Domani sarà proclamata
una pagina di Vangelo (Gv 20, 19-31) che ritorna puntuale ogni seconda domenica
di Pasqua e che proprio per questo c’è il rischio che la si ascolti con la
mente in stand-by, senza lasciarsi
coinvolgere più di tanto. E’ invece una pagina che spalanca il nostro cuore
alla gioia di credere, nonostante scottature e cicatrici di ogni tipo.
I discepoli stanno
nascosti e blindati nel cenacolo, tappati e tarpati dalla paura (paura dei
Giudei ma anche di se stessi, di come avevano abbandonato, tradito, rinnegato),
avvolti nella loro incredulità, aggomitolati in una coperta di delusione e di
tristezza. Ma le porte sprangate non fermano il Risorto. Il suo amore è più forte
delle nostre paure a nastro. Non importa quante colpe, quante cadute, quanti
tradimenti abbiamo incolonnato nella nostra vita e forse prosciugato la nostra
autostima, Lui c’è! E porta il dono della pace: “Pace a voi!”. Non è un augurio, una promessa, ma una affermazione.
Scende su ciascuno di noi stasera come una benedizione che ci da energia vitale
e ci spinge ad andare dall’altra parte della paura dove c’è ciò di cui abbiamo
paura.
Ma in quella stanza nel
mercato di Gerusalemme manca un nome all’appello. E’ quello di Tommaso. Egli
non c’era quella sera e, dopo otto giorni, di ritorno al fortino dei discepoli
riceve la notizia della visita compiuta da Gesù: “Abbiamo visto il Signore !”(Gv 20,24). Tommaso rimane gelido di fronte alla testimonianza dei suoi
compagni. Non si lascia contagiare dall’euforia collettiva degli altri che raccontano
una speranza difficile da credere. Si fa ostinatamente esigente nel controllo:
“Se
non vedo nelle sue mani il
segno dei chiodi e non metto il mio
dito nel segno dei chiodi e non metto
la mia mano nel suo fianco, io non credo”
(Gv 20,25). La Resurrezione non è una speranza, è una certezza. Sperare è un
verbo inquieto che si porta dentro domande. Essere certi invece è fiducia
incrollabile, è serenità granitica.
Viene definito
“l’incredulo”. Il suo nome è diventato proverbio. Ma in realtà, porta le
conseguenze di una fede ferita. Ha ancora stampata negli occhi la drammatica
visione del Calvario e di Gesù in
croce, barbaramente ucciso. Tommaso stenta a credere. Davvero ci assomiglia e
forse non a caso è chiamato Didimo che significa “gemello”. E’ uno come noi che
a volte restiamo fermi in un percorso fatto di dubbi e di lentezze. Gesù
ritesse la tela e attende Tommaso dopo il suo sbandamento. Per il suo ripasso
in esclusiva allo scolaro più difficile adotta la lezione più facile, usando
pochi verbi, semplici ma concreti: “guarda-metti-tocca”. Lo invita a toccare le
sue ferite, incancellabili come il suo amore, che sono come pozzi di luce:
quelle delle mani, quelle dei piedi e quella più marcata sul suo costato,
trafitto da una lancia romana. I segni inequivocabili del suo amore. Ma Tommaso
non tocca (ormai sarebbe superfluo), rinuncia ad ogni verifica, si arrende e
dice la cosa più grande con le parole più semplici: “Mio Signore, mio Dio” (Gv 20,28). Una professione di fede, profonda
e limpida che lo inchioda in ginocchio cadendo dal piedistallo della sua
incredulità. Sono attimi intensi per Tommaso, la verità gli scoppia dentro:“Mio Signore, mio Dio”. Poche sillabe, ma
condensano tutto l’alfabeto dell’amore di Tommaso per Gesù. Dovremmo fare
nostre quelle sue parole. Ripeterle spesso, come una giaculatoria.
“Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto” (Gv 20,29). A noi
cristiani dei secoli futuri, Gesù lancia questa lode che equivale ad un
biglietto-omaggio per il Paradiso. Una beatitudine, l’ultima del Vangelo e non
pronunciata sul Monte insieme alle altre. Essa è indirizzata a noi che in quel
momento non c’eravamo. “Beati…”: una
beatitudine che deve avere i nostri nomi.
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