martedì 2 settembre 2014

SECONDA DOMENICA DI PASQUA

Domani sarà proclamata una pagina di Vangelo (Gv 20, 19-31) che ritorna puntuale ogni seconda domenica di Pasqua e che proprio per questo c’è il rischio che la si ascolti con la mente in stand-by, senza lasciarsi coinvolgere più di tanto. E’ invece una pagina che spalanca il nostro cuore alla gioia di credere, nonostante scottature e cicatrici di ogni tipo.
I discepoli stanno nascosti e blindati nel cenacolo, tappati e tarpati dalla paura (paura dei Giudei ma anche di se stessi, di come avevano abbandonato, tradito, rinnegato), avvolti nella loro incredulità, aggomitolati in una coperta di delusione e di tristezza. Ma le porte sprangate non fermano il Risorto. Il suo amore è più forte delle nostre paure a nastro. Non importa quante colpe, quante cadute, quanti tradimenti abbiamo incolonnato nella nostra vita e forse prosciugato la nostra autostima, Lui c’è! E porta il dono della pace: “Pace a voi!”. Non è un augurio, una promessa, ma una affermazione. Scende su ciascuno di noi stasera come una benedizione che ci da energia vitale e ci spinge ad andare dall’altra parte della paura dove c’è ciò di cui abbiamo paura.
Ma in quella stanza nel mercato di Gerusalemme manca un nome all’appello. E’ quello di Tommaso. Egli non c’era quella sera e, dopo otto giorni, di ritorno al fortino dei discepoli riceve la notizia della visita compiuta da Gesù: “Abbiamo visto il Signore !”(Gv 20,24). Tommaso rimane gelido di fronte alla testimonianza dei suoi compagni. Non si lascia contagiare dall’euforia collettiva degli altri che raccontano una speranza difficile da credere. Si fa ostinatamente esigente nel controllo: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo” (Gv 20,25). La Resurrezione non è una speranza, è una certezza. Sperare è un verbo inquieto che si porta dentro domande. Essere certi invece è fiducia incrollabile, è serenità granitica.
Viene definito “l’incredulo”. Il suo nome è diventato proverbio. Ma in realtà, porta le conseguenze di una fede ferita. Ha ancora stampata negli occhi la drammatica visione del Calvario e di Gesù in croce, barbaramente ucciso. Tommaso stenta a credere. Davvero ci assomiglia e forse non a caso è chiamato Didimo che significa “gemello”. E’ uno come noi che a volte restiamo fermi in un percorso fatto di dubbi e di lentezze. Gesù ritesse la tela e attende Tommaso dopo il suo sbandamento. Per il suo ripasso in esclusiva allo scolaro più difficile adotta la lezione più facile, usando pochi verbi, semplici ma concreti: “guarda-metti-tocca”. Lo invita a toccare le sue ferite, incancellabili come il suo amore, che sono come pozzi di luce: quelle delle mani, quelle dei piedi e quella più marcata sul suo costato, trafitto da una lancia romana. I segni inequivocabili del suo amore. Ma Tommaso non tocca (ormai sarebbe superfluo), rinuncia ad ogni verifica, si arrende e dice la cosa più grande con le parole più semplici: “Mio Signore, mio Dio” (Gv 20,28). Una professione di fede, profonda e limpida che lo inchioda in ginocchio cadendo dal piedistallo della sua incredulità. Sono attimi intensi per Tommaso, la verità gli scoppia dentro:“Mio Signore, mio Dio”. Poche sillabe, ma condensano tutto l’alfabeto dell’amore di Tommaso per Gesù. Dovremmo fare nostre quelle sue parole. Ripeterle spesso, come una giaculatoria.

Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto” (Gv 20,29). A noi cristiani dei secoli futuri, Gesù lancia questa lode che equivale ad un biglietto-omaggio per il Paradiso. Una beatitudine, l’ultima del Vangelo e non pronunciata sul Monte insieme alle altre. Essa è indirizzata a noi che in quel momento non c’eravamo. “Beati…”: una beatitudine che deve avere i nostri nomi. 

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