolo di lievito di eternità che ci fa guardare oltre.
Mettiamo tutta la nostra vita nelle mani di Maria, perché, come una corona del rosario, possa attraverso di Lei scorrere momento per momento, giorno dopo giorno, “nunc et in hora mortis nostrae -adesso e nell’ora della nostra morte”, fino a quell’attimo decisivo in cui noi, terminato il pellegrinaggio della fede, saremo accolti dall’abbraccio inesprimibile di Dio.

giovedì 1 novembre 2012

SOLENNITA’ DI TUTTI I SANTI

Tutti i Santi… Tutti! Come se li radunassimo qui, in chiesa. O forse, ancor prima e ancor più, nel nostro cuore. In questa infinita e variegata coralità noi stamattina immergiamo gli occhi. In quella pagina dell’Apocalisse di rara bellezza e suggestione, che costituisce la prima Lettura e che parla di noi, lampeggia un numero: 144.000! E’ evidente che si tratta di un numero simbolico: 12x12x1000. 12 sono le tribù di Israele, 12 gli Apostoli e 1000 è il numero dell’Agnello, cioè di Cristo e della sua signoria. Ma non resta un numero chiuso: diventa “una moltitudine immensa” (turbam magnam).

Basta togliere una lettera e il significato di questa solennità diventa evidente. Cioè: invece di leggere “tutti i santi”, leggere in forma d’augurio: “tutti santi”. Ed è questo il messaggio della festa di oggi: in forza del battesimo, siamo tutti chiamati ad essere santi! Questa è l’occasione per riscoprire che la santità non è un dono esclusivo ed elitario per certi fuoriclasse della fede o per chi ha doni straordinari. I Santi non sono nati già con una marcia in più. La pista da seguire è quella delle Beatitudini, che fanno parte del cosiddetto  discorso della Montagna, il primo dei cinque grandi discorsi di Matteo. Sembrano corpose e sconcertanti affermazioni ma sono come litanie che si intrecciano tra loro. Le Beatitudini sono il cuore del Vangelo, definite anche la magna carta del cristianesimo., un manifesto sconvolgente e contromano.

Dio agisce da artista: con le Beatitudini vuole plasmare in noi il santo. Ma Dio agisce anche da stilista: il nostro vero abito è quello della santità.

Ma le Beatitudini prima di essere il ritratto del discepolo ideale, sono il ritratto di Gesù! Lui è il povero in spirito, l’afflitto, l’affamato, il mite, il perseguitato, il misericordioso, il puro di cuore e l’operatore di pace. Le Beatitudini sono l’autobiografia di Gesù.

Nove cartelli segnaletici  che ci indicano la direzione da seguire. Non si può sbagliare! Sono il segreto della felicità dal punto di vista di Dio.  Non per niente sono introdotte e scandite da un ripetuto e martellante: “Beati… Beati…”. Sono dei paradossi ma in fondo, sono delle “felicitazioni” da parte di Dio.

Il più grosso miracolo che i Santi hanno fatto è stato quello di lasciare che Dio lavorasse nella loro vita. Santo è chi lascia che il Signore riempia la propria vita fino a farla diventare dono per gli altri. Santo è chi vive in sintonia con Gesù e la sua Parola, in dialogo non-stop con Lui e mette il grembiule del servizio. I santi, conosciuti e anonimi, questi ultimi segreti costruttori di storie di bene, sono la prova e la garanzia che si può vivere il Vangelo. Santi si diventa anche se santi siamo nati nel Battesimo. Si diventa, nel senso che è una scelta da rinnovare quotidianamente. Non è santo chi non cade, ma chi cadendo trova la forza di rialzarsi. E’ santo non chi fa cose straordinarie ma chi fa straordinariamente le cose normali di ogni giorno. E’ Santo chi riesce a leggere su ogni cosa: “Più in là” (Montale).

Forse il nostro nome non apparirà mai sul calendario, ma non è questo che conta. L’importante è essere scritti nel calendario di Dio. E lì c’è anche il nostro nome, occorre solo rivelarlo raschiando la patina del peccato che ne offusca la bellezza. Una specie di “gratta e vinci”, ma per la vincita più importante: quella del Paradiso!

martedì 30 ottobre 2012

LITURGIA ESEQUIALE PER D. ARCANGELO

“Oggi, sarai con me in Paradiso”(Lc 23, 43). La parola di Gesù in croce al ladrone pentito è la rivelazione di ciò che è il Paradiso: è un essere con Cristo, un vivere eternamente in Lui il dialogo d’amore con il Padre nello Spirito Santo. “Ricordati di me” prega il morente. “Sarai con me” risponde l’Amore. “Ricordati di me” prega la paura. “Sarai con me in un abbraccio” risponde l’Amore.

Ogni funerale che celebriamo è una lezione di vita e di futuro.

C’è una parola che mi sembra pennellare a tutto tondo il profilo spirituale di D. Arcangelo. Una parola che appartiene a quel cantus firmus che ha fatto da sottofondo ai suoi 88 anni di vita come cristiano, come monaco e come sacerdote. Questa parola scritta nell’antifona che ha fatto da base al canto esistenziale di D. Arcangelo è fede. Siamo nell’anno della fede e anche un’occasione come questa può darci lo spunto per un abbozzo di riflessione.

Tutti noi possiamo testimoniare che quella di D. Arcangelo è stata una fede rocciosa, limpida, come la fiducia cieca di un bambino nell’amore della sua mamma. Questa fiducia intrepida si è tradotta soprattutto in un’obbedienza declinata davanti alle richieste dei vari Superiori che ha avuto. Quante volte egli ha dovuto coniugare i sinonimi del verbo credere: fidarsi, obbedire, rischiare, andare dietro a Gesù, secondo la definizione di fede che propone il testo conciliare Dei Verbum: “fede è l’atteggiamento con cui l’uomo si consegna a Dio liberamente e totalmente” (n.5).

La fede che ha infiammato il cuore del nostro confratello badengo è stata di ottimo conio, della lega inossidabile di Abramo, di S. Benedetto e del nostro S. Bernardo.  Come Abramo: “Esci dalla tua terra e va”… e lui è stato  in diversi monasteri… (Guatemala)

Questo suo spessore spirituale era abbinato ad un carattere trasparente, estroso, inventivo, allegro, gran lavoratore, connotato di tipica toscanità. Come non ricordare il suo simpatico umorismo che talvolta sfociava in una gradevole vis comica?

In questi ultimi mesi, con grande lucidità e ammirevole serenità, si è preparato all’incontro con sorella morte.  L’attendeva, con quei suoi occhi vispi che sprizzavano desideri di Paradiso: “Desiderare la vita eterna con tutto l’ardore spirituale”, ricorda S. Benedetto nella Regola.  La morte non ci deve far paura, semmai ci deve far paura una vita anemica di Vangelo, di amore sul quale saremo giudicati. D. Arcangelo ha avuto uno sguardo particolarmente paterno su quelle persone - molto numerose - sofferenti per seri disagi interiori dai vari nomi. Li ha accolti, li ha seguiti, li ha aiutati a superare le loro sofferenze.

Ogni persona cara che ci lascia rende tutti contemporanei. Perché in Dio non c’verità della nostra fede che i defunti ci invitano a tirare fuori da un certo dimenticatoio. Una verità di fede che professiamonel Credo. Molto opportunamente il nuovissimo Rito delle esequie  prevede che esso sia detto (noi lo canteremo) al momento della sepoltura, al cimitero.
Maria, porta del cielo e Madre di misericordia, accompagni Don Arcangelo all’incontro con Dio.

giovedì 18 ottobre 2012

FESTA DI SAN LUCA evangelista

Celebriamo oggi S. Luca, l’evangelista che non appartiene al gruppo dei Dodici e che non ha conosciuto direttamente Gesù. Ci consegna, oltre al Vangelo, il Libro degli Atti degli Apostoli, da cui attingiamo la sua vivacità nel collaborare con S. Paolo.

Nel Vangelo appena proclamato, abbiamo raccolto il ritratto che Gesù disegna del missionario, del credente tout court.

La tradizione afferma che Luca era anche un pittore, oltre che medico. Storicamente non è provato, eppure in questo c’è qualcosa di vero perché egli dipinge con le parole e fa emergere il volto di Cristo, e conseguentemente quello del cristiano. Pochi istanti fa, abbiamo raccolto il ritratto del missionario, del credente tout court. L’unica preoccupazione di chi annuncia Gesù è quella di essere piccolo, allora il suo annunzio sarà grande. Fidandosi più dell’aiuto di Dio che delle sue forze. Con un ritorno alle cose essenziali. Con un ritorno al cuore per accorgermi che Dio mi parla come un innamorato. Con una buona dose di umiltà. Prendiamo esempio da quella lampada accesa: essa non si sforza di fare luce, brucia, e basta.
Stando a quei versetti di Luca, l’impegno del discepolo è di portare pace, gesti vita ( “guarite i malati”) e la vicinanza di Dio. Dunque, siamo chiamati a “guarire” la vita degli altri. A dare e dire la buona notizia: “Dio è con noi, con amore”. Questo augurio, di tutto cuore, ce lo dovremmo scambiare anche tra di noi: “Dio sia con te, con amore”.

domenica 14 ottobre 2012

DOMENICA 28ma DEL TEMPO ORDINARIO (B)

La vocazione di un uomo non è quella di inventare se stesso ma quella di ascoltare qualcosa (Qualcuno?) che è già dentro di sé come un piccolo seme che contiene già la sceneggiatura della sua vita presente e futura. Ma sono necessari gli occhiali della fede.

C’è un libro, edito dalla comunità di Bose (ed. Qiqajon), che ha un titolo un po’ strano: “Parole da mangiare”. In esso, l’autore afferma che le vere risposte sono quelle che aprono a nuove domande. Ci sono infatti delle risposte che chiudono o concludono le questioni, ci sono delle risposte che ci dicono tutto quello che è bene sapere e sono senz’altro positive perché ci fanno andare avanti con più serenità. Ma ci sono anche delle risposte che non esauriscono le domande. Sono risposte che aprono a domande ancora più profonde e belle. Quando uno si fa delle domande è una persona viva, naturalmente senza esagerare per non cadere in una cronica quanto sterile inquietudine.

Cosa devo fare per avere la vita eterna?”. La domanda  dell’anonimo personaggio, in cerca d’autore, del Vangelo, presunto giovane secondo il passo parallelo di Mt, ci riguarda. E’ anche nostra. Quell’uomo vuol sapere se sta vivendo o se sta morendo: “Maestro buono, è vita o morte la mia? Viviamo anche noi questa domanda: cosa devo fare per vivere veramente? Per vivere una vita maiuscola? Per fare un salto di qualità?

Gesù risponde elencando alcuni Comandamenti. Il giovane, che ha interrogato Gesù per sapere la verità su se stesso, ammette di averli osservati ma rivela di essere abitato da una inquietudine interiore, un tarlo che lo rode dentro ma è un tarlo luminoso perché si traduce in desiderio di orizzonti più larghi di quelli soliti, normali di un uomo. “Signore, che cosa mi manca?”. Che cosa mi manca per volare nella mia vita? “Gesù, fissatolo, lo amò”. Un’espressione molto forte. Qualche biblista traduce con: “se lo strinse al cuore”. Se voglio sapere cosa mi manca, devo collocarmi spesso sotto quello sguardo, soprattutto nell’Adorazione Eucaristica, permettere che esso mi interroghi, mi scruti come un radar, mi attraversi come un laser, per rivelarmi ciò che non sono e ciò che potrei essere. Che mi invita a puntare alto nella vita.

Gesù al giovane ricco non propone un undicesimo comandamento ma fa una proposta radicale: una comunione più piena con Lui, sbarazzarsi di tutto e seguirlo. Chiede di andare oltre. Gli spara una raffica di verbi: va, vendi, vieni, seguimi! Una spallata a tante cose per essere libero e felice. Ma questo discorso  non viene recepito dal giovane ricco, ex futuro apostolo, che se ne va triste, privo del coraggio di essere felice con Gesù. Preferisce appartenere alla sua immagine che a se stesso. Preferisce restare un ostaggio sequestrato dalle sue ricchezze. Preferisce restare nel crepaccio buio di una vita spenta e ripiegata. Ha desideri di terra e non desideri di cielo.

Quel magis, quel di più che ci urge dentro è Gesù stesso:  è Lui a fare la differenza rispetto alla risposta tradizionale, pur valida ma insufficiente, di praticare i Comandamenti. Un’altra logica di vivere e un cuore moltiplicato. Quel giovane voleva la vita eterna. Essa non riguarda solo il “dopo” ma anche l’ “oggi”. C’è di mezzo il centuplo promesso. Gesù non ci paga solo con la  gloria eterna, magari firmandoci un assegno post-datato, pagabile alla cassa dell’eternità. Già quaggiù Dio ci restituisce moltiplicato tutto ciò che noi lasciamo per Lui.

giovedì 11 ottobre 2012

La fede è il caso serio della vita, nel senso che con o senza fede, con molta o poca fede, le cose cambiano e tanto. Tutto dipende se al centro c’è o non c’è Dio che con la sua Parola illumina e orienta i nostri giorni, Dio dal quale allontanarsi è cadere, al quale rivolgersi è risorgere, nel quale rimanere è stare saldi, al quale ritornare è rinascere, nel quale abitare è vivere in pienezza. Esiliare Dio o snobbarlo ci fa essere senza radici e senza ali, schiacciati sul presente e con un aumento vertiginoso di desertificazione del senso di vivere. Per camminare senza essere depistati dovremmo pregare spesso il Credo che è il racconto dell’amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo: le verità da credere non sono altro che la sequenza infinita dell’amore di Dio per noi. Il Credo è uno dei segni richiesti dall’Anno della fede. Per questo, noi abbiamo pensato di esporlo su un apposito copri leggio dove resterà per tutto l’anno.

Se restringiamo la luce che proietta l’anno della fede sulla nostra specifica realtà esistenziale, ci accorgiamo subito che la fede è il respiro vitale che permea tutta la vita monastica, è il registro che muove tutta l’intelaiatura della giornata del monaco, è davvero la conditio sine qua non

Il Prologo alla Regola, che è cristocentrica, ce lo conferma. Come non ricordare il v.21: “Cinti dunque i fianchi con la fede…”? Per San Benedetto tutto deve essere compiuto , perché tutto è visto, alla luce della fede. A cominciare dalle persone. L’abate è obbedito perché in monastero “creditur”, cioè si ritiene per fede che egli è Christi  vices(2,2); così l’accoglienza degli ospiti (53,1-2.7), la cura per i poveri e i pellegrini (53,15), la premura per gli ammalati (36,1-2) sono sostenuti dall’onda lunga della fede. E non soltanto le persone, ma anche le cose sono viste e utilizzate alla luce della fede. Allora non c’è da stupirsi che il monastero dove ubique credimus sappiamo per fede che Dio è dappertutto presente” sia definito da S. Benedetto “domus Dei”… non potrebbe essere diversamente!

Perfino il tempo viene valutato diversamente: non è più kronos, cioè una successione di ore, ma kairòs, cioè corrente di grazia e di salvezza. Sul fondale di un tempo visto così si ricama l’Opus Dei. Il tempo del monaco indossa quotidianamente il paramento della Liturgia delle ore. Il Papa ha detto una frase che non ha bisogno di commenti: “Chi trova Dio, ha trovato tutto. E noi lo possiamo trovare solo perché egli prima ci ha cercato e ci ha trovato”.

La fede di San Benedetto espressa nella Regola e che dovrebbe essere anche quella di ogni monaco, può essere sintetizzata in tre parole: “Obsculta”: ascolta la chiamata di Dio… fides ex auditu, “perfice”: porta a compimento il sogno che Dio ha avuto su di te creandoti; “pervenies”: approderai nell’abbraccio finale con Dio.

Sotto un certo aspetto, quest’anno della fede per noi monaci è un “di più”. Il motu proprio con il quale Benedetto XVI indice l’Anno della fede si intitola significativamente “Porta fidei”. Se ci pensiamo bene la porta del nostro monastero, quella vera, è quella della fede, una porta sempre aperta.
Maria, donna di fede, “beata quae credidisti”- “beata perché ha creduto” (lc 1,45), tonifichi la nostra fede per credere senza chiedere e assumendo con fierezza il Credo nel domicilio del nostro cuore perché da lì doni cadenze di testimonianza cristallina alla nostra vita cristiana.

martedì 2 ottobre 2012

SANTI ANGELI CUSTODI

Ogni anno la memoria dei Santi Angeli custodi viene a ricordarci queste presenze invisibili ma reali e sensibili nella nostra vita. Essi sono dono ai quali Dio ci affida, perché la nostra vita è un mistero così prezioso ma anche così fragile che proprio per questo ha bisogno di essere custodita amorevolmente ed efficacemente.

Gesù nel Vangelo alla domanda dei suoi discepoli chi sia il più grande nel regno dei cieli, da una risposta che li spiazza: chiama un bambino e lo indica: ecco chi è il più grande. Grande certo non in statura ma grande “altrove”. La porta d’ingresso del Paradiso è piuttosto bassa. Se abbiamo certe “altezze” faremo fatica a passarla. Gesù ci incoraggia a diventare come  bambini, cioè ad avere un cuore  quello sì veramente “grande”, a metterci fiduciosamente nelle mani di Dio, accettando serenamente di dipendere da Lui. Come ha fatto lo stesso Gesù che si è sempre rimesso nelle mani del Padre, nell’ascolto e nell’obbedienza alla sua volontà.

sabato 29 settembre 2012

FESTA DEI Ss. MICHELE, GABRIELE E RAFFAELE, ARCANGELI. Professione Solenne di D. Guglielmo

Oggi, la liturgia nel suo personale facebook ci offre la festa dei santi arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele che stanno accanto a noi come discreti compagni durante il nostro viaggio sulla terra. Direi che D. Guglielmo, con questi tre big celesti, tre protettori così in excelsis, inizia proprio bene la sua vita da monaco professo solenne, nella nostra comunità e per la Congregazione Benedettina di Monte Oliveto. Sono tre Angeli che esprimono la stessa radice del nome di Dio nella radice del loro nome: “hell”…

Gli stessi nomi dei tre arcangeli portano rispettivamente un dono che noi vogliamo rigirare a Dom Guglielmo. Sono tre doni che vengono ad equipaggiare la donazione di sé e per sempre che Dom Guglielmo oggi compie con la professione monastica solenne, circondato dalla sua comunità, dai famigliari e parenti giunti da Malta.

Dunque … : Michele, “Chi è come Dio?”, cioè lo stupore e il senso della presenza di Dio: per noi monaci questo atteggiamento è quello che dovrebbe colorare le nostre giornate; è un angelo combattivo, da chiamare nelle crisi piccole o grandi, quando ci sentiamo travolti da alcune negatività: ci aiuterà ad andare oltre le nostre paure e a vedere nero solo quando è buio! Gabriele, “Forza di Dio”, cioè, grande libertà interiore per aderire - obbedire! - alla volontà di Dio; nella BB è l’angelo degli annunzi importanti. Mille volte meglio della posta celere, ci trasmette nel cuore gli sms di Dio, ce li fa trovare scritti negli occhi di chi vive con noi e di chi casualmente incontriamo.  Raffaele, “Medicina di Dio”, cioè terapia d’urto fatta di sincera umiltà per guarire dalle sempre latenti paralisi nel praticare l’amore fraterno e nell’osservare la Regola. Questo angelo guaritore può aiutarci a fare pace con un certo nostro passato e a trasformare le nostre ferite in perle. Questi tre arcangeli Dio ce li ha dati apposta, sono lì per noi! Forse dovremmo riscoprirli di più e invocarli ancor di più.

Sono tanti i compiti che gli arcangeli e gli angeli assicurano a Dio e agli uomini ma, di certo, il più grande è quello della lode. E questo è anche il primo impegno del monaco, l’Opus Dei : Dio, primo servito. Prima del Canone, al Sanctus, la liturgia ci invita a unire i nostri cuori e le nostre voci all’esultanza degli angeli. Il monaco non ha bisogno di arrivare a quel punto della Messa: tutta la sua giornata dovrebbe essere un “Sanctus”, nella preghiera corale certo e anzi tutto ma anche per il resto delle 24 ore. Quello della laus perennis, in gran parte in coro ma non soltanto, è come un marchio di fabbrica che caratterizza, da spessore e autenticità alla vita del monaco. Anche per questo ti consegnerò tra poco il libro della Liturgia delle Ore: la Chiesa oggi ti elegge ad esercitarne ufficialmente il ministero e, come prevede il nostro Rituale, sarai insediato nel tuo stallo in Coro. La vita di un monaco ruota tutta intorno alla preghiera.

L’amore del Signore è fedele, fedele per sempre. Cerca, Don Guglielmo Maria, con tutte le forze di rispondere con quotidiana e gioiosa fedeltà alla fedeltà del Signore stesso. Non devi però mai dimenticare che questa tua consacrazione monastica è una grazia: una grazia che sprigiona ogni giorno l’aiuto necessario per la tua risposta. Non c’è amore senza una promessa, non c’è una promessa senza la percezione del “per sempre, non c’è un “per sempre” se non è fatto di santa perseveranza fino alla morte. Lo ricorda bene S. Benedetto alla fine del Prologo: “usque ad mortem in monasterio perseverantes” (Prl RB 50). Per Natanaele non è bastata la sua onestà, è stato necessario anche l’incontro con Gesù per annoverarlo tra i suoi discepoli. Anche a te, in fondo,  è successa la stessa cosa anni fa: hai incontrato il Signore che ti ha ri-orientato la vita indirizzandoti, attraverso un mix di con-cause, al nostro monastero. In genere, Dio fa più di quanto aspetti quando meno te lo aspetti!

 A conferma dell’investimento totale che stai facendo della tua vita su di Lui, ripeti anche tu ogni giorno la stessa professione di fede di Natanaele: “Tu sei il Figlio di Dio” (Gv 1,49).

Non voglio dilungarmi sugli impegni che la professione solenne comporta perché ad essi sei stato certamente preparato  dai due Padri Maestri di formazione che rispettivamente, prima l’uno poi l’altro,  la Provvidenza e l’obbedienza ti hanno messo accanto.

Recentemente, è stata pubblicata la biografia di un santo monaco cisterciense del Medioevo, Elredo di Rievaulx, con un titolo molto bello ed emblematico, che è tutto un programma: “Appassionatamente monaco”. Mi sembra che l’augurio che tutti noi ti facciamo, caro Dom Guglielmo, non possa essere diverso ma sia proprio lo stesso: sii appassionatamente monaco, cioè non condurre una vita monastica esangue e priva di smalto e slanci, ma sii testimone felice della tua scelta di consacrazione secondo la Regola di San Benedetto, nella Congregazione di Monte Oliveto.

domenica 23 settembre 2012

25ma DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (B)

Gesù continua ad educare i suoi apostoli sollecitandoli ad andare a Gerusalemme per condividere con Lui il mistero pasquale. Gesù parla di servizio, i discepoli sognano il successo. Gesù parla di croce, i suoi vogliono solo trionfi. Gesù parla di una strana  “classifica” in cui i primi sono ultimi e viceversa. Non il prestigio ma l’umiltà che è quella virtù che, quando si ha, si crede di non averla. La ricerca del potere ha sempre le sue tristi derive nella rivalità, nell’invidia e nell’ambizione. Nella Regola di S. Benedetto, il cap. 7 “De humilitate”, con la suggestiva immagine della scala, compendia tutto l’impegno di conversione del monaco.  Di essa non esiste un formato tascabile o ridotto, va accolta “sine glossa”, senza sconti, senza cedere alla tentazione di togliere o saltare qualcuno dei 12 gradini. L’ascesi condiziona l’ascesa! : “con l’esaltazione si discende e con l’umiltà si sale” (RB 7,7).

Chi è dunque il più grande?  Per rendere più espressiva la sua catechesi, Gesù accompagna le parole con un gesto destabilizzante e disarmante: prende un bambino, lo mette al centro e poi lo abbraccia. Una fotografia di sicuro effetto quella che scatta l’evangelista Marco. Ma perché proprio un bambino?  Sappiamo che ai tempi di Gesù non contava nulla, era l’ultimo di tutti. Perciò Gesù ne fa l’immagine del vero discepolo e quindi copia conforme all’originale, il Maestro, il quale “pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò e umiliò se stesso”(Fil 2, 6-11). Letteralmente potremmo dire: oscurò e azzerò se stesso. Ma ci sono certo anche altri motivi nella scelta di un bambino: perché esso non ha e non fa calcoli, non ha pretese da accampare, posizioni da conservare, privilegi da mantenere. Vive l’istante, riceve fiducioso ciò che gli viene dato. Si affida. Ha bisogno. Egli è anche l‘mmagine di chi è sempre abitato dal senso della meraviglia, della sorpresa. Uno diventa anziano non quando ha 70-80 anni, neppure quando perde la memoria, ma il giorno in cui la capacità di stupirsi, quando non si accorge più della bellezza che è intorno a lui e che è l’impronta digitale di Dio sulla terra.

Ma, agli occhi di Dio, è grande non solo chi occupa l’ultimo posto ma anche chi fa grande il suo cuore quando accoglie coloro che sono stati resi “piccoli” da tante sofferenze, fragilizzati dalle prove della vita.  Noi siamo grandi e importanti se frequentiamo queste persone. In loro c’è Cristo e, in Cristo, il Padre.

Le braccia allargate di Gesù esprimono molto bene quanto deve essere ampia la nostra capacità di donare e donarci, superando pregiudizi. Non si abbraccia uno di cui si ha paura.
Ognuno di noi butti via il metro con il quale perde tempo a calcolare la propria statura e così avrà sempre quella di un bambino.