martedì 2 settembre 2014

21 Domenica del Tempo Ordinario (A)

Il Vangelo di questa domenica - Mt 16,13-20 - segna una sterzata decisiva  dell’intero racconto matteano. Con voi, soltanto una breve sottolineatura che si limita ai primi quattro versetti che sfociano nella solare e solenne professione di fede di Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” che trasformano quell’angolo di Cesarea di Filippo a nord della Galilea, nel luogo del primo “conclave” della storia: “…tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa…a te darò le chiavi…ciò che legherai…ciò che scioglierai”.
I discepoli seguono Gesù incantati dalla sua parola così diversa da quella degli altri rabbì, i suoi miracoli lasciano tutti a bocca aperta, la sua attenzione agli ultimi della società capovolge schemi mentali e religiosi. Ma ora, Gesù, inizia a girare le carte in tavola, vuole fare il punto della situazione con i suoi discepoli. E con noi. Ed ecco allora la pungente domanda: “La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?”. Gesù non sta attraversando una crisi di identità, non vuole informazioni circa il gossip che circola su di lui ma vuole pennellare in chi lo ascolta un’intuizione vitale. Tutti in fila, i suoi discepoli, gli rispondono le cose più scontate: “Alcuni Giovanni Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti”. La risposta che daremmo forse anche noi, secondo il catechismo e la teologia.
Gesù allora fa alzare in volo una seconda domanda, preceduta da un “ma” che vuole ascoltare solo una risposta che interpella personalmente: “Ma voi chi dite che io sia?”. La domanda, così incalzante e coinvolgente di Gesù arriva stasera anche per ciascuno di noi: “Io chi sono per te?”. Una domanda secca, asciutta e forse un po’ birichina, che ci mette al muro. Cristo non è ciò che io dico di Lui, ma ciò che io vivo di Lui. Nella grammatica cristiana il verbo credere non regge il complemento oggetto: “credo Gesù Cristo”. Il monaco (ma anche ogni cristiano impegnato) si autodefinisce dall’espressione: “credo in Gesù Cristo”. Ad una domanda inquietante, una risposta di fede.

“In”, cioè innestato in Lui, come tralcio nella vite. Vivere di Lui. Vivere con Lui. Non poter fare a meno di Lui. Non avendo niente di più caro e nulla anteponendo al suo amore, come ci ricorda la Regola nel cui orizzonte è presente tutta una dinamica esperienziale che ruota intorno all’umiltà e all’obbedienza, due virtù proprie di Cristo umile e obbediente usque ad crucem. Fare di Cristo il cuore pulsante della nostra vita monastica. Respirare Cristo.

“Chi sono io per te?”. Domanda da amare. Domanda da sentirsi ripetere ogni giorno.

SOLENNITA’ DELL’ASSUNZIONE DELLA B.V. MARIA

Sull’uscio della casa di Elisabetta … è anche qui che sembra trattenerci la solennità dell’Assunta. Da quel punto prospettico scopriamo cosa e come guarda Dio. Dio guarda soprattutto l’umiltà di Maria, facendo lampeggiare non i grandi fatti ma l’elogio della piccolezza. Umiltà: cioè il giusto e sano riconoscere quello che si è, con luci e ombre. Essa parte da una verità: io sono unico ma non l’unico. Se la superbia è la madre dell’ipocrisia, l’umiltà lo è della serenità che ci fa vivere gioiosi di quello che si è e che si ha. Su quell’uscio Maria, maestra di stupore, con il Magnificat che è un mosaico di testi biblici si autoproclama felice e ci sgrana una serie di verbi in chiaro-scuro riferiti a Dio con i quali riassume la Storia della Salvezza: ha guardato, ha fatto, ha spiegato, ha disperso, ha rovesciato, ha innalzato, ha ricolmato, ha rimandato, ha soccorso, si è ricordato … Una serie di verbi incalzanti tra i quali troviamo certamente quelli che ci ricordano quanto la mano di Dio ha fatto e fa anche nella nostra vita. Cerchiamo di non essere degli inguaribili distratti.
Questa solennità inoltre, a noi che, per tanti motivi, nel viaggio della vita siamo così schiacciati sul presente è una boccata di ossigeno che ci spalanca un orizzonte splendido, quello vero e che ci attende. Maria assunta in cielo e, prima di lei, Gesù Risorto, sono la certezza assoluta della fede che la nostra vita, anche quella corporea, è destinata ad una felicità eterna. “Credo nella risurrezione della carne”, affermiamo nella professione di fede: l’anima non può rimanere da sola, ha bisogno del suo compagno di viaggio, il corpo che così partecipa all’eternità. Siamo figli fatti per il cielo, come Maria nostra Madre. Lei aspetta tutti noi per l’abbraccio con Dio. Vedere la nostra vita dalla postazione dell’eternità le conferisce luce, leggerezza, la riconduce all’essenziale, le imprime orientamenti precisi e positivi.
Ognuno di noi è un sogno digitato dal e nel cuore di Dio e perciò porta in se incorporato il cielo. Dove la natura scrive morte la fede legge pasqua. C’è questa comunione fortissima tra noi e i nostri cari che ci hanno solo apparentemente lasciato: in questi casi il cuore non è dove batte ma dove ama. Riceviamo perciò anche un’iniezione di coraggio di fronte a tante prove e dispiaceri che a volte assumono dolorose dimensioni.  Ma anche la nuvola più scura ha sempre un lato verso il sole.
Però leggere il significato di questa festa come uno sguardo verso il cielo, al futuro che ci attende, non ci deve far dimenticare l’ineludibile impegno qui, sulla terra, ad essere cristiani coerenti e gioiosi di manifestarlo. Andiamo a scuola da Maria che ci insegna ad intrecciare la fede con la quotidianità, che ci consegna l’alfabeto della vita che noi possiamo individuare ed esplorare in molte delle litanie a lei dirette: amore, fedeltà, preghiera, tenerezza, misericordia, gioia, consolazione.

Così sia e così speriamo.                

Omelia per il funerale della nonna di D. Tommaso

In occasioni come questa forse sarebbe meglio il silenzio. Ogni parola oltre a perdere contenuto e significato, rischia di essere di troppo. Sì, forse sarebbe meglio il silenzio in questi momenti in cui la nonna Gina sembra prendervi per mano e portarvi sulla sponda dell’invisibile dove lei si trova da domenica pomeriggio. Non ci sono parole umane di consolazione ma ci sono quelle della nostra fede, altrimenti è come vivere con un orologio senza lancette. E’ come girare a vuoto senza trovare la giusta direzione. La freccia segnaletica per noi è la parola di Gesù Risorto che abbiamo appena ascoltata nel Vangelo: “Chi crede in me, anche se morto vivrà”. Anche se morto… Una speranza che è una certezza che si identifica con l’amore fedelissimo di Dio per ognuno di noi. Un amore, il suo, in grado di compiere quello che tutti noi desideriamo: far vivere per sempre le persone, come nonna Gina, cui vogliamo bene. Per questo, se ci pensiamo bene, a proposito dei nostri defunti non dovremmo mai usare l’imperfetto “era..…” ma il presente “è”! Per un cristiano, in realtà, la morte non esiste perché appena chiudo gli occhi a questa vita, li apro all’infinito di Dio. La morte è una porta buia ma per chi crede è una porta che da su un mondo di luce. Una porta aperta da Maria, guardiana della nostra ultima ora. Lei è stata vicina all’ultimo respiro del Figlio in croce e lo sarà anche accanto al nostro.
Ecco perché se è vero che la fede non toglie il dolore però è anche altrettanto vero che abilita chi soffre a vivere la morte della persona cara con atteggiamento e prospettive diverse. La sofferenza assume i lineamenti timidi ma forti della serenità interiore. C’è poi il gran mezzo della preghiera, come il Rosario, e ancor più, la partecipazione alla Messa che ci mettono in forte comunione con quei nostri cari che si sono trasferiti presso Dio ma che continuano ad abitare con noi. E’ vicina a te D. Tommaso che gli sei
sempre stato tanto affezionato; da bambino andavi con lei e con l’altra nonna al Santuario della Madonna di Pradella e di quello del B. Innocenzo


da Berzo. Lei ha sempre visto bene la tua scelta di vita consacrata e ora che è così vicina Dio sarà per te un sostegno spirituale.
Sicuramente in queste ore la vostra mente è affollata di ricordi e di gesti di Gina che come tante altre persone vi ha lasciato degli insegnamenti, più con l’esempio che con le parole, ancorati a valori umani e religiosi. Il modo più bello di ricordarla è l’impegno a farli vostri. La vita di persone come Gina è stata come un’omelia muta che parla al cuore.

Gina, siatene sicuri, come tutti i nostri cari defunti si trova nell’abbraccio inesprimibile e splendido di Dio: senta anche il vostro, forte forte… 

DOMENICA 15° DEL TEMPO ORDINARIO (A) PROFESSIONE TEMPORANEA DI D. CELESTINO.

Ecco…”. Con un “ecco” che cade tra la gente assiepata sulla spiaggia, Gesù dall’insolito e precario pulpito di una barca, propone la prima di una serie di sette parabole, cioè di originali ed efficaci “audiovisivi”, attinti dalla concreta esperienza del quotidiano, dalla natura, per trasmetterci un messaggio, con un linguaggio che contiene di più di quel che dice. A quella di oggi, che qualcuno definisce come la madre di tutte le parabole, l’interpretazione la dà lo stesso Gesù, segno che si tratta di qualcosa di  molto importante. Non si tratta di un contadino incapace o di un seme di qualità scadente. Il problema è il terreno. Stesso seme ma non stessi terreni. Dobbiamo ricordarci che la terra di Gesù, ancora oggi, non è come la grande e bella pianura padana ma spesso si presenta tagliata da nastri di strada o sassosa o con striminzite macchie di rovi e arbusti. Strada-sassi-spine sono le tre esse della parabola. Sono proprio i primi tre terreni in cui il seme gettato fallisce perché essi mancano della necessaria fertilità.

Carissimo D. Celestino, quando diverso tempo la mano del Signore si è aperta su di per gettarvi seme della sua Parola è iniziata a fiorire una nuova stagione nella tua vita. Non ti sei accontentato del trenta e nemmeno del sessanta ma, avendo essa disegnata sul terreno del tuo cuore la parola “vocazione monastica”, hai puntato al cento. Hai avvertito dentro di te una certa insoddisfazione verso tante realtà che, per quanto belle e oneste, sentivi che non ti bastavano più. Hai voluto evitarti una forma di anoressia esistenziale. Una lista di voli raso-terra.
Dopo aver maturato la tua scelta di consacrazione, sostenuto dai tuoi famigliari che ancora saluto e ringrazio, aiutato nel discernimento dal tuo padre spirituale, per una serie di circostanze provvidenziali, tramite il comune amico Claudio che è qui presente, sei giunto in “questa scuola del servizio divino” che è Monte Oliveto. Hai iniziato il tuo percorso formativo, in Noviziato ti è stata spiegata e approfondita la Regola che oggi intendi professare, ed eccoti adesso alla impegnativa tappa della professione temporanea che tale, “temporanea”, lo è solo perché lo chiede la prudenza della Chiesa. In realtà, l’offerta di te stesso a Dio deve essere già da adesso totale … infatti non ci si può donare a Dio a col contagocce! Per il Signore: tutto e subito!
Non c’è amore senza una promessa, non c’è promessa senza esserci incorporato un “per sempre”, non c’è un “per sempre” se non lo si vuole sino alla fine, sino e oltre la morte. Oggi tu ufficializzi quello che che è il servizio più grande che puoi fare alla Chiesa e alla società: essere monaco … con la scelta dell’obbedienza e della conversione del tuo cuore che comprende i voti di castità e di povertà. E non per realizzare una santità di “serie A” perché tutti i battezzati sono chiamati alla santità, ma perché trovi la tua felicità nel fare la volontà di Dio, essere una piccola icona del Fiat di Maria.

Dio, come quel seminatore, sperpera fino allo spreco. Ha proprio le mani bucate: bucate dai chiodi sul legno della Croce, il più clamoroso degli sprechi di Dio per noi tutti. Ed ecco perché ti invito a guardare spesso nostro Fondatore, San Bernardo Tolomei, ritratto mentre contempla il Crocifisso che è “il come” dell’amore. D. Celestino, lascia che Cristo ami in te. Se saprai fare spazio nella tua vita monastica al suo amore, allora amerai come Lui. Come insiste San Benedetto a più riprese nella Regola, che hai letto e studiato durante il Noviziato, fai di Gesù il tuo “tutto”.

Nella vita di S. Teresa d’Avila si narra che un giorno, sulla scala del noviziato del suo Carmelo abbia incontrato un bambino che le chiese il suo nome. “Sono Teresa di Gesù”, rispose la Santa, che subito aggiunse e tu, bambino, come ti chiami?”. “Gesù di Teresa”, fu la risposta.  Dunque, per te: Celestino di Gesù e Gesù di Celestino.

SOLENNITA’ DEI SANTI PIETRO E PAOLO

Soltanto Lui, il Cristo, poteva metterli insieme. Pietro e Paolo: così diversi. Pietro e Paolo…  due percorsi di vita annodati dallo stesso legame: Cristo.
Pietro: l’ex-pescatore di Cafarnao, uomo semplice e rozzo, entusiasta e irruente, generoso e fragile. Unico per quella sua solare professione di fede che è un resumé di teologia allo stato puro: “Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio” (Mt 16,16).  Proprio lui è scelto per essere il primo. Proprio lui con le mani callose della pesca (ma le mani sporche di lavoro profumano di dignità) e la mente certo a digiuno delle profezie, delle discussioni dotte degli scribi, è scelto per essere il primo tra gli Apostoli. Proprio lui che piange le lacrime amare del rinnegamento e sente bruciare forte la ferita del tradimento. Come i cristiani di ogni epoca, anche noi siamo pietre su Pietro…e così viene su la grande Chiesa.
Paolo: l’intellettuale raffinato e polemico, lo zelante e fanatico persecutore. Sappiamo tutti che non fu discepolo diretto di Gesù, ma che il via alla sua azione instancabile e vulcanica fu il famoso incontro, rocambolesco e decisivo, con il Risorto sulla strada di Damasco. Nelle sue Lettere gustiamo il fascino e la bellezza di una vita completamente orientata a Cristo.
Chiavi e passi. Chiavi: Pietro. Passi: Paolo.
Guardando a loro, ma visti come Simone e Saulo, possiamo dedurre che Dio non guarda i meriti perché il suo amore non si merita ma lo si accoglie e condivide. Quando Dio chiama qualcuno a seguirlo più da vicino, può riciclare in positivo i suoi limiti,  le sue fragilità e miserie. L’impulsiva testardaggine di Simone si trasforma in roccia su cui costruire la Chiesa, la intransigente passionalità di Saulo si trasforma in ardore missionario. Qualcosa di simile può accadere anche a noi, ma la premessa necessaria, la conditio sine qua non, è consegnare senza riserve la nostra vita a Cristo. Senza che ci sia un altro “tu” in concorrenza. Come a Simone anche a noi cambia il nome, cioè sostituisce chi siamo con chi potremmo essere se lo seguiamo e pratichiamo la sua Parola.

Ma adesso riascoltiamo quella inquietante domanda che Gesù pone nel Vangelo prima proclamato, però restringendola dal plurale al singolare: “Chi sono io per te?”. E’ vero che “Solo buone domande meritano buone risposte”(Oscar Wilde), ma quella di Gesù non è solo una “buona domanda”, essa è la domanda delle domande. Una domanda che ci mette al muro. Dobbiamo dare la nostra risposta personale. La nostra risposta, come quella data da Pietro, dovrebbe pennellare il rapporto che abbiamo con Gesù. Riguarda il “come” e il “quanto” collochiamo la sua presenza nelle nostre 24 ore. Cristo non è tanto ciò che dico di Lui, ma ciò che vivo di Lui. “Chi sono io per te?”. Domanda da amare e da porsi ogni giorno.

SACRO CUORE DI GESU’ (A)

Quante perle in poche parole! Gesù capovolge le regole del gioco.
Gesù sembra snobbare coloro che possono esibire eccellenti pagelle scolastiche o di altro tipo, non gli interessano i primi della classe nella vita, quelli che sono superbamente ingolfati in se stessi, nella propria bravura in tante cose, quelli che si sentono a posto. Lui non è per i saccenti e i presuntuosi, quelli che sono preceduti da prefissi come super, iper o méga. Lui si dona ai piccoli che non sono soltanto i bambini, i poveri o gli ultimi della società ma, stando al termine greco tradotto con “piccoli”, anche alle persone con alcune contraddizioni, immature, incerte, zoppicanti, ansiose, che non hanno paura di ammettere le loro debolezze. Agli umili, ai disarmati.
Gesù chiama tutti questi tipi di persone ad ormeggiare nel suo cuore per fare esperienza della sua dolcezza, per ritrovare nuove energie, nuovi impulsi, per ricaricare energie indebolite. Ci chiede di non rimanere schiacciati dal male che facciamo, ci risolleva dai nostri errori e ci dice di ripartire, di avere fiducia nel suo amore che respira alle nostre spalle.
C’è poi un verbo che caratterizza lo stare con Gesù: “imparare”. E Gesù stesso dice da chi e che cosa. Da Lui. La mitezza e l’umiltà. Non le possiamo imparare da altri maestri. Sono due materie talmente importanti alla scuola del Vangelo che Gesù chiede di impararle da Lui.

Gesù ci ha mostrato la misura (la dismisura!) del suo amore morendo in croce per noi. Lasciamoci allora raggiungere dal suo amore che non pone condizioni, che non pesa, che non ricatta, che non fa star male, che non ci avvita in piccinerie mentali: un amore libero che solo Lui sa proporre.

CORPUS DOMINI (A)

Lo ha voluto Lui. Con un gesto libero, disarmante, originalissimo. Da Dio.  Lo ha voluto Lui nell’ultima Cena, dopo quel chiodo di tenerezza che è la lavanda dei piedi. Ultima Cena, nella quale ha le radici la solennità che stiamo celebrando, anche se liturgicamente ha avuto origine in un altro contesto storico: “Prendete e mangiate”-“Prendete e bevete”. Gesù decide di rispondere al suo desiderio di stare sempre con noi rimanendoci nel segno umile, semplice, fragile, quotidiano di un pezzetto di pane e di un po’ di vino.
Un pane come pro-memoria del suo amore. L’emozione di un Dio che mi raggiunge come sono: sporco o splendido e fa di me il suo tabernacolo che cammina. Ciascuno di noi è il tabernacolo che preferisce.
Ad ogni Eucarestia è Dio che ci cerca e ci chiama: “Beati gli invitati alla cena del Signore …”. La piccola ostia che sa di niente e che S. Teresina chiamava “cielo che sei mio” ci fa affacciare sull’immensità di Dio. In noi si deposita l’orma lieve di Dio, lieve come l’ostia. Si immerge nel nostro cuore per organizzare l’amore.
La festa del Corpo di Cristo, offerto come pane, ci ricorda che solo il dono di sé da senso alla vita, è l’unica strada per la vera felicità. L’Eucarestia educa al servizio, non ci lascia in un’ovattata sonnolenza. L’Eucarestia ricevuta ci compromette perché ci impegna ad una vita non troppo dissimile da quella di Gesù. Ci insegna l’arte del servizio. “Fate questo in memoria di me” significa di certo: “celebrate questo rito per rendermi realmente presente”, quindi non un semplice ricordo emotivo della sua Pasqua, ma significa anche: fatevi voi pane e vino per i vostri fratelli. Come voi ricevete me nell’Eucarestia, così gli altri devono ricevere voi nella loro vita. Chi non vive eucaristicamente vive egoisticamente.

E vivere così, di giorno in giorno, fino all’ultimo, quando il nostro morire sarà passare nella sua Pasqua, e l’ultima Eucarestia sarà il “viatico”, cioè l’unico e bellissimo ricordo che ci porteremo via da questa terra,  per andare là dove si ama senza fine.

SS. TRINITÀ (A)

Chi naviga nel mondo di facebook incrocia sempre l’espressione “mi piace” da cliccare o meno. Ognuno di noi, sulla sua bacheca, può condividere i propri stati d’animo, appuntamenti, musica e parole. In un certo senso, l’evangelista Giovanni lo possiamo considerare un precursore dei social network, perché era convinto che noi siamo fatti di ciò che ascoltiamo, vediamo, condividiamo … Ricordiamo le prime parole della sua Lettera: “… ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo visto con i nostri occhi, ciò che le nostre mani hanno toccato” (1Gv. 1,1) E con il Vangelo prima proclamato, pochi versetti tratti dal lungo monologo di Gesù, condivide con noi un link da cliccare: l’incontro notturno con Nicodemo. Altri suoi links, se ricordiamo, li abbiamo condivisi in Quaresima: la Samaritana, il cieco nato, Lazzaro.
Dio è uno solo, ma non è solo. In se stesso non è solitudine ma comunione. E’ dono e gioia di relazione. “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio…” (Gv 3,16). Questo versetto è il cuore di tutto il Vangelo. Il Credo che noi diciamo o cantiamo alla Messa è attraversato in filigrana da un altro articolo di fede: io credo nell’amore di Dio. L’amore non può essere solo, è sempre plurale. Qui sta il “perché” della Trinità, che non è un freddo distillato teologico, un rompicapo celeste, uno strano esercizio aritmetico (1=3 e 3=1), un mistero neutro, scarico di indicazioni operative per la nostra vita terra-terra.
Dio per crearci si è guardato allo specchio. Noi siamo abbracciati dal mistero della Trinità, tre Persone uguali ma distinte. Essa è l’immagine provocatoria di quello che dovrebbe essere il nostro stare come armonia di differenze. Noi siamo tutti uguali per la stessa natura umana (non ci sono uomini di serie A e uomini di serie B), ma distinti per le diversità che ci connotano. Ognuno di noi ha il suo volto, la sua storia, il suo identikit intrasferibile. Dal momento del nostro Battesimo, noi siamo impastati di vita trinitaria.

Il Padre è amore, il Figlio è amore, lo Spirito Santo è amore e ognuno vive con-per-in l’altro; con-per-in sono le tre paroline (preposizioni) dell’amore. Perciò quando noi amiamo o mettiamo un mattone di comunione là dove viviamo, facciamo la più bella professione di fede nella Trinità, ne diveniamo lo spazio pubblicitario. S. Agostino ha detto splendidamente: “Se vedi l’amore, vedi la Trinità”. Non possiamo giocare la nostra vita da solitari. Al contrario, se io semino indifferenza, freddezza, amarezza, odio, astio, rancore, paure, pettegolezzi e calunnie, io sconfesso la Trinità che dunque più che un mistero da capire è un mistero da sperimentare e vivere.

SOLENNIT À DELLA PENTECOSTE (A)

La Pentecoste, effetto domino della Pasqua, anzi Pasqua compiuta: ovvero cronaca di un incidente “non annunciato”.
Se avessero contato solo su se stessi, i componenti di quella piccola armata brancaleone che erano gli apostoli, asserragliati dalla paura nel cenacolo, non avrebbero fatto molta strada. Di alcuni, il loro curriculum vitae non li candidava certamente a portare Gesù e la sua Parola fino agli estremi, quelli geografici e quelli del martirio. Ma c’è un fuori-programma: lo Spirito Santo, che li raggiunge con il suo soffio vitale, scombina tutto e li promuove sul campo evangelizzatori. Coraggiosi, decisi, entusiasti, audaci. Non più soli, ma abitati dallo Spirito Santo, il Presente Invisibile. Lui, terza Persona della SS.ma Trinità, è il debordare dell’amore di Dio. L’estasi di Dio. E’ il respiro di Dio che riempie il mondo.
Lo Spirito Santo è luce di verità che si dà e ci dà appuntamento nella Chiesa  con i misteri della fede, è vento di libertà perché ci offre la legge dell’amore che è vero solo quando è libero, è fuoco di carità che ci fa adottare il vocabolario della comunione. Ci fa vivere non di istinti ma di istanti, se questi sono riempiti di opere buone.
La Pentecoste può essere accostata al primo capitolo della Genesi perché anche essa dà origine ad una nuova creazione. Il lavoro dello Spirito Santo è quello di dare la vita: “…et vivificantem”, come diciamo nel Credo. Fa spuntare nuovi germogli anche su un albero secco.
La Pentecoste non appartiene a ieri, non è un ricordo la cui eco sfuma col passare degli anni, dei secoli. La Pentecoste è perennemente in atto. Lo Spirito Santo, ricevuto al Battesimo e alla Cresima, infatti è anche il segreto della giovinezza del cristiano, non perché modifica l’età segnata dalla carta d’identità ma perché spiana le rughe del nostro egoismo, non fa un piccolo intervento estetico a fior di pelle ma un lifting bellissimo e irreversibile a chi ha il cuore sciupato dai peccati. Ci fa deviare dai supermercati delle illusioni che ci vendono ricette di felicità a buon prezzo, dai luna-park di certe emozioni fine a se stesse e che poi ci lasciano con la bocca amara, per riportarci invece continuamente a Gesù che, Lui sì è la Verità e  la Vita, oltre che la Via.

La forza dello Spirito Santo si innerva nei suoi magnifici sette doni: quello della sapienza che è sapore dato alle cose che si fanno e che si dicono; quello dell’intelletto che ci abilità a leggere in profondità quanto ci capita e a saper andare oltre a chi ci spegne il sorriso; quello della scienza che non corrisponde a quello che ci sforna Wikipedia ma ci fa scoprire il perché delle cose create e l’impronta del Creatore in esse; quello del consiglio che ci orienta nei momenti di dubbio e di sconforto, consapevoli che se la vita non arriva con le istruzioni incorporate non è altrettanto vero che ai bivi della vita non ci sia una segnaletica; quello della fortezza che non è solo tenace volontà ma anche capire che tutto quello che vogliamo di bello è dall’altra parte della paura; quello della pietà, cioè dell’amore filiale verso Dio visto come un papà che fa il mestiere di amare e di perdonare; quello del timore di Dio che non è paura di Lui ma sana attenzione a non prenderlo in giro ma piuttosto a prenderlo sul serio.
Lo Spirito Santo è la carezza di Dio sul nostro cuore ferito da alcune cattiverie, è la voce di Dio nella nostra coscienza quando è un po’ sotto anestesia, è la mano di Dio quando siamo smarriti per le nostre debolezze, è la provvidenza di Dio nelle nostre necessità.

Adesso socchiudiamo gli occhi e con fede, con forza, con passione, diciamo ma per la penultima volta: “Vieni, luce dei cuori!”

SOLENNITÀ DELL’ASCENSIONE (A)

Per Gesù l’ultimo appuntamento è sempre il penultimo: quello al monte, luogo dell’esperienza divina, è rimasto il primo di una serie infinita di appuntamenti.
Quello sperone di monte sembra una scogliera di naufraghi abbandonati. Ed è lì che Gesù ha dato l’appuntamento agli undici. Ed è lì che Gesù                                    prende, per così dire, la doppia cittadinanza, quella del cielo e quella della terra. In altre parole: si conclude il tempo del Gesù storico e sboccia quello della Chiesa, fatta di uomini fragili e peccatori ma anche di tanti santi!
L’Ascensione, cioè Gesù che va al cielo sotto gli occhi attoniti dei suoi discepoli, disorientati e spiazzati, alcuni in adorazione altri nel dubbio, come ce la presenta gli Atti (prima lettura), non è un finale da commedia all’americana, non è un episodio da leggere come un reportage, non è un fenomeno mediatico dai connotati paranormali. Al contrario: quello di Gesù è un passaggio di consegne che illumina di concretezza il percorso della nostra vita. L’Ascensione non è la festa della sua partenza ma della sua permanenza. Gesù, nel Vangelo prima proclamato - pochi versetti di Matteo, un evangelista-teologo - e che sprizza scintille di risurrezione, ci incarica di renderlo visibile dappertutto, a cominciare da dove viviamo, che è il luogo in cui Dio ci chiama a farci santi.

Le nostre 24 ore sono la piazza di quel Vangelo che dobbiamo annunciare, non necessariamente in modo diretto perché quell’ “andate” di Gesù non è solo un verbo di movimento fisico ma indica anche l’aprirsi a nuove dimensioni di vita, ma particolarmente con la testimonianza e l’impegno della preghiera che è il respiro della nostra fede. Il nostro quotidiano è dunque la cattedrale dove ci incontriamo con il Risorto. Possiamo perciò riassumere che l’Ascensione non è la festa dell’addio ma la festa dell’invio. L’altro è il cielo dove trovo Gesù e io sono il cielo in cui l’altro deve vedere Gesù. Non lo devo cercare nei quartieri residenziali del cielo. Il suo indirizzo provvisorio porta i connotati di ciascuno di noi. E’ l’inquilino di quell’appartamento privatissimo che si chiama “persona umana”. E’ salito al cielo per nascondersi dappertutto sulla terra. Un po’ tutto un gioco per farci innamorare ancor di più di Lui. Oltre che a vivere con ascesi si deve vivere da “ascesi”, cioè orientati ad un destino più grande, con lo sguardo lassù ma con i piedi quaggiù, allacciando collegamenti tra cielo e terra. Per evitare il rischio di una identità cristiana bonsai.

L’Ascensione è la festa della promessa: “Io sono con voi tutti i giorni” (Mt 28,20). Possiamo prendere le distanze da quei versi di Quasimodo: “Ognuno sta solo sul cuor della terra”. Non è vero! Gesù azzera la collezione delle nostre paure. “Tutti i giorni”. Anche e soprattutto nei giorni segnati dalla sofferenza, dal vuoto, da quei dubbi su noi stessi che ci creano una realtà che poi quasi sempre non esiste. In ogni situazione ricordiamoci ogni volta di quel ”io sono con te tutti i giorni”. Queste parole sono il più potente ansiolitico, così come un cuore in disordine, non in pace con Dio è il più grande ansiogeno.


La Vergine Maria che ha accompagnato i primi passi della Chiesa nascente, accompagni anche noi, chiamati ad essere discepoli e a rendere discepoli gli uomini.

OMELIA FUNERALE GIOVANNI

Da sempre, almeno fin dagli inizi del secolo scorso, Monte Oliveto ha avuto per motivi diversi ma convergenti, un rapporto speciale con alcune famiglie del luogo. La comunità monastica insieme con queste famiglie, in un certo senso, si sono sempre sentiti come una sola grande famiglia. Per questo mi sembra molto bello e significativo che alla S. Messa esequiale di Giovanni (uno di queste famiglie) siamo tutti insieme presenti: abate e monaci di Monte Oliveto e voi suoi famigliari, parenti e amici.
Se un giorno sentirete dire che sono morto, non credeteci: è una bugia”. Queste parole di un santo sacerdote le possiamo fare nostre in questo momento, le possiamo applicare ogni volta che un nostro caro ci lascia.
Se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto”. La fede generosa di Marta, sopraffatta dall’emozione, si sbaglia. E’ in fondo quello che pensiamo anche noi quando un nostro caro se ne va per sempre. Dov’è Dio nel nostro dolore? Dio è sempre qui, con noi, ma non come esenzione alla morte. Gesù non ci ha promesso che non saremmo morti, ma ci ha promesso qualcosa di più: la vita per sempre. Il mistero di Gesù che muore e risorge incrocia sempre il mistero di ogni morte, anche quella del caro Giovanni. Ecco perché ogni morte è contemporaneamente un venerdì santo e una domenica di Pasqua.
La nostra fede è l’unica in grado di compiere ciò che il nostro amore umano vorrebbe fare: far vivere per sempre le persone cui vogliamo bene. Per questo la morte non ci può far paura, non ci deve far paura. Semmai deve far paura una vita spesa male, anemica di bene. Se viviamo in comunione con Dio, la morte sarà soltanto come dire a Lui: “Eccomi !”.  Ecco perché si può dire che la morte per un cristiano non esiste, perché appena chiude gli occhi li apre all’infinito di Dio, alla vera vita!  Per un cristiano, morire non è sparire nel nulla, ma è tornare a casa.                                  
La morte non è la fine di tutto: Giovanni continua a vivere accanto a noi.



Affidiamo Giovanni alla Madonna e per lui e anche per noi stessi la vogliamo così invocare: “Prega per noi, peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte. Amen”.

QUINTA DOMENICA DI PASQUA (25mo professione di D. Jos)

Anche oggi, come quattro domeniche fa, c’è ancora lui l’Apostolo incredulo, Tommaso, realista fino ad essere sfacciato, con una domanda cucita addosso: “Signore, non sappiamo dove vai: come possiamo conoscere la via?”(Gv 14,5). E Cristo riparte, ancora una volta: “Io sono la Via, la Verità e la Vita”. Parole enormi. Si trovano sulla carta di identità di Gesù, figlio di Dio. Gesù ci dona la beatitudine della fiducia. Tre parole degne del miglior imprenditore, non commerciale, industriale o aziendale ma del Padrone del Paradiso. Tre “V-V-V” che non indicano un sito internet ma sono le tre coordinate che ci orientano.
Via-verità-vita. Queste parole sono pronunciate nel lungo discorso di addio durante l’Ultima Cena e si appoggiano al precedente invito di Gesù: “Non sia turbato il vostro cuore, abbiate fiducia in me” (Gv 14,1). Gesù sta per morire e vuole tranquillizzare i discepoli che però non sono molto convinti. Gesù vuole tranquillizzare anche. S. Teresa d’Avila affermava: “Nulla ti turbi, nulla ti spaventi, chi ha Dio nulla gli manca. Solo Dio basta”. E Papa Giovanni XXIII, da poco canonizzato diceva: “Dio sa che ci sono e questo mi basta”. E poco dopo, Gesù ci garantisce che saremo sempre con Lui. Posti già occupati! Come se dicesse a ciascuno di noi: sai, io mi sento a casa quando sono accanto a te. Bellissimo. “E del luogo dove io vado, conoscete la via”(Gv 14,4)… e allora, un cristiano, giocando con i doppi sensi delle parole, dovrebbe dire di  abitare in “Via Gesù n. 3” e il numero telefonico, come ha detto un ragazzino al catechismo, è 616163 (se sei Uno, sei Uno sei Tre).

Via-verità-vita.
Via: in una società stracolma di opinionisti e piccoli leader che litigano tra loro, Gesù indica se stesso come percorso. E’ una via, non un parcheggio. Cioè, dobbiamo camminare dietro a Lui, mettere i nostri piedi nelle sue impronte. Gesù è la nostra mappa esistenziale. E il bello di Gesù-via è che se ci capita di sbagliare strada, riaffidandoci alle indicazioni del Vangelo, come un navigatore satellitare, si può ritrovare quella giusta.
Verità: la verità, nella società, spesso ha molte facce, ma tutte truccate. A Pilato che, cinicamente, durante l’interrogatorio farsa gli aveva chiesto cosa fosse la Verità, Gesù non ha risposto. La domanda era sbagliata: non cosa è la verità, ma chi è la Verità. La verità non è una definizione ma una Persona. E’ Gesù stesso. E a parte appunto Lui e il magistero infallibile della Chiesa, la verità non ha titolari ma solo destinatari.
Vita: la vita non è solo quella biologica, non è solo un susseguirsi ritmato di pulsazioni cardiache, ma è soffio di Dio, entusiasmo del cuore, gioia di donazione, fecondità spirituale, pienezza di amore. Ecco perché solo Gesù è la vita, e quando ci capita di deragliare in certi pericolosi fuoripista facciamo ogni sforzo per rientrare nel suo giro. Altrimenti si vive male, molto male.

E tu, D. Jos, questo lo hai capito molto bene. Con la tua scelta di vita monastica, per 25 anni hai raccordato intorno a Gesù tutta la tua vita trascorsa qui a Monte Oliveto. Hai scoperto che l’anima della vita monastica è l’amore per Gesù. S. Benedetto, nella Regola, continua a ripeterlo. Vieni da una nazione, l’Olanda, che è stata evangelizzata dai benedettini; è stata segnata da santi benedettini, come S. Willibrord e S. Alberto di Egmond. Guarda a loro. Sei un monaco: sii silenzioso testimone del Risorto, evangelizzatore con il tuo impegno dell’Opus Dei e con il buon esempio, in ascolto della Parola e attivo nella comunione fraterna. Non arrenderti alle inevitabili difficoltà di ogni tipo: esse sono il pane nero di quasi tutti gli uomini e noi non possiamo pretendere alleggerimenti doganali per certi bagagli pesanti della nostra vita personale.


Vogliamo quindi adesso esortarti fraternamente a continuare rinnovando la tua professione monastica con l‘entusiasmo e la freschezza del Suscipe da te cantato, proprio in questo spazio, il 14 maggio 1989. Forse una data un po’ lontana ma oggi così vicina per grazia di Dio.

QUARTA DOMENICA DI PASQUA

“Domenica del buon pastore” è il titolo abituale della Quarta Domenica di Pasqua che è anche la giornata di preghiera per le vocazioni sacerdotali e religiose. Forse dovrebbe essere chiamata la domenica delle pecore…

Se l’immagine del pastore è un po’ sbiadita e anacronistica nella nostra cultura tecnologica essa però conserva il genuino fascino di un ricco retroterra biblico che dovremmo riscoprire. Il suo valore sta anche nell’essere una modalità dell’immenso spartito musicale della Pasqua là dove ricorda che il pastore è pronto a dare la vita per le sue pecore. Esattamente come ha fatto Gesù per noi, morendo in croce. Ma nel Vangelo di domani, che inaugura il cap. 10 di Gv ed è ricco di affascinanti similitudini trasmesse con parole semplici, chiare, dirette, insieme con l’immagine del pastore si intreccia quella della porta: “Io sono la porta”. Uitlizza uno degli spazi più comuni e più utilizzati nella vita quotidiana. Pensiamo anche solo a tutte quelle volte che noi, nell’arco di una giornata, passiamo attraverso una porta, aperta o chiusa che sia. La porta separa uno spazio da un altro.  In senso simbolico, tutta la vita è un aprire e chiudersi di porte.
Ma attenzione, non la porta dell’ovile, ma la porta delle pecore.
Ci sono parole semplici come una conchiglia ma dentro c’è tutto il mare se le si ascolta bene.
Gesù è la porta che porta… al Padre. Entrata di salvezza, uscita di sicurezza! Una porta sempre aperta. Alla porta-Gesù pposso bussare a qualsiasi ora del giorno e della notte, in qualsiasi stagione della vita.
Chiama per nome. Cioè da colore alla mia identità, alla mia storia. Sulla bocca del Signore c’è il mio nome proprio, la mia unicità. Mi chiama come solo una mamma può fare.
Le voci alternative a quelle di Gesù risuonano solo per uccidere e rubare,
Importa. A Dio importa ciascuno di noi. Importa, cioè letteralmente sono importante per Lui.

Sembra che voglia entrare più che in punta di piedi in punta di voce. Suona sgrammaticato ma riguardo a Dio, la grammatica si può prendere certe libertà. A quel posto di pastore ci possono essere molti aspiranti, ma ognuno di essi corrisponde a quel ladro di cui parla Gesù: viene solo per rubare ed uccidere. 

TERZA DOMENICA DI PASQUA

Solo alcune sottolineature alla pagina del Vangelo di Emmaus (Lc 24,13-35), senza pretesa di commentarla in modo esaustivo perché è ricchissima di messaggi.
E’ una esclusiva di Luca, un capolavoro di catechesi liturgica e missionaria, oltre che ad essere dotata di bellezza letteraria e teologica. Un succedersi di parole, gesti, sorprese. Tutto per farci comprendere che la Risurrezione va vista con gli occhi della fede che è l’ala dataci da Dio per salire fino a Lui.
Due uomini sul tragitto di pochi km (circa 11) che separa Gerusalemme da Emmaus, la cui ubicazione certa è per ora affidata solo a delle ipotesi. C’è comunque una Emmaus spirituale che tutti ci portiamo dentro.
Due discepoli, uno di nome di Cleopa: abile strategia narrativa di Luca per ancorare alla storia concreta la vicenda che sta narrando e l’altro, invece, senza nome, forse perché ciascuno di noi possa identificarsi in lui e fare la medesima esperienza …
Sono due camminatori ex entusiasti, sconsolati per la vicenda di Gesù finita nel sangue, con tanta tristezza addosso, con il sapore amaro di una sconfitta e del “tutto finito” perché la morte di Gesù era suonata come una campana a morto sulle loro speranze. Il loro cammino è corredato di reciproca lamentazione e di progressivo affossamento. Mal comune difficilmente fa mezzo gaudio. Spesso, fa solo doppia tristezza. Questi due specialisti dello sconforto, Luca li tratteggia con una espressiva pennellata: “il volto triste” (Lc 24,17). Non è un tocco da romanzo. E’ una fotografia. La fotografia nitida anche di noi quando facciamo naufragio nelle nostre delusioni e frustrazioni.
Incontro, domanda e racconto. La Parola e il Pane si fanno strada.
Mentre si stanno sfogando a vicenda, si affianca a loro uno sconosciuto. E’ il Risorto ma non lo riconoscono. Il Signore abita nei nostri passi. Li rallenta al loro ritmo. Non perde mai le nostre tracce. Avvicinarci nell’ora della nostra tristezza è una regola di Dio. A volte facciamo difficoltà a sentirlo presente ma lo possiamo intercettare solo con la fede.  
Di che cosa stavate discutendo lungo la via?” (Lc 24,17). Gesù li ascolta con paziente attesa. Ed essi narrano i momenti tragici della Passione. Penso che non sia mai successo a nessuno di raccontare all’interessato … la sua morte e fargli il resoconto puntiglioso dei suoi funerali! E pronunciano la frase più triste di tutto il Vangelo: “Noi speravamo …” (Lc 24,21)
A volte anche noi coniughiamo esistenzialmente i verbi solo all’imperfetto o al passato e così disseminiamo la nostra strada di pietre tombali e di definitivi “ormai”…
Gesù li rende coscienti che hanno “bucato” il fatto più clamoroso, quello cha cambia tutto: la sua risurrezione! Hanno definito “forestiero”(Lc 24,18) il loro compagno di viaggio, ma in realtà sono proprio loro i “forestieri”, cioè i più lontani dal senso vero della venuta di Gesù, da loro interpretata in termini di potere e di successo. Gesù “parte in quarta” e li inchioda con un rimprovero che ha lo schiocco di una frustata: “stolti e lenti di cuore”. “E cominciando da Mosè …” (Lc 24,27): Gesù improvvisa solo per loro due un minicorso biblico, meglio offre loro una lectio divina lampo! Gesù esegeta, facendo memoria delle mirabilia Dei attualizzandole, li sblocca dal venerdi santo e dal sepolcro vuoto dove si erano fermati, per riorientare la loro lettura degli avvenimenti verso la risurrezione. Ma anche la spiegazione della Scrittura fatta da un catechista d’eccezione come Gesù non è sufficiente ad aprire i loro occhi. E allora termina la liturgia della Parola e si passa a quella eucaristica: “spezzò il pane e lo diede loro”. Un segno che non lascia dubbi. Un tuffo al cuore, lo riconoscono.
La liturgia della strada sfocia in una liturgia della speranza. Erano partiti dalla stazione della tristezza e sono arrivati alla stazione della gioia.

Resta con noi Signore, perché ormai si fa sera”(Lc 24,29). Ripetiamo spesso questa preghiera dei due discepoli di Emmaus.  “Si fa sera …”  E’ sempre “sera”, anzi notte buia, senza di Lui.

SECONDA DOMENICA DI PASQUA

Domani sarà proclamata una pagina di Vangelo (Gv 20, 19-31) che ritorna puntuale ogni seconda domenica di Pasqua e che proprio per questo c’è il rischio che la si ascolti con la mente in stand-by, senza lasciarsi coinvolgere più di tanto. E’ invece una pagina che spalanca il nostro cuore alla gioia di credere, nonostante scottature e cicatrici di ogni tipo.
I discepoli stanno nascosti e blindati nel cenacolo, tappati e tarpati dalla paura (paura dei Giudei ma anche di se stessi, di come avevano abbandonato, tradito, rinnegato), avvolti nella loro incredulità, aggomitolati in una coperta di delusione e di tristezza. Ma le porte sprangate non fermano il Risorto. Il suo amore è più forte delle nostre paure a nastro. Non importa quante colpe, quante cadute, quanti tradimenti abbiamo incolonnato nella nostra vita e forse prosciugato la nostra autostima, Lui c’è! E porta il dono della pace: “Pace a voi!”. Non è un augurio, una promessa, ma una affermazione. Scende su ciascuno di noi stasera come una benedizione che ci da energia vitale e ci spinge ad andare dall’altra parte della paura dove c’è ciò di cui abbiamo paura.
Ma in quella stanza nel mercato di Gerusalemme manca un nome all’appello. E’ quello di Tommaso. Egli non c’era quella sera e, dopo otto giorni, di ritorno al fortino dei discepoli riceve la notizia della visita compiuta da Gesù: “Abbiamo visto il Signore !”(Gv 20,24). Tommaso rimane gelido di fronte alla testimonianza dei suoi compagni. Non si lascia contagiare dall’euforia collettiva degli altri che raccontano una speranza difficile da credere. Si fa ostinatamente esigente nel controllo: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo” (Gv 20,25). La Resurrezione non è una speranza, è una certezza. Sperare è un verbo inquieto che si porta dentro domande. Essere certi invece è fiducia incrollabile, è serenità granitica.
Viene definito “l’incredulo”. Il suo nome è diventato proverbio. Ma in realtà, porta le conseguenze di una fede ferita. Ha ancora stampata negli occhi la drammatica visione del Calvario e di Gesù in croce, barbaramente ucciso. Tommaso stenta a credere. Davvero ci assomiglia e forse non a caso è chiamato Didimo che significa “gemello”. E’ uno come noi che a volte restiamo fermi in un percorso fatto di dubbi e di lentezze. Gesù ritesse la tela e attende Tommaso dopo il suo sbandamento. Per il suo ripasso in esclusiva allo scolaro più difficile adotta la lezione più facile, usando pochi verbi, semplici ma concreti: “guarda-metti-tocca”. Lo invita a toccare le sue ferite, incancellabili come il suo amore, che sono come pozzi di luce: quelle delle mani, quelle dei piedi e quella più marcata sul suo costato, trafitto da una lancia romana. I segni inequivocabili del suo amore. Ma Tommaso non tocca (ormai sarebbe superfluo), rinuncia ad ogni verifica, si arrende e dice la cosa più grande con le parole più semplici: “Mio Signore, mio Dio” (Gv 20,28). Una professione di fede, profonda e limpida che lo inchioda in ginocchio cadendo dal piedistallo della sua incredulità. Sono attimi intensi per Tommaso, la verità gli scoppia dentro:“Mio Signore, mio Dio”. Poche sillabe, ma condensano tutto l’alfabeto dell’amore di Tommaso per Gesù. Dovremmo fare nostre quelle sue parole. Ripeterle spesso, come una giaculatoria.

Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto” (Gv 20,29). A noi cristiani dei secoli futuri, Gesù lancia questa lode che equivale ad un biglietto-omaggio per il Paradiso. Una beatitudine, l’ultima del Vangelo e non pronunciata sul Monte insieme alle altre. Essa è indirizzata a noi che in quel momento non c’eravamo. “Beati…”: una beatitudine che deve avere i nostri nomi. 

venerdì 25 aprile 2014

25 aprile 2014

Notte amara, quella dei sette discepoli. Un brutta notte dentro di loro e sul mare, e in ogni riflesso d’onda hanno visto naufragare un volto, una vita. Loro sette, su quella barchetta che ciondolava lenta verso la riva dopo una notte di pesca senza risultati.
E poi c’è quel loro “no”, corale ed immediato, indirizzato a Gesù che chiede qualcosa da mangiare. E’ il “no” più pesante del Vangelo. Come a dire: ” lontano da te non abbiamo niente”. Alla nostra povertà interiore che chiama, risponde sempre la compassione di Dio.  E con abbondanza. La rete, dietro indicazione di Gesù, viene gettata dalla parte destra: come dal tempio scorre l’acqua che risana, come dal costato esce sangue e acqua.  Pesci, tanti pesci, troppi pesci! Dio non si lascia vincere da nessuno in generosità. Il numero simbolico di 153 pesci sta proprio ad indicare la sazietà, oltre che immagine della Chiesa che accoglie tutti i popoli.
Il Signore ci incoraggia a ricominciare quando il mare della vita sembra svuotato di speranza. Alla fine della nostra notte più fallimentare, se capitasse, il Signore ci sprona a ripartire nuovamente. E’ bello e confortante quell’inciso: “…stetit Iesus in littore”-“Gesù stette sulla riva” (Gv 21,4). Gesù è sempre sulla riva a cui si approda magari da naufragi di tempeste esistenziali, di storie andate a male. In comunione con altri perché, come ricorda un proverbio, se da soli si va più veloci, insieme con altri si va più lontano.
Ma per gettare la rete occorre essere “in rete” con Gesù, cioè vivere in sintonia e cooperativa con Lui, altrimenti la rete della nostra vita la buttiamo sempre dalla parte sbagliata. Non riconoscono subito Gesù come tale. Forse hanno un po’ ragione  per la loro diffidenza iniziale. Non si accettano sogni dagli sconosciuti. Ma Gesù vuole solo consegnarci il senso vero della vita.
Giovanni, con occhio limpido e cuore intuitivo, è come una vedetta, riconosce subito Gesù: “E’ il Signore!” (Gv 21,7). E’ davvero importante avere questa capacità di vedere nella vita il Signore; riuscire andare oltre i fatti, oltre certe nebbie…
Per incontrare il Signore sono necessari pazienti “avvistamenti” fatti di lettura e ascolto della sua Parola, di preghiera e di adorazione, soprattutto di amore che ci pulisce la vista.
Pietro, come sempre impulsivo, si butta a nuoto per andargli incontro. Stavolta è lui che precede Giovanni: non è come la sera di Pasqua dove Giovanni l’aveva battuto nella corsa al sepolcro. Il suo nuotare nel mare è simbolo del nostro andare verso Gesù. Gesù lo si raggiunge così: con energia, con sforzo costante, ma soprattutto con il desiderio del cuore.

domenica 20 aprile 2014

SANTA PASQUA

L’immagine è lì chiara, nitida. Nessuno può resettarla. Un sepolcro vuoto. Non desolatamente vuoto ma felicemente vuoto! Dentro non ci sono le spoglie del morto ma le spoglie della morte. La disgrazia è toccata ad essa non a Gesù. Tutta la nostra fede poggia su quella tomba vuota. Sono cambiate le regole del gioco: adesso si nasce per vivere e si muore per nascere per sempre! La nostra vita sulla terra non è più un pellegrinaggio verso la morte ma un pellegrinaggio verso la vita. Cristo condivide e partecipa la sua vittoria sulla morte con ciascuno di noi. La Risurrezione di Gesù ci garantisce da ogni collasso di speranza. Certo il male continua a scrivere parole terribili nel grande libro della storia ma la Risurrezione, anche se siamo nel dolore, ci mette al riparo dalla disperazione.
E’ un vangelo di corse. Sembra quasi sentirvi ancora l’ansimare affannato e trafelato dei vari personaggi. Alla tomba ormai vuota giunge per primo Giovanni, il discepolo dell’amore: l’amore fa sempre correre più veloci. Ma anche il passo più lento di Pietro porta alla tomba: non è mai troppo tardi per credere nel Risorto. Tomba non solo vuota ma anche spalancata. Vanno rimosse certe pietre che chiudono il sepolcro. Sbagli commessi, storie del passato, fragilità assortite. L’energia della Pasqua ci da la forza necessaria per far srotolare tutti questi macigni piccoli o grandi. Ci fa sbocciare tutte le primavere di cui abbiamo bisogno.
Molti sono gli argomenti storici, oggettivi, ma la prova più grande che Cristo è risorto, è che è vivo! Vivo, non perché noi lo teniamo in vita parlandone, ma perché Lui tiene in vita noi, comunicandoci in mille modi la sua presenza. “Tocca Cristo chi crede in Cristo”, diceva S: Agostino e noi possiamo fare esperienza della verità di questa affermazione.
Non è qui, è risorto” (Mt 28,6). Per raccontare la Risurrezione di Gesù, Matteo (concorde con Luca e Marco) usa gli stessi due verbi che noi coniughiamo la mattina: svegliarsi ed alzarsi. Come se i nostri giorni fossero impegnati ad una risurrezione quotidiana da certi padrini e padroni della nostra vita: la tristezza, l’egoismo, l’indifferenza, il pessimismo, le rassegnazioni. Oggi siamo chiamati a convertirci alla gioia, una conversione difficile per tanti motivi ma così necessaria. Per qualcuno una gioia specifica: quella di non ritrovare più il suo passato!

Buona Pasqua a tutti!

domenica 13 aprile 2014

DOMENICA DELLE PALME (Vigilia a Compieta)

La Domenica delle Palme è la porta che ci apre la Settimana Santa, gioiello dell’anno liturgico, la Grande Settimana che fa eco ai sette giorni della creazione. Il tempo dell’uomo è sconvolto, nasce l’ottavo giorno: quello del Risorto che noi, come ci suggerisce S. Benedetto, vogliamo attendere “cum spiritalis desiderii gaudium” (RB 49,7).
Una settimana che è “la” settimana, cioè il centro e l’apice della nostra vita spirituale; è una miniera dalla quali non si finisce mai di estrarre i tesori spirituali nascosti nelle sue varie celebrazioni liturgiche, negli insegnamenti che affioreranno a cascata soprattutto in quel vertice e vortice che è il Sacro Triduo, quando Gesù lascia da parte i dibattiti della mente e da spazio ai battiti del cuore. Del suo amore per noi. Sono i giorni del nostro destino.
Settimana chiamata “santa” per gli eventi che propone e rivive, eventi decisivi per la storia di Dio con gli uomini. Avremo a disposizione emozioni forti e incalzanti, abbondanza di testi e di gesti. Il tornare, ogni anno, a considerare la morte e risurrezione di Gesù è tornare sempre alle nostre radici; non è e non può essere una fiction, ma è scovare e scavare ragioni di fede. Questi giorni sono per noi una scuola di vita, che non omette la lezione fondamentale sul mistero della sofferenza e della morte.
Nella Settimana Santa è come se facessimo una specie di corso-base di cristianesimo, che poi riprenderemo giorno per giorno fino a quando arriverà la nostra ora nona, e potremo anche noi ascoltare la voce di Gesù: “Oggi sarai con me in Paradiso” (Lc 22,43). Da allora, ogni morte, non sarà che una porta spalancata sul “paradiso”.
Domani ascolteremo il racconto, lungo, straziante e dettagliato, della Passione di Gesù secondo la redazione di Matteo. Un racconto non per la nostra istruzione ma per la nostra conversione. Un racconto tutto costellato di citazioni tratte dall’AT proprio per indicare Gesù quale perfetto compimento delle promesse di Dio. Gioia e dolore, esultanza e condanna. Osanna e crocifiggilo. Una narrazione dai toni crudi. Ma nelle sue pieghe già filtra la luce della risurrezione. La Passione secondo Matteo è pervasa da un impressionante senso di abbandono e di solitudine. Domani non ascolteremo un semplice reportage anche se avvincente, non un thriller, ma un annuncio carico di fede. Il racconto del dolore di Dio. Saremo intercettati da un alternanza di baci e di sputi, di sguardi d’amore e di tradimento, di mani che spezzano il pane e di altre che contano monete, di occhi che piangono e di altri che organizzano i riti della crocifissione. Siamo tutti protagonisti, all’ingrosso o al dettaglio, della Passione di Gesù: ognuno di noi ha impersonato, di volta in volta, Giuda, Pietro, i discepoli che sono scappati. Oppure i capi dei Giudei, la folla, Pilato.
Siamo davanti a un Dio piagato e che va consolato con i nostri gesti di amore. La Passione-Morte di Gesù non è un ricordo una tantum. Ogni nostra celebrazione eucaristica riattualizza e rivive  quegli avvenimenti.  Ma la Passione accade anche in dimensione esistenziale per noi, perché talvolta la vita ci riserva un calvario, piccolo o grande.
La liturgia di domani, prevede che in certi casi si possa adottare la forma breve. Viene da pensare che invece, come documenta l’esperienza, la passione, ogni passione - fisica o spirituale - è sempre in forma lunga. A volte dura tutta la vita. La Passione di Cristo, infatti, non si è ancora conclusa. Continua e si prolunga in tante persone e in tanti luoghi, come certi reparti degli ospedali. Investe il presente di molte persone. Non ci può dunque essere, in un certo senso, la forma breve della Passione perché essa assume un’ampiezza spropositata e variegata. Nessuno arriva in Paradiso con gli occhi asciutti. Nemmeno Gesù.

In questi giorni ci accompagni l’immagine delle braccia di Gesù in croce, cattedra dalla quale ci insegna l’arte di amare. Braccia inchiodate e distese in un abbraccio continuo e indicibile per ognuno di noi. Quelle braccia spalancate sono le porte sempre aperte del Paradiso.

domenica 23 marzo 2014

TERZA DOMENICA DI QUARESIMA (A)

Pericoloso incontrarsi con Gesù.
Ce lo testimonia la samaritana anonima, una donna “fuori orario”, perché va al pozzo nell’ora più calda - mezzogiorno - per evitare sguardi e commenti maliziosi o silenzi di condanna per la sua torbida esistenza. Ha bruciato diversi compagni di vita: è arrivata al sesto marito!
Quello sconosciuto che trova al pozzo, Gesù, attiva un dialogo che è un capolavoro di pedagogia: prima la richiesta poi la proposta. Come un povero tende la mano per ricevere (“dammi da bere”) ma in realtà lo fa perché la samaritana si decida a chiedergli qualcosa. Lei però intuisce che quello sconosciuto è un uomo diverso e percepisce che vuole portarla ad incontrare se stessa quando Gesù con delicatezza fa un’incursione nella sua vita sentimentale, mettendone in discussione l’intera impostazione. La samaritana tenta una manovra diversiva dirottando il discorso su argomenti non impegnativi. Anche con una certa ironia. Ma Gesù continua a sbarrarle il passo. Allora lei fa una fuga precipitosa nel passato: “Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede questo pozzo?...I nostri padri hanno adorato Dio sopra questo monte..” (Gv 4,12 e 20). Ma Gesù non si lascia bloccare. E allora lei tenta una disperata fuga in avanti: “So che deve venire il Messia…quando egli verrà…” (Gv 4, 25).  E’ la cosiddetta conversione differita e che forse ci riguarda. Sì, mi rendo conto che devo cambiare, ma non oggi. Domani. La conversione invece esige un avverbio scomodo ma necessario: “subito”.
Da parte di Gesù non un dito puntato ma una mano aperta. Non cerca indizi di colpa, cerca indizi di amore. Non la obbliga a guardarsi in uno specchio accusatore ma le mette davanti l’icona di ciò che potrebbe essere. Il Vangelo sembra rispettare la privacy di quell’incontro e registra e trasmette solo poche parole, ma così illuminanti per tutti noi. A quel pozzo, crocevia di incontri, di notizie e, a quel tempo, anche di patti e di alleanze, c’è un abbraccio di sguardi. Per quella donna ormai la parola peccato deve far rima solo con “passato”... Dio non si stanca di noi ma si stanca per noi. “Quarens me sedisti lassus”, cantiamo nel Dies irae. Ci cerca e ci legge “dentro”.
Qualche anno fa il Vangelo di oggi avrebbe potuto rivendicare i suoi diritti di autore di fronte ad uno slogan pubblicitario di una nota bevanda: la sete è tutto, ascolta la tua sete.
Signore, dammi di quest’acqua, perché io non abbia più sete…” (Gv 12,13). A volte ci sono delle parole che vanno al di là del loro suono, raccontano molto più di quello che dicono. Parole come carezze. Parole come schiaffi.
Gesù non va contro la nostra natura ma incontro alla nostra natura che ha sete di quella pienezza che è Lui stesso: incorporato in noi, diventa sorgente che irriga ogni zona e zolla della nostra vita personale. Così si evita una vita affettiva frammentata e illusoria che sforna solo rapporti non autentici. A volte noi, con certe relazioni interpersonali, beviamo solo acqua stagnante se non avvelenata. Quella samaritana è ciascuno di noi. Forse come lei ciascuno di noi è fragile, con diverse cicatrici sul cuore e con una sete di amore che nessun abbraccio umano ha colmato e colma.
Non lasciamoci logorare da quella sete. Se lo vogliamo, siamo sempre a poca distanza da una sorgente di acqua limpida e tonificante. Dove si trova? Qual’é il suo indirizzo? E’ qualunque tabernacolo con la Presenza viva-reale-corporale di Gesù. E’ nell’orizzonte eucaristico che dobbiamo collocare il nostro vissuto emotivo perché sia sanato. E’ davanti al tabernacolo che dobbiamo narrarci. Una lectio humana davanti all’Eucarestia. Il nostro cuore è troppo grande per essere abitato solo da un’altra creatura. Una persona può occupare il nostro cuore ma solo Dio lo può riempire. Mai toccare un cuore se non sai amarlo: Dio, sì, è l’unico che può amarlo in pienezza.

La Samaritana è andata al pozzo  per attingere acqua ma ha trovato un altro pozzo - Gesù - con altra acqua per la sua vera sete. E’ andata con una brocca e se ne ritorna con una sorgente. Una sorgente di ragioni forti per vivere. Una sorgente di cielo.

mercoledì 5 marzo 2014

MERCOLEDI DELLE CENERI

Rieccoci. Ogni anno, puntuale, per il cristiano arriva la Quaresima, inaugurata dal Mercoledì delle Ceneri che i Padri della Chiesa definivano come “la porta” del cammino di 40 giorni verso la Pasqua. Cenere sulla testa oggi, mercoledì, e acqua sui piedi il Giovedì Santo: tra questi due riti si incornicia la Quaresima che ha come suo imput iniziale l’accogliere le parole di Gioele: “Laceratevi il cuore…”, che abiamo ascoltato nella prima Lettura che è una specie di “invitatorio” cadenzato sulla misericordia di Dio che va di pari passo con il nostro percorso penitenziale.
La Quaresima è il tempo della verità, della verifica della propria vita. Un tempo che è, per tutti i credenti, l’occasione di riandare alle fonti della propria vita di fede e per togliere, con la preghiera e certi tipi di digiuni, il terriccio che rischia di otturare i pozzi della grazia (cfr. Gen 26,15). Certi tipi di “digiuni”. Non c’è solo quello del cibo. Ognuno di noi, tenendo presente le proprie debolezze e i suoi desideri disordinati sa quali digiuni attivare. Per alcuni potrebbe essere anche quello di digiunare dalle chiacchiere, dai pettegolezzi, dalle critiche corrosive, dalle maldicenze che Papa Francesco  ha definito come “le armi del diavolo”. E, in un discorso dello scorso 18 febbraio, ha aggiunto: “Chi parla male(in senso pesante e con cattiveria) del suo fratello, lo uccide… è un omicida”. Non sono parole esagerate, sono parole vere. Anche perché, in genere, queste persone dovrebbero essere le prime a stare zitte.
La Quaresima ci provoca ad aprire un varco nel cuore per far passare il Signore, perché lo abiti e da lì diriga tutto il nostro agire. Per permettergli di giungere nelle pieghe e nelle piaghe della nostra vita. Le pieghe sono certe zone d’ombra dovute a qualche comportamento non corretto e le piaghe sono certe ferite interiori che ci portiamo da tempo. Il Signore viene ad illuminare le une e a sanare le altre.
Appendiamo il nostro impegno quaresimale al triplice “tu invece…” di Gesù, in riferimento all’elemosina, alla preghiera e al digiuno, per maturare rispettivamente frutti di carità, di unione con Dio e di sobrietà. Un solenne “tu autem” che ci abilita “a non accogliere in vano la grazia di Dio” (2 Cor 6,1). L’elemosina non è solo fare un’offerta ai poveri ma la scelta di un percorso ricco di bontà e di condivisione dei pesi degli altri. La preghiera, quella personale, come tempo donato, letteralmente “perso” per e con il Signore, come conferma ripetuta della nostra opzione monastica: soli Deo. Il digiuno, che non si ferma al corpo ma ci raggiunge dentro per far venire a galla quella fame di senso e di luce che soltanto Dio può colmare.
La Quaresima però non è un tempo venato dalla tristezza ma un tempo da vigilia delle nozze, in cui ci si fa spiritualmente belli “dentro”. Ce lo chiede Gesù: “Ma tu profumati la testa e lavati il volto…” (Mt 5,17). Parole che hanno una eco in quelle della nostra Regola: “Con la gioia del desiderio spirituale si attenda la Santa Pasqua” (RB 49,7), un capitolo che in controluce e filigrana è intessuto di alleluia che stanno per esplodere. La sospensione liturgica del loro canto serve ad approfondire e amplificare il desiderio di poterlo fare con l’entusiasmo del cuore a Pasqua.
Non siamo che polvere, pulviscolo che abita un minuscolo pianeta chiamato terra che ruota intorno a un sole, in una galassia che ha cento miliardi di soli, in un universo che ha cento miliardi di galassie. Polvere. Sì, polvere ma polvere in cui soffia il vento dello Spirito. Polvere intensamente amata da Dio. Una polvere che resta sempre il suo capolavoro più bello. Così bello e delicato che, ogni anno, puntualmente l’Artista (Dio) la richiama nel laboratorio del deserto per fare un trattamento che mantenga o restituisca il suo splendore.

Le ceneri che ora saranno messe sulle nostre teste non sono ceneri di morte ma di vita, sono ceneri “pasquali”, perciò non vanno ricevute con un atteggiamento nichilista! Sotto le ceneri dei nostri peccati e delle nostre fragilità può e deve covare quel fuoco pasquale che si accenderà nella notte della grande Veglia, ma ciò che lo farà divampare sarà solo la sincera conversione del nostro cuore.

domenica 2 marzo 2014

OTTAVA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (A)

Essere nel cuore di qualcuno significa non essere mai soli. Tutti e ciascuno di noi, dal momento del nostro concepimento, siamo nel cuore di Dio che è il cuore di un padre che, come è stato detto, ama come una madre. E’ un po’ anche in questa direzione che ci porta il Vangelo di questa domenica, una sezione del discorso della montagna, che sembra cucito con i fotogrammi più belli offerti dalla natura e ci rivela come Gesù guardi con attenzione ad essa, ne colga il fascino facendole esprimere dei messaggi che ci riguardano. Una catechesi che è un elogio della Provvidenza divina anche se essa non viene mai esplicitamente citata. Quei dieci versetti di Matteo sono una vera lectio magistralis del rabbì di Nazareth con la quale ci invita a vivere il presente da protagonisti ma senza angosce per il futuro.
Non preoccupatevi…”. Questa esortazione di Gesù ritorna più volte, quasi come un ritornello. Le sue parole se sono un autentico antistress non sono però un invito alla pigrizia o all’apatia, non vogliono nemmeno essere un insulto a quei poveri per i quali non preoccuparsi del cibo oggi significa forse non mangiare domani.  
Gesù chiede di occuparsi del domani ma non di preoccuparsi di esso. Occuparsi è doveroso, preoccuparsi è dannoso. In una visione a S. Caterina da Siena diceva: “tu occupati di me, io mi occuperò di te”. Lasciamo a Dio il volante della nostra vita. Il domani va messo nelle mani di Dio, accogliendo con semplicità e operosa serenità l’oggi che ci è dato di vivere. Dio è sempre dietro l’angolo di ogni nostro domani. Noi non lo vediamo ma Lui vede noi! Siamo rafforzati in questa convinzione da un celebre versetto della prima lettura di domani, tratta da Isaia: “.. io non ti dimenticherò mai” (Is 49,15). Mai!: oggi, domani, sempre!
Molte persone si sciupano l’oggi perché hanno la testa solo nel domani. E’ giusto programmare e pianificare ma questo non ci deve impedire di respirare le 24 ore dell’oggi. Alcuni sono divorati dai “se”. E “se” domani mi ammalo, “se” mi succede questo, “se” mi succede quello, “se”… una particella pronominale che è un piccolo dittatore. Spesso siamo preoccupati del domani perché non riusciamo a stare nell’oggi. “A ciascun giorno basta la sua pena” (Mt 6,34) conclude Gesù. Quindi il pensiero per ciò che dobbiamo fare non deve oltrepassare la mezzanotte di ogni giorno…
Ma l’invito di Gesù a non preoccuparci troppo della nostra vita, viene dopo l’esortazione chiara e forte ad avere il coraggio di scegliere con onestà tra “due padroni”: uno è l’antagonista o un surrogato di Dio oppure lo si può identificare con la persona (o la situazione) che ci toglie la serenità e ci fa prigionieri di tante ansie. L’altro - Dio con la sua Parola - è “padrone” solo tra “” perché ci dona invece pace, freschezza, fiducia con risvolti salutari in tutti gli ambiti della nostra vita. Ci fa evitare la cosiddetta morte “a piccole dosi” (P. Neruda).

Se uno solo è il cuore, uno solo deve esserne il padrone. Certo, questa può essere una scelta che ci può costare qualche sofferenza ma però viene a plasmare positivamente la nostra vita.

domenica 9 febbraio 2014

QUINTA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (A)

Voi siete il sale della terra… voi siete la luce del mondo”. Spesso Gesù insegna con il profumo della ferialità cucito addosso. Sembra registrare nei piccoli dettagli dell’ordinario i segreti che fanno autentica la nostra vita. Nessuno fa caso al sale, ma se manca… tutti si accorgono. Quando la luce scompare abbiamo alcuni disagi. Capiamo bene il perché Gesù usi queste due metafore quando consideriamo che la loro prerogativa è il servizio. Il sale e la luce non parlano, ma sono lì dove vengono posti.
“Voi siete il sale della terra, voi siete la luce del mondo”. Gesù usa l’indicativo e non un esortativo o un imperativo… cioè: “siate, dovete essere!” “Sale e luce” infatti lo siamo dal momento del nostro Battesimo. Per pura grazia di Dio nella cella segreta del nostro cuore c’è una lucerna accesa e una manciata di sale. Questa investitura da parte di Gesù ci onora. E’ un dono che ha incorporata una responsabilità. Ma evitando quello zelo amaro cui accenna la nostra Regola (RB 72, 1): “zelus amaritudinis malum”, cioè la tentazione di un certo compiacimento se siamo dei campioni di virtù.
La nostra vita cristiana deve essere determinata da una scaletta di valori evangelici (e monastici, per noi monaci) che ci impegna realizzare quelle che Gesù definisce come “opere buone” (anzi, letteralmente: “belle”), delle quali la Prima Lettura (Is 58, 7-10) ci offre un elenco piut6tosto consistente. E’ un impegno di coscienza che ci aiuta a non preoccuparci di eventuali giudizi altrui. Un grande scrittore ha detto: “Preoccupati più della tua coscienza che della tua reputazione. Perché la tua coscienza è quello che sei, la tua reputazione è quello che gli altri pensano di te. E quello che gli altri pensano di te è problema loro”. Dare alla propria vita il gusto di una storia con Dio. Dare alla propria vita la luminosità di una storia con Dio. Il sale diventa inutile e perciò buttato via non perché perde il suo sapore, ma perché non viene utilizzato per dare sapore ad altro. Così pure per l’immagine simmetrica della luce: una lampada non perde la sua luce se la
si mette sotto un moggio, ma perché così risplende solo per se stessa e perciò è inutile.

Se il sale deve scomparire nel cibo per realizzare la sua funzione, la luce al contrario si deve vedere perché fa emergere le cose. Nascondimento e visibilità, sono il doppio binario del cristiano. Ognuno di noi, come sale deve portare vita, fecondità, il gusto della Parola di Dio là dove vive; come luce, la cui sola sorgente è Gesù stesso, deve “accarezzare” la vita degli altri per rivelarne la bellezza spirituale nascosta. 

domenica 2 febbraio 2014

2 Febbraio: PRESENTAZIONE DEL SIGNORE

                                          
A volte non basta tutta la vita per dimenticare un certo momento e, a volte,  basta un certo momento per dimenticare tutto il resto della vita. E’quanto è successo a Simeone e Anna, che incontrano il bambino Gesù portato dalla sua giovanissima mamma. Oggi sarebbe un cliccatissimo video su youtube. Tra un respiro e un’emozione comincia a vivere in loro due qualcosa di stupendo che nessuno potrà mai cancellare.
Simeone e Anna, questi due habitués del Tempio, nonostante l’età, hanno conservato la giovinezza, spostandola semplicemente dal viso al cuore. Non sono rimasti arrotolati sul passato. Più che accumulare anni, hanno accumulato fiducia che è parente stretta della speranza. Ci insegnano a praticare il culto della speranza, che non significa aggrapparsi alle nuvole ma credere che non ci si deve fermare al fotogramma del momento e ad avere gli occhi ostinatamente puntati sul futuro. Hanno impastato sabbia (la vita di ogni giorno) e sogni (il desiderio ostinato di vedere il Messia). Come girasoli al sole, hanno pazientato per un lunghissimo inverno sicuri che la primavera sarebbe venuta ad incontrarli. Ed ecco che hanno tra le loro braccia scheletrite l’eterna giovinezza di Dio. Ecco qui il cammino della vita, di ogni vita. Soprattutto di quella consacrata, umilmente e gioiosamente testimoniata, di cui oggi ricorre la Giornata. Essa ha un fascino avvincente perché nasce dal codice del dono di sé. E’ un percorso d’amore: dalla gratitudine alla gratuità.
Ci sono persone che si credono speciali, altre invece silenziosamente lo sono. Come Simeone e Anna.
Non si sono lasciati piallare dalla vita di ogni giorno.  Qui c’è un’indicazione anche per noi: il solito tran-tran quotidiano, il solito orario, il solito giro di persone, il solito menù esistenziale … il solito: ma deve essere per forza proprio cosi? Dipende tutto da noi: se Dio abita nel cuore, siamo abilitati ad andare oltre le apparenze; nel cosiddetto “solito” possiamo arrivare a scorgere l’insolito, il nuovo, la sfumatura inedita. Le cose non sempre sono come sono, ma spesso sono come noi siamo. Se cambiamo il modo in cui guardiamo le cose, le cose che guardiamo cambiano.
Il Signore ci viene incontro ogni giorno.  A questo appuntamento quotidiano si presenta come un bambino, per entrare meglio nella nostra vita, perché non abbiamo esitazioni e paure nel prenderlo nelle nostre braccia. L’abbraccio, che non è a taglia unica, ci fa consegnare il cuore a chi lo riceve, facendo però attenzione a che non diventi un ostaggio per condizionarci. Il primo segno di un amore vero è la libertà che ci lascia. Così fa anche Dio con noi.
Abbracciare il Signore vuol dire consegnargli la nostra vita, anche se ciò ci costringe a mischiarne le carte,  per darle una svolta positiva.








martedì 21 gennaio 2014

MEMORIA DI S. AGNESE


Celebriamo oggi il compleanno canonico della nostra Congregazione. Infatti, ogni volta, la memoria liturgica di S. Agnese ci porta in dono il lieto anniversario della sua approvazione pontificia avvenuta il 21 gennaio 1344.  Ma le due Lettere Apostoliche che Clemente VI firmava ad Avignone 670 anni fa, erano solo l’approdo finale di un cammino iniziato nel 1313 dai nostri Fondatori.
Un colpo d’ala per capirne le dinamiche - tutte di pura marca evangelica - ce lo offre il brano di Matteo con la coppia di stringatissime parabole - un messaggio a due voci – che con la semplicità tipicamente orientale delle immagini, ci regalano due nomi sorprendenti di Dio: tesoro e perla.
S. Bernardo e i suoi compagni, dopo che si sono imbattuti in Gesù, hanno voltato decisamente le spalle al loro mondo abituale. E’ stata la scoperta sensazionale che ha determinato una svolta radicale nella loro vita. E su questa scoperta sono stati capaci di giocarsi tutto: benessere, carriere, onori. Il contadino e il mercante hanno la stessa reazione di rottura: vendono tutto. Il distacco nasce dall’aver trovato. Il vero discepolo non dice: “Ho lasciato”, ma: Ho trovato”. Quando un “perché” è forte, il “come” si trova sempre. Così anche i nostri Fondatori: trovato il Tutto, con la “T” maiuscola, hanno lasciato il “tutto”, con la “t” minuscola. Trovare Cristo, lasciare ogni cosa a Siena e altrove, e seguirlo è stato il miglior affare della loro vita. Un gioco in borsa ad altissimo rendimento!
Trovano, vanno, vendono, comprano: sono verbi di movimento, sono i verbi della sequela Christi. Sono verbi nati dall’aver sperimentato la gioia. La gioia che fa decidere. La gioia che accompagna sempre quel cuore di chi, come noi, per attrazione felicemente fatale, vuole sintonizzare e raccordare la sua vita su Gesù e la sua Parola.
Ricordiamo quel passo vertiginoso del Prologo della Regola: “Il Signore va cercando un suo discepolo tra la gente e dice: C’è qualcuno che desidera la vita e desidera trascorrere giorni felici? (cfr Sal 33,13). Se tu, all’udire queste parole rispondi: Io, io lo voglio! Allora - dice il Signore - prima che tu mi invochi, io dirò: “Eccomi” (RB, Prol. 14-16). E, con Dio che ci abita dentro, c’è sempre la vera felicità. S. Giovanni Bosco una volta ha scritto questo messaggio ad un giovane: “Il successo è avere ciò che vuoi; la felicità, invece, è amare ciò che hai, ciò che sei e dove sei”.
Noi siamo impastati di cielo. Fin dal primo istante del nostro concepimento il Signore ha messo la sua firma sulla nostra carne, inserendo nel nostro personale codice genetico, in simultanea con la vocazione monastica, il desiderio della gioia. Ed è per questo che, stringi stringi, alla chiamata di Dio, abbiamo risposto “io!”.

domenica 19 gennaio 2014

II DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (A)

  
Il Vangelo proclamato nella seconda domenica del Tempo Ordinario, Gv 1, 29-34, completa o ripresenta in modo diverso dai sinottici, l’episodio del Battesimo di Gesù, secondo l’evangelista teologo e mistico. Ma anche qui c’è ancora in primo piano il rude Battista che manifesta l’identità del Messia atteso.
Ecco l’Agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo”. Con questa bella professione di fede del Precursore, che noi alla Messa rilanciamo al cielo per tre volte, il cugino di Gesù rivela di avere antenne speciali. Mosso dallo Spirito, riconosce Gesù sulla strada. Anzi, è Gesù che gli va incontro. Lui vuole sempre incrociarci. La sua è un’instancabile quotidiana processione verso di noi. Quante volte nelle pieghe chiaro-scure della giornata Gesù ci viene incontro, attraverso persone e fatti, e noi invece giriamo la testa dall’altra parte! O perlomeno, siamo degli inguaribili distratti!
Quando il Battista, che però nel Vangelo di Giovanni è visto più come il “testimone”, perché ha visto lo Spirito discendere e rimanere su Gesù, presenta la figura del Messia è come un torrente in piena. Nel Vangelo, lo sappiamo, c’è una pioggia di titoli riversati sulla persona di Gesù. Ma su tutti campeggia la raffigurazione dell’ ”agnello di Dio”(Gv 1,29), che sintetizza tutto l’Antico Testamento. Gli esegeti un po’ litigano tra i tanti riferimenti biblici racchiusi in questo titolo cristologico che accompagna l’altro: “Figlio di Dio” (Gv 1,34). Ma, a tutti, in proposito, viene spontaneo sfogliare il Vangelo fino alle ultime pagine: venerdì santo, l’agnello  espiatorio degli ebrei, legato all’esperienza liberatrice dell’esodo… Non dimentichiamo che la crocifissione ebbe luogo in coincidenza con la Pasqua ebraica e addirittura con l’ora stessa in cui nel tempio, diventato un mattatoio, venivano immolati gli agnelli. Dio sacrifica se stesso per noi. E dal suo fianco aperto dalla lancia non esce vendetta, ma sangue e acqua: sangue d’amore, acqua di vita. L’Agnello di Dio è vittima del suo stesso amore per noi. Non è solo un Dio-che-dona ma un Dio-che-si-dona. In aramaico, poi, la stessa parola che designa l’agnello disegna anche la parola “servo” e qui ci sarebbe un grappolo di forti suggestioni spirituali da gustare.
Una sottolineatura particolare merita la seconda parte della solenne affermazione del Battista: “… che toglie il peccato del mondo”.  Dice: “il peccato” e non “i peccati”… perché? Perché nel mirino di Gesù non ci sono solo i peccati degli uomini - cioè le singole e tutte le mancanze - ma il peccato in quanto tale, cioè quella radice di male che ognuno di noi si porta dentro. Gesù non viene a fare dei rattoppi di emergenza al nostro cuore ma a rinnovarlo totalmente.

domenica 12 gennaio 2014

BATTESIMO DEL SIGNORE

Gesù ha trenta anni. Corre veloce la liturgia, poco rispettosa delle anagrafi dell’uomo. Gesù si mette in fila con i peccatori, senza corsia preferenziale,  per farsi battezzare, pur non avendone evidentemente bisogno, dal cugino asceta, il Battista. E’ la sua prima mossa. La sua scelta programmatica. Il fiume Giordano è il suo primo pulpito. Con un Dio così defilato, la verità indossa il vestito dell’umiltà. Uno stile sconcertante ! Dio è sempre sui passi dell’uomo. Nella scena teofanica, Dio Padre certifica l’ identità del Figlio: “Tu sei mio figlio… l’amato… mio compiacimento”. Queste parole di Dio sono dirette a Gesù, ma sono indirizzate anche a noi al momento del nostro battesimo. Voce dal cielo per i figli sulla terra. Dio mi dice: “Figlio…”. Questa prima parola non è solo un vertice di emozioni  ma è anche uno dei cuori pulsanti del Vangelo. “Amato…”. La seconda stupenda parola che Dio pronuncia su di noi. Dio mi ama sempre con la stessa intensità anche quando mi allontano da Lui, sbaglio. Posso andare fuori strada ma non vado fuori dal suo amore.. “Mio compiacimento…”. Una parola inusuale ma ricca di significato. C’è dentro un Dio che trova gioia a stare con me. Solo un amore senza “perché” spiega queste tre parole. Infatti, avere un motivo per amare, non è vero amore e, prima o poi, viene meno.
Il salto dall’Epifania al Battesimo, ignorando perciò i trent’anni di Nazareth, è solo teorico: oggi Cristo nasce in noi attraverso il segno del Battesimo, segno che va riconosciuto, come hanno fatto i Magi. Riappropriamoci di quel dono immenso che un giorno abbiamo ricevuto. Riprendiamolo in mano. Facciamolo risplendere con la coerenza. Oltre a battezzare i convertiti forse ci sarebbe da convertire i battezzati, affinché siano testimoni credibili.
Ecco perché sarebbe molto bello se, oltre a segnare il giorno del nostro battesimo, esso fosse da noi ricordato con festa. Oltre al compleanno ci dovrebbe essere, ancor più importante, quello che potremmo chiamare il compli-battesimo! Ricordare cioè quel giorno in cui a pieno titolo siamo stati immatricolati nella Chiesa, la Chiesa dei Santi, nel nome della Trinità.  In quel momento siamo diventati figli di Dio che ci ha dato tutto: nome, cognome, amore. Non è stata un’adozione a distanza. Da quel momento, Dio oltre a toglierci il peccato originale, è diventato il soffio nella vela della nostra vita.

lunedì 6 gennaio 2014

EPIFANIA DEL SIGNORE


L’Epifania è la festa di un dono e il dono di una festa.  E’ la festa di una stella che disegna una strada in cielo, di una stella che si fa viaggio. Di una stella che vuole indicare dove è il sole cioè quel Bambino che è venuto per tutti.  Per Lui e il suo Vangelo non ci sono confini ed esclusi. Gesù è “Dio-con-noi”, un “noi” che include tutti.
In quel mosaico di allusioni e riferimenti biblici che è la sobria pagina di Matteo, venata di contrasti che interpellano la nostra riflessione, si parla di una casa, umile casa, ma anche di una reggia arrogante; si parla di un bambino ma anche di un re-fantoccio dei romani, centrifugato dal potere, che vuole ucciderlo; si parla di un piccolo villaggio, Betlemme, ma anche di una grande città, Gerusalemme, chiusa nel suo orgoglio; si parla di gioia, anzi di “grandissima gioia”(Mt 2,10) ma anche di sospetti e di paure.
E ci sono loro, i Magi, profumati di Oriente e di sapienza, introdotti dall’evangelista con un effetto sorpresa. Il loro arrivo turba Gerusalemme che dopo una breve escalation di scompiglio, ristagna nel disinteresse e nell’indifferenza. Sono stranieri e pagani. Hanno un sogno nel loro cuore pulito e arioso. Hanno soprattutto una domanda, una sola, intorno alla quale tutto ruota: “Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei?” (Mt 2,2). Dio è un desiderio non un dovere. I Magi sono l’immagine di coloro che cercano Dio che non è avaro di segni e segnali per chi lo cerca. Occorre però muoversi e smuoversi.  Il vidimus dei Magi ha generato il loro venimus. Essi, dei non credenti, salgono in cattedra e ci insegnano come cercare Dio con la scena dell’adorazione: “… videro il bambinoe prostratisi lo adorarono” (Mt  2,11). Una intensa liturgia del cuore che fa piegare le ginocchia. Questo atteggiamento è la scorciatoia più rapida  per approdare davanti a Dio.
Adorare Dio  per avere la consolante certezza che lui ci vuole vicino a sé per ispirarci ogni scelta ed orientamento. Gesù ci cambia nel profondo se lo avviciniamo con cuore semplice, un cuore come quello di un bambino. “Se non diventerete come bambini…”(MT 18,3). Sarebbe bello, almeno ogni tanto, parlare con il bambino che siamo stati e chiedergli cosa ne pensa dell’adulto che siamo diventati.
E c’è Erode, re criminale e assassino che aveva fatto uccidere moglie, figli e cognati e altre persone, visti come potenziali rivali.La pagina di Matteo è sporca del sangue di bambini uccisi. Dunque un mostro sanguinario. Ma Erode non è morto. La sua discendenza è presente in vari luoghi e si replica in vari modi. I mostri di oggi non aggrediscono più stando nel buio, ma in piena luce del giorno, li trovi che ti sorridono e poi ti pugnalano alle spalle.
Erode è anche un mostro di ipocrisia. Anche con i Magi, come riporta il Vangelo con sottile umorismo: “Quando lo avrete trovato, fatemelo sapere perché anch’io venga ad adorarlo…”(Mt 2,8). Assicura protezione, promette riconoscimento al Bambino. Una falsità lampante. C’è da dire che esiste pure la falsità di alcune persone che si “sente” anche quando non parlano. Ma i Magi non sono ingenui. Il peggior difetto di chi si crede furbo è pensare che gli altri siano stupidi. Grazie anche al sogno di turno, I Magi sabotano il piano di Erode, imboccando un’altra strada.
A mo’ di conclusione, anche noi, come i Magi, offriamo qualcosa a quel Bambino: sarà poco, non importa. Se dato con semplicità di cuore il niente in mano a Dio diventa il tutto.

Dei Magi nel Vangelo non se ne parlerà più. Se ne vanno, come se ne vanno le feste di Natale, lasciandoci una nostalgia, la nostalgia di Dio, lasciandoci una stella in fondo al cuore.

mercoledì 1 gennaio 2014

SOLENNITÀ DI MARIA MADRE DI DIO

                      
Nel nome del Padre inizia il segno della croce. Nel nome della Madre inizia il segno della vita. Nel nome della Pace inizia l’anno nuovo, sbocciato con l’attimo-ponte della mezzanotte. Davanti a questo anno-baby (ha neanche un giorno di vita!), Dio ci manda un concentrato di auguri che si chiama “benedizione”, che non è indirizzata genericamente a tutti ma ad ogni “tu”: “Il Signore ti benedicati custodiscati conceda pace …”. Una benedizione non a taglia unica ma personalizzata. E’ impartita col “tu”. Dio si china su ciascuno di noi, cammina con me e, quello che io sono, come nodo di sole e di buio, diventa un confine del suo cielo. Intercettato dalla benedizione di Dio e, a mia volta, diventato benedizione, devo benedire gli altri. Benedire è un verbo che contiene vita da trasmettere, un verbo da prendere alla lettera: bene-dire, dire bene!... Dire cose positive agli altri ma anche dire cose positive sugli altri. Non sporcare i fratelli con le malignità o le calunnie, usare tolleranza zero verso le cosiddette chiacchiere. Papa Francesco, nei giorni scorsi, ci ha addirittura chiesto di fare l’obiezione di coscienza verso quelle chiacchiere che nascono da critiche corrosive, pregiudizi, risentimenti, invidie, gelosie. Non si uccide una persona solo con un’arma ma anche con le chiacchiere. Sì, si è “omicidi” e non troppo tra virgolette!
E come si fa a far “risplendere il proprio volto” sull’altro? A meno che non si sia degli inguaribili attori, il nostro volto è la finestra del nostro cuore, racconta, traduce e tradisce che cosa ci abita dentro. “Far risplendere il volto”, è anche uno splendido semitismo che indica il sorriso di una persona: non per niente quando sorridiamo il nostro volto si illumina. Il sorriso, che è il più bel biglietto di autopresentazione, può essere il nostro piccolo e quotidiano contributo alla pace. Avvaliamoci quindi della facoltà di sorridere sempre e nonostante tutto: è una bella terapia, non ha effetti collaterali. Ha certamente una ricaduta in positivo su chi vive con noi.

I nostri primi passi nel 2014 sono illuminati dai pastori che “senza indugio” (festinantes) vanno dal bambino che cambia e trasforma la loro vita. Essi sono davvero  l’icona cui guardare in queste ore. “Senza indugio”. Per fare anche noi un pieno di stupore che abiti tutti le 8760 ore del nuovo anno. Questa solennità ci fa anche ritrovare la dolcezza di ridiventare bambini che hanno bisogno di gettare le braccia intorno al collo della Madonna. Affidiamoci a Maria, che offre a tutti il suo Bambino, soprattutto con il Rosario, con il quale lei ci fa tanti regali! All’inizio dell’anno nuovo mettiamo tutti i nostri desideri e le nostre eventuali paure nelle mani di Maria. Non c’è posto più sicuro. Garantito.

Buon Anno, per ogni giorno del nuovo anno!