martedì 2 settembre 2014

21 Domenica del Tempo Ordinario (A)

Il Vangelo di questa domenica - Mt 16,13-20 - segna una sterzata decisiva  dell’intero racconto matteano. Con voi, soltanto una breve sottolineatura che si limita ai primi quattro versetti che sfociano nella solare e solenne professione di fede di Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” che trasformano quell’angolo di Cesarea di Filippo a nord della Galilea, nel luogo del primo “conclave” della storia: “…tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa…a te darò le chiavi…ciò che legherai…ciò che scioglierai”.
I discepoli seguono Gesù incantati dalla sua parola così diversa da quella degli altri rabbì, i suoi miracoli lasciano tutti a bocca aperta, la sua attenzione agli ultimi della società capovolge schemi mentali e religiosi. Ma ora, Gesù, inizia a girare le carte in tavola, vuole fare il punto della situazione con i suoi discepoli. E con noi. Ed ecco allora la pungente domanda: “La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?”. Gesù non sta attraversando una crisi di identità, non vuole informazioni circa il gossip che circola su di lui ma vuole pennellare in chi lo ascolta un’intuizione vitale. Tutti in fila, i suoi discepoli, gli rispondono le cose più scontate: “Alcuni Giovanni Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti”. La risposta che daremmo forse anche noi, secondo il catechismo e la teologia.
Gesù allora fa alzare in volo una seconda domanda, preceduta da un “ma” che vuole ascoltare solo una risposta che interpella personalmente: “Ma voi chi dite che io sia?”. La domanda, così incalzante e coinvolgente di Gesù arriva stasera anche per ciascuno di noi: “Io chi sono per te?”. Una domanda secca, asciutta e forse un po’ birichina, che ci mette al muro. Cristo non è ciò che io dico di Lui, ma ciò che io vivo di Lui. Nella grammatica cristiana il verbo credere non regge il complemento oggetto: “credo Gesù Cristo”. Il monaco (ma anche ogni cristiano impegnato) si autodefinisce dall’espressione: “credo in Gesù Cristo”. Ad una domanda inquietante, una risposta di fede.

“In”, cioè innestato in Lui, come tralcio nella vite. Vivere di Lui. Vivere con Lui. Non poter fare a meno di Lui. Non avendo niente di più caro e nulla anteponendo al suo amore, come ci ricorda la Regola nel cui orizzonte è presente tutta una dinamica esperienziale che ruota intorno all’umiltà e all’obbedienza, due virtù proprie di Cristo umile e obbediente usque ad crucem. Fare di Cristo il cuore pulsante della nostra vita monastica. Respirare Cristo.

“Chi sono io per te?”. Domanda da amare. Domanda da sentirsi ripetere ogni giorno.

SOLENNITA’ DELL’ASSUNZIONE DELLA B.V. MARIA

Sull’uscio della casa di Elisabetta … è anche qui che sembra trattenerci la solennità dell’Assunta. Da quel punto prospettico scopriamo cosa e come guarda Dio. Dio guarda soprattutto l’umiltà di Maria, facendo lampeggiare non i grandi fatti ma l’elogio della piccolezza. Umiltà: cioè il giusto e sano riconoscere quello che si è, con luci e ombre. Essa parte da una verità: io sono unico ma non l’unico. Se la superbia è la madre dell’ipocrisia, l’umiltà lo è della serenità che ci fa vivere gioiosi di quello che si è e che si ha. Su quell’uscio Maria, maestra di stupore, con il Magnificat che è un mosaico di testi biblici si autoproclama felice e ci sgrana una serie di verbi in chiaro-scuro riferiti a Dio con i quali riassume la Storia della Salvezza: ha guardato, ha fatto, ha spiegato, ha disperso, ha rovesciato, ha innalzato, ha ricolmato, ha rimandato, ha soccorso, si è ricordato … Una serie di verbi incalzanti tra i quali troviamo certamente quelli che ci ricordano quanto la mano di Dio ha fatto e fa anche nella nostra vita. Cerchiamo di non essere degli inguaribili distratti.
Questa solennità inoltre, a noi che, per tanti motivi, nel viaggio della vita siamo così schiacciati sul presente è una boccata di ossigeno che ci spalanca un orizzonte splendido, quello vero e che ci attende. Maria assunta in cielo e, prima di lei, Gesù Risorto, sono la certezza assoluta della fede che la nostra vita, anche quella corporea, è destinata ad una felicità eterna. “Credo nella risurrezione della carne”, affermiamo nella professione di fede: l’anima non può rimanere da sola, ha bisogno del suo compagno di viaggio, il corpo che così partecipa all’eternità. Siamo figli fatti per il cielo, come Maria nostra Madre. Lei aspetta tutti noi per l’abbraccio con Dio. Vedere la nostra vita dalla postazione dell’eternità le conferisce luce, leggerezza, la riconduce all’essenziale, le imprime orientamenti precisi e positivi.
Ognuno di noi è un sogno digitato dal e nel cuore di Dio e perciò porta in se incorporato il cielo. Dove la natura scrive morte la fede legge pasqua. C’è questa comunione fortissima tra noi e i nostri cari che ci hanno solo apparentemente lasciato: in questi casi il cuore non è dove batte ma dove ama. Riceviamo perciò anche un’iniezione di coraggio di fronte a tante prove e dispiaceri che a volte assumono dolorose dimensioni.  Ma anche la nuvola più scura ha sempre un lato verso il sole.
Però leggere il significato di questa festa come uno sguardo verso il cielo, al futuro che ci attende, non ci deve far dimenticare l’ineludibile impegno qui, sulla terra, ad essere cristiani coerenti e gioiosi di manifestarlo. Andiamo a scuola da Maria che ci insegna ad intrecciare la fede con la quotidianità, che ci consegna l’alfabeto della vita che noi possiamo individuare ed esplorare in molte delle litanie a lei dirette: amore, fedeltà, preghiera, tenerezza, misericordia, gioia, consolazione.

Così sia e così speriamo.                

Omelia per il funerale della nonna di D. Tommaso

In occasioni come questa forse sarebbe meglio il silenzio. Ogni parola oltre a perdere contenuto e significato, rischia di essere di troppo. Sì, forse sarebbe meglio il silenzio in questi momenti in cui la nonna Gina sembra prendervi per mano e portarvi sulla sponda dell’invisibile dove lei si trova da domenica pomeriggio. Non ci sono parole umane di consolazione ma ci sono quelle della nostra fede, altrimenti è come vivere con un orologio senza lancette. E’ come girare a vuoto senza trovare la giusta direzione. La freccia segnaletica per noi è la parola di Gesù Risorto che abbiamo appena ascoltata nel Vangelo: “Chi crede in me, anche se morto vivrà”. Anche se morto… Una speranza che è una certezza che si identifica con l’amore fedelissimo di Dio per ognuno di noi. Un amore, il suo, in grado di compiere quello che tutti noi desideriamo: far vivere per sempre le persone, come nonna Gina, cui vogliamo bene. Per questo, se ci pensiamo bene, a proposito dei nostri defunti non dovremmo mai usare l’imperfetto “era..…” ma il presente “è”! Per un cristiano, in realtà, la morte non esiste perché appena chiudo gli occhi a questa vita, li apro all’infinito di Dio. La morte è una porta buia ma per chi crede è una porta che da su un mondo di luce. Una porta aperta da Maria, guardiana della nostra ultima ora. Lei è stata vicina all’ultimo respiro del Figlio in croce e lo sarà anche accanto al nostro.
Ecco perché se è vero che la fede non toglie il dolore però è anche altrettanto vero che abilita chi soffre a vivere la morte della persona cara con atteggiamento e prospettive diverse. La sofferenza assume i lineamenti timidi ma forti della serenità interiore. C’è poi il gran mezzo della preghiera, come il Rosario, e ancor più, la partecipazione alla Messa che ci mettono in forte comunione con quei nostri cari che si sono trasferiti presso Dio ma che continuano ad abitare con noi. E’ vicina a te D. Tommaso che gli sei
sempre stato tanto affezionato; da bambino andavi con lei e con l’altra nonna al Santuario della Madonna di Pradella e di quello del B. Innocenzo


da Berzo. Lei ha sempre visto bene la tua scelta di vita consacrata e ora che è così vicina Dio sarà per te un sostegno spirituale.
Sicuramente in queste ore la vostra mente è affollata di ricordi e di gesti di Gina che come tante altre persone vi ha lasciato degli insegnamenti, più con l’esempio che con le parole, ancorati a valori umani e religiosi. Il modo più bello di ricordarla è l’impegno a farli vostri. La vita di persone come Gina è stata come un’omelia muta che parla al cuore.

Gina, siatene sicuri, come tutti i nostri cari defunti si trova nell’abbraccio inesprimibile e splendido di Dio: senta anche il vostro, forte forte… 

DOMENICA 15° DEL TEMPO ORDINARIO (A) PROFESSIONE TEMPORANEA DI D. CELESTINO.

Ecco…”. Con un “ecco” che cade tra la gente assiepata sulla spiaggia, Gesù dall’insolito e precario pulpito di una barca, propone la prima di una serie di sette parabole, cioè di originali ed efficaci “audiovisivi”, attinti dalla concreta esperienza del quotidiano, dalla natura, per trasmetterci un messaggio, con un linguaggio che contiene di più di quel che dice. A quella di oggi, che qualcuno definisce come la madre di tutte le parabole, l’interpretazione la dà lo stesso Gesù, segno che si tratta di qualcosa di  molto importante. Non si tratta di un contadino incapace o di un seme di qualità scadente. Il problema è il terreno. Stesso seme ma non stessi terreni. Dobbiamo ricordarci che la terra di Gesù, ancora oggi, non è come la grande e bella pianura padana ma spesso si presenta tagliata da nastri di strada o sassosa o con striminzite macchie di rovi e arbusti. Strada-sassi-spine sono le tre esse della parabola. Sono proprio i primi tre terreni in cui il seme gettato fallisce perché essi mancano della necessaria fertilità.

Carissimo D. Celestino, quando diverso tempo la mano del Signore si è aperta su di per gettarvi seme della sua Parola è iniziata a fiorire una nuova stagione nella tua vita. Non ti sei accontentato del trenta e nemmeno del sessanta ma, avendo essa disegnata sul terreno del tuo cuore la parola “vocazione monastica”, hai puntato al cento. Hai avvertito dentro di te una certa insoddisfazione verso tante realtà che, per quanto belle e oneste, sentivi che non ti bastavano più. Hai voluto evitarti una forma di anoressia esistenziale. Una lista di voli raso-terra.
Dopo aver maturato la tua scelta di consacrazione, sostenuto dai tuoi famigliari che ancora saluto e ringrazio, aiutato nel discernimento dal tuo padre spirituale, per una serie di circostanze provvidenziali, tramite il comune amico Claudio che è qui presente, sei giunto in “questa scuola del servizio divino” che è Monte Oliveto. Hai iniziato il tuo percorso formativo, in Noviziato ti è stata spiegata e approfondita la Regola che oggi intendi professare, ed eccoti adesso alla impegnativa tappa della professione temporanea che tale, “temporanea”, lo è solo perché lo chiede la prudenza della Chiesa. In realtà, l’offerta di te stesso a Dio deve essere già da adesso totale … infatti non ci si può donare a Dio a col contagocce! Per il Signore: tutto e subito!
Non c’è amore senza una promessa, non c’è promessa senza esserci incorporato un “per sempre”, non c’è un “per sempre” se non lo si vuole sino alla fine, sino e oltre la morte. Oggi tu ufficializzi quello che che è il servizio più grande che puoi fare alla Chiesa e alla società: essere monaco … con la scelta dell’obbedienza e della conversione del tuo cuore che comprende i voti di castità e di povertà. E non per realizzare una santità di “serie A” perché tutti i battezzati sono chiamati alla santità, ma perché trovi la tua felicità nel fare la volontà di Dio, essere una piccola icona del Fiat di Maria.

Dio, come quel seminatore, sperpera fino allo spreco. Ha proprio le mani bucate: bucate dai chiodi sul legno della Croce, il più clamoroso degli sprechi di Dio per noi tutti. Ed ecco perché ti invito a guardare spesso nostro Fondatore, San Bernardo Tolomei, ritratto mentre contempla il Crocifisso che è “il come” dell’amore. D. Celestino, lascia che Cristo ami in te. Se saprai fare spazio nella tua vita monastica al suo amore, allora amerai come Lui. Come insiste San Benedetto a più riprese nella Regola, che hai letto e studiato durante il Noviziato, fai di Gesù il tuo “tutto”.

Nella vita di S. Teresa d’Avila si narra che un giorno, sulla scala del noviziato del suo Carmelo abbia incontrato un bambino che le chiese il suo nome. “Sono Teresa di Gesù”, rispose la Santa, che subito aggiunse e tu, bambino, come ti chiami?”. “Gesù di Teresa”, fu la risposta.  Dunque, per te: Celestino di Gesù e Gesù di Celestino.

SOLENNITA’ DEI SANTI PIETRO E PAOLO

Soltanto Lui, il Cristo, poteva metterli insieme. Pietro e Paolo: così diversi. Pietro e Paolo…  due percorsi di vita annodati dallo stesso legame: Cristo.
Pietro: l’ex-pescatore di Cafarnao, uomo semplice e rozzo, entusiasta e irruente, generoso e fragile. Unico per quella sua solare professione di fede che è un resumé di teologia allo stato puro: “Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio” (Mt 16,16).  Proprio lui è scelto per essere il primo. Proprio lui con le mani callose della pesca (ma le mani sporche di lavoro profumano di dignità) e la mente certo a digiuno delle profezie, delle discussioni dotte degli scribi, è scelto per essere il primo tra gli Apostoli. Proprio lui che piange le lacrime amare del rinnegamento e sente bruciare forte la ferita del tradimento. Come i cristiani di ogni epoca, anche noi siamo pietre su Pietro…e così viene su la grande Chiesa.
Paolo: l’intellettuale raffinato e polemico, lo zelante e fanatico persecutore. Sappiamo tutti che non fu discepolo diretto di Gesù, ma che il via alla sua azione instancabile e vulcanica fu il famoso incontro, rocambolesco e decisivo, con il Risorto sulla strada di Damasco. Nelle sue Lettere gustiamo il fascino e la bellezza di una vita completamente orientata a Cristo.
Chiavi e passi. Chiavi: Pietro. Passi: Paolo.
Guardando a loro, ma visti come Simone e Saulo, possiamo dedurre che Dio non guarda i meriti perché il suo amore non si merita ma lo si accoglie e condivide. Quando Dio chiama qualcuno a seguirlo più da vicino, può riciclare in positivo i suoi limiti,  le sue fragilità e miserie. L’impulsiva testardaggine di Simone si trasforma in roccia su cui costruire la Chiesa, la intransigente passionalità di Saulo si trasforma in ardore missionario. Qualcosa di simile può accadere anche a noi, ma la premessa necessaria, la conditio sine qua non, è consegnare senza riserve la nostra vita a Cristo. Senza che ci sia un altro “tu” in concorrenza. Come a Simone anche a noi cambia il nome, cioè sostituisce chi siamo con chi potremmo essere se lo seguiamo e pratichiamo la sua Parola.

Ma adesso riascoltiamo quella inquietante domanda che Gesù pone nel Vangelo prima proclamato, però restringendola dal plurale al singolare: “Chi sono io per te?”. E’ vero che “Solo buone domande meritano buone risposte”(Oscar Wilde), ma quella di Gesù non è solo una “buona domanda”, essa è la domanda delle domande. Una domanda che ci mette al muro. Dobbiamo dare la nostra risposta personale. La nostra risposta, come quella data da Pietro, dovrebbe pennellare il rapporto che abbiamo con Gesù. Riguarda il “come” e il “quanto” collochiamo la sua presenza nelle nostre 24 ore. Cristo non è tanto ciò che dico di Lui, ma ciò che vivo di Lui. “Chi sono io per te?”. Domanda da amare e da porsi ogni giorno.

SACRO CUORE DI GESU’ (A)

Quante perle in poche parole! Gesù capovolge le regole del gioco.
Gesù sembra snobbare coloro che possono esibire eccellenti pagelle scolastiche o di altro tipo, non gli interessano i primi della classe nella vita, quelli che sono superbamente ingolfati in se stessi, nella propria bravura in tante cose, quelli che si sentono a posto. Lui non è per i saccenti e i presuntuosi, quelli che sono preceduti da prefissi come super, iper o méga. Lui si dona ai piccoli che non sono soltanto i bambini, i poveri o gli ultimi della società ma, stando al termine greco tradotto con “piccoli”, anche alle persone con alcune contraddizioni, immature, incerte, zoppicanti, ansiose, che non hanno paura di ammettere le loro debolezze. Agli umili, ai disarmati.
Gesù chiama tutti questi tipi di persone ad ormeggiare nel suo cuore per fare esperienza della sua dolcezza, per ritrovare nuove energie, nuovi impulsi, per ricaricare energie indebolite. Ci chiede di non rimanere schiacciati dal male che facciamo, ci risolleva dai nostri errori e ci dice di ripartire, di avere fiducia nel suo amore che respira alle nostre spalle.
C’è poi un verbo che caratterizza lo stare con Gesù: “imparare”. E Gesù stesso dice da chi e che cosa. Da Lui. La mitezza e l’umiltà. Non le possiamo imparare da altri maestri. Sono due materie talmente importanti alla scuola del Vangelo che Gesù chiede di impararle da Lui.

Gesù ci ha mostrato la misura (la dismisura!) del suo amore morendo in croce per noi. Lasciamoci allora raggiungere dal suo amore che non pone condizioni, che non pesa, che non ricatta, che non fa star male, che non ci avvita in piccinerie mentali: un amore libero che solo Lui sa proporre.

CORPUS DOMINI (A)

Lo ha voluto Lui. Con un gesto libero, disarmante, originalissimo. Da Dio.  Lo ha voluto Lui nell’ultima Cena, dopo quel chiodo di tenerezza che è la lavanda dei piedi. Ultima Cena, nella quale ha le radici la solennità che stiamo celebrando, anche se liturgicamente ha avuto origine in un altro contesto storico: “Prendete e mangiate”-“Prendete e bevete”. Gesù decide di rispondere al suo desiderio di stare sempre con noi rimanendoci nel segno umile, semplice, fragile, quotidiano di un pezzetto di pane e di un po’ di vino.
Un pane come pro-memoria del suo amore. L’emozione di un Dio che mi raggiunge come sono: sporco o splendido e fa di me il suo tabernacolo che cammina. Ciascuno di noi è il tabernacolo che preferisce.
Ad ogni Eucarestia è Dio che ci cerca e ci chiama: “Beati gli invitati alla cena del Signore …”. La piccola ostia che sa di niente e che S. Teresina chiamava “cielo che sei mio” ci fa affacciare sull’immensità di Dio. In noi si deposita l’orma lieve di Dio, lieve come l’ostia. Si immerge nel nostro cuore per organizzare l’amore.
La festa del Corpo di Cristo, offerto come pane, ci ricorda che solo il dono di sé da senso alla vita, è l’unica strada per la vera felicità. L’Eucarestia educa al servizio, non ci lascia in un’ovattata sonnolenza. L’Eucarestia ricevuta ci compromette perché ci impegna ad una vita non troppo dissimile da quella di Gesù. Ci insegna l’arte del servizio. “Fate questo in memoria di me” significa di certo: “celebrate questo rito per rendermi realmente presente”, quindi non un semplice ricordo emotivo della sua Pasqua, ma significa anche: fatevi voi pane e vino per i vostri fratelli. Come voi ricevete me nell’Eucarestia, così gli altri devono ricevere voi nella loro vita. Chi non vive eucaristicamente vive egoisticamente.

E vivere così, di giorno in giorno, fino all’ultimo, quando il nostro morire sarà passare nella sua Pasqua, e l’ultima Eucarestia sarà il “viatico”, cioè l’unico e bellissimo ricordo che ci porteremo via da questa terra,  per andare là dove si ama senza fine.

SS. TRINITÀ (A)

Chi naviga nel mondo di facebook incrocia sempre l’espressione “mi piace” da cliccare o meno. Ognuno di noi, sulla sua bacheca, può condividere i propri stati d’animo, appuntamenti, musica e parole. In un certo senso, l’evangelista Giovanni lo possiamo considerare un precursore dei social network, perché era convinto che noi siamo fatti di ciò che ascoltiamo, vediamo, condividiamo … Ricordiamo le prime parole della sua Lettera: “… ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo visto con i nostri occhi, ciò che le nostre mani hanno toccato” (1Gv. 1,1) E con il Vangelo prima proclamato, pochi versetti tratti dal lungo monologo di Gesù, condivide con noi un link da cliccare: l’incontro notturno con Nicodemo. Altri suoi links, se ricordiamo, li abbiamo condivisi in Quaresima: la Samaritana, il cieco nato, Lazzaro.
Dio è uno solo, ma non è solo. In se stesso non è solitudine ma comunione. E’ dono e gioia di relazione. “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio…” (Gv 3,16). Questo versetto è il cuore di tutto il Vangelo. Il Credo che noi diciamo o cantiamo alla Messa è attraversato in filigrana da un altro articolo di fede: io credo nell’amore di Dio. L’amore non può essere solo, è sempre plurale. Qui sta il “perché” della Trinità, che non è un freddo distillato teologico, un rompicapo celeste, uno strano esercizio aritmetico (1=3 e 3=1), un mistero neutro, scarico di indicazioni operative per la nostra vita terra-terra.
Dio per crearci si è guardato allo specchio. Noi siamo abbracciati dal mistero della Trinità, tre Persone uguali ma distinte. Essa è l’immagine provocatoria di quello che dovrebbe essere il nostro stare come armonia di differenze. Noi siamo tutti uguali per la stessa natura umana (non ci sono uomini di serie A e uomini di serie B), ma distinti per le diversità che ci connotano. Ognuno di noi ha il suo volto, la sua storia, il suo identikit intrasferibile. Dal momento del nostro Battesimo, noi siamo impastati di vita trinitaria.

Il Padre è amore, il Figlio è amore, lo Spirito Santo è amore e ognuno vive con-per-in l’altro; con-per-in sono le tre paroline (preposizioni) dell’amore. Perciò quando noi amiamo o mettiamo un mattone di comunione là dove viviamo, facciamo la più bella professione di fede nella Trinità, ne diveniamo lo spazio pubblicitario. S. Agostino ha detto splendidamente: “Se vedi l’amore, vedi la Trinità”. Non possiamo giocare la nostra vita da solitari. Al contrario, se io semino indifferenza, freddezza, amarezza, odio, astio, rancore, paure, pettegolezzi e calunnie, io sconfesso la Trinità che dunque più che un mistero da capire è un mistero da sperimentare e vivere.

SOLENNIT À DELLA PENTECOSTE (A)

La Pentecoste, effetto domino della Pasqua, anzi Pasqua compiuta: ovvero cronaca di un incidente “non annunciato”.
Se avessero contato solo su se stessi, i componenti di quella piccola armata brancaleone che erano gli apostoli, asserragliati dalla paura nel cenacolo, non avrebbero fatto molta strada. Di alcuni, il loro curriculum vitae non li candidava certamente a portare Gesù e la sua Parola fino agli estremi, quelli geografici e quelli del martirio. Ma c’è un fuori-programma: lo Spirito Santo, che li raggiunge con il suo soffio vitale, scombina tutto e li promuove sul campo evangelizzatori. Coraggiosi, decisi, entusiasti, audaci. Non più soli, ma abitati dallo Spirito Santo, il Presente Invisibile. Lui, terza Persona della SS.ma Trinità, è il debordare dell’amore di Dio. L’estasi di Dio. E’ il respiro di Dio che riempie il mondo.
Lo Spirito Santo è luce di verità che si dà e ci dà appuntamento nella Chiesa  con i misteri della fede, è vento di libertà perché ci offre la legge dell’amore che è vero solo quando è libero, è fuoco di carità che ci fa adottare il vocabolario della comunione. Ci fa vivere non di istinti ma di istanti, se questi sono riempiti di opere buone.
La Pentecoste può essere accostata al primo capitolo della Genesi perché anche essa dà origine ad una nuova creazione. Il lavoro dello Spirito Santo è quello di dare la vita: “…et vivificantem”, come diciamo nel Credo. Fa spuntare nuovi germogli anche su un albero secco.
La Pentecoste non appartiene a ieri, non è un ricordo la cui eco sfuma col passare degli anni, dei secoli. La Pentecoste è perennemente in atto. Lo Spirito Santo, ricevuto al Battesimo e alla Cresima, infatti è anche il segreto della giovinezza del cristiano, non perché modifica l’età segnata dalla carta d’identità ma perché spiana le rughe del nostro egoismo, non fa un piccolo intervento estetico a fior di pelle ma un lifting bellissimo e irreversibile a chi ha il cuore sciupato dai peccati. Ci fa deviare dai supermercati delle illusioni che ci vendono ricette di felicità a buon prezzo, dai luna-park di certe emozioni fine a se stesse e che poi ci lasciano con la bocca amara, per riportarci invece continuamente a Gesù che, Lui sì è la Verità e  la Vita, oltre che la Via.

La forza dello Spirito Santo si innerva nei suoi magnifici sette doni: quello della sapienza che è sapore dato alle cose che si fanno e che si dicono; quello dell’intelletto che ci abilità a leggere in profondità quanto ci capita e a saper andare oltre a chi ci spegne il sorriso; quello della scienza che non corrisponde a quello che ci sforna Wikipedia ma ci fa scoprire il perché delle cose create e l’impronta del Creatore in esse; quello del consiglio che ci orienta nei momenti di dubbio e di sconforto, consapevoli che se la vita non arriva con le istruzioni incorporate non è altrettanto vero che ai bivi della vita non ci sia una segnaletica; quello della fortezza che non è solo tenace volontà ma anche capire che tutto quello che vogliamo di bello è dall’altra parte della paura; quello della pietà, cioè dell’amore filiale verso Dio visto come un papà che fa il mestiere di amare e di perdonare; quello del timore di Dio che non è paura di Lui ma sana attenzione a non prenderlo in giro ma piuttosto a prenderlo sul serio.
Lo Spirito Santo è la carezza di Dio sul nostro cuore ferito da alcune cattiverie, è la voce di Dio nella nostra coscienza quando è un po’ sotto anestesia, è la mano di Dio quando siamo smarriti per le nostre debolezze, è la provvidenza di Dio nelle nostre necessità.

Adesso socchiudiamo gli occhi e con fede, con forza, con passione, diciamo ma per la penultima volta: “Vieni, luce dei cuori!”

SOLENNITÀ DELL’ASCENSIONE (A)

Per Gesù l’ultimo appuntamento è sempre il penultimo: quello al monte, luogo dell’esperienza divina, è rimasto il primo di una serie infinita di appuntamenti.
Quello sperone di monte sembra una scogliera di naufraghi abbandonati. Ed è lì che Gesù ha dato l’appuntamento agli undici. Ed è lì che Gesù                                    prende, per così dire, la doppia cittadinanza, quella del cielo e quella della terra. In altre parole: si conclude il tempo del Gesù storico e sboccia quello della Chiesa, fatta di uomini fragili e peccatori ma anche di tanti santi!
L’Ascensione, cioè Gesù che va al cielo sotto gli occhi attoniti dei suoi discepoli, disorientati e spiazzati, alcuni in adorazione altri nel dubbio, come ce la presenta gli Atti (prima lettura), non è un finale da commedia all’americana, non è un episodio da leggere come un reportage, non è un fenomeno mediatico dai connotati paranormali. Al contrario: quello di Gesù è un passaggio di consegne che illumina di concretezza il percorso della nostra vita. L’Ascensione non è la festa della sua partenza ma della sua permanenza. Gesù, nel Vangelo prima proclamato - pochi versetti di Matteo, un evangelista-teologo - e che sprizza scintille di risurrezione, ci incarica di renderlo visibile dappertutto, a cominciare da dove viviamo, che è il luogo in cui Dio ci chiama a farci santi.

Le nostre 24 ore sono la piazza di quel Vangelo che dobbiamo annunciare, non necessariamente in modo diretto perché quell’ “andate” di Gesù non è solo un verbo di movimento fisico ma indica anche l’aprirsi a nuove dimensioni di vita, ma particolarmente con la testimonianza e l’impegno della preghiera che è il respiro della nostra fede. Il nostro quotidiano è dunque la cattedrale dove ci incontriamo con il Risorto. Possiamo perciò riassumere che l’Ascensione non è la festa dell’addio ma la festa dell’invio. L’altro è il cielo dove trovo Gesù e io sono il cielo in cui l’altro deve vedere Gesù. Non lo devo cercare nei quartieri residenziali del cielo. Il suo indirizzo provvisorio porta i connotati di ciascuno di noi. E’ l’inquilino di quell’appartamento privatissimo che si chiama “persona umana”. E’ salito al cielo per nascondersi dappertutto sulla terra. Un po’ tutto un gioco per farci innamorare ancor di più di Lui. Oltre che a vivere con ascesi si deve vivere da “ascesi”, cioè orientati ad un destino più grande, con lo sguardo lassù ma con i piedi quaggiù, allacciando collegamenti tra cielo e terra. Per evitare il rischio di una identità cristiana bonsai.

L’Ascensione è la festa della promessa: “Io sono con voi tutti i giorni” (Mt 28,20). Possiamo prendere le distanze da quei versi di Quasimodo: “Ognuno sta solo sul cuor della terra”. Non è vero! Gesù azzera la collezione delle nostre paure. “Tutti i giorni”. Anche e soprattutto nei giorni segnati dalla sofferenza, dal vuoto, da quei dubbi su noi stessi che ci creano una realtà che poi quasi sempre non esiste. In ogni situazione ricordiamoci ogni volta di quel ”io sono con te tutti i giorni”. Queste parole sono il più potente ansiolitico, così come un cuore in disordine, non in pace con Dio è il più grande ansiogeno.


La Vergine Maria che ha accompagnato i primi passi della Chiesa nascente, accompagni anche noi, chiamati ad essere discepoli e a rendere discepoli gli uomini.

OMELIA FUNERALE GIOVANNI

Da sempre, almeno fin dagli inizi del secolo scorso, Monte Oliveto ha avuto per motivi diversi ma convergenti, un rapporto speciale con alcune famiglie del luogo. La comunità monastica insieme con queste famiglie, in un certo senso, si sono sempre sentiti come una sola grande famiglia. Per questo mi sembra molto bello e significativo che alla S. Messa esequiale di Giovanni (uno di queste famiglie) siamo tutti insieme presenti: abate e monaci di Monte Oliveto e voi suoi famigliari, parenti e amici.
Se un giorno sentirete dire che sono morto, non credeteci: è una bugia”. Queste parole di un santo sacerdote le possiamo fare nostre in questo momento, le possiamo applicare ogni volta che un nostro caro ci lascia.
Se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto”. La fede generosa di Marta, sopraffatta dall’emozione, si sbaglia. E’ in fondo quello che pensiamo anche noi quando un nostro caro se ne va per sempre. Dov’è Dio nel nostro dolore? Dio è sempre qui, con noi, ma non come esenzione alla morte. Gesù non ci ha promesso che non saremmo morti, ma ci ha promesso qualcosa di più: la vita per sempre. Il mistero di Gesù che muore e risorge incrocia sempre il mistero di ogni morte, anche quella del caro Giovanni. Ecco perché ogni morte è contemporaneamente un venerdì santo e una domenica di Pasqua.
La nostra fede è l’unica in grado di compiere ciò che il nostro amore umano vorrebbe fare: far vivere per sempre le persone cui vogliamo bene. Per questo la morte non ci può far paura, non ci deve far paura. Semmai deve far paura una vita spesa male, anemica di bene. Se viviamo in comunione con Dio, la morte sarà soltanto come dire a Lui: “Eccomi !”.  Ecco perché si può dire che la morte per un cristiano non esiste, perché appena chiude gli occhi li apre all’infinito di Dio, alla vera vita!  Per un cristiano, morire non è sparire nel nulla, ma è tornare a casa.                                  
La morte non è la fine di tutto: Giovanni continua a vivere accanto a noi.



Affidiamo Giovanni alla Madonna e per lui e anche per noi stessi la vogliamo così invocare: “Prega per noi, peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte. Amen”.

QUINTA DOMENICA DI PASQUA (25mo professione di D. Jos)

Anche oggi, come quattro domeniche fa, c’è ancora lui l’Apostolo incredulo, Tommaso, realista fino ad essere sfacciato, con una domanda cucita addosso: “Signore, non sappiamo dove vai: come possiamo conoscere la via?”(Gv 14,5). E Cristo riparte, ancora una volta: “Io sono la Via, la Verità e la Vita”. Parole enormi. Si trovano sulla carta di identità di Gesù, figlio di Dio. Gesù ci dona la beatitudine della fiducia. Tre parole degne del miglior imprenditore, non commerciale, industriale o aziendale ma del Padrone del Paradiso. Tre “V-V-V” che non indicano un sito internet ma sono le tre coordinate che ci orientano.
Via-verità-vita. Queste parole sono pronunciate nel lungo discorso di addio durante l’Ultima Cena e si appoggiano al precedente invito di Gesù: “Non sia turbato il vostro cuore, abbiate fiducia in me” (Gv 14,1). Gesù sta per morire e vuole tranquillizzare i discepoli che però non sono molto convinti. Gesù vuole tranquillizzare anche. S. Teresa d’Avila affermava: “Nulla ti turbi, nulla ti spaventi, chi ha Dio nulla gli manca. Solo Dio basta”. E Papa Giovanni XXIII, da poco canonizzato diceva: “Dio sa che ci sono e questo mi basta”. E poco dopo, Gesù ci garantisce che saremo sempre con Lui. Posti già occupati! Come se dicesse a ciascuno di noi: sai, io mi sento a casa quando sono accanto a te. Bellissimo. “E del luogo dove io vado, conoscete la via”(Gv 14,4)… e allora, un cristiano, giocando con i doppi sensi delle parole, dovrebbe dire di  abitare in “Via Gesù n. 3” e il numero telefonico, come ha detto un ragazzino al catechismo, è 616163 (se sei Uno, sei Uno sei Tre).

Via-verità-vita.
Via: in una società stracolma di opinionisti e piccoli leader che litigano tra loro, Gesù indica se stesso come percorso. E’ una via, non un parcheggio. Cioè, dobbiamo camminare dietro a Lui, mettere i nostri piedi nelle sue impronte. Gesù è la nostra mappa esistenziale. E il bello di Gesù-via è che se ci capita di sbagliare strada, riaffidandoci alle indicazioni del Vangelo, come un navigatore satellitare, si può ritrovare quella giusta.
Verità: la verità, nella società, spesso ha molte facce, ma tutte truccate. A Pilato che, cinicamente, durante l’interrogatorio farsa gli aveva chiesto cosa fosse la Verità, Gesù non ha risposto. La domanda era sbagliata: non cosa è la verità, ma chi è la Verità. La verità non è una definizione ma una Persona. E’ Gesù stesso. E a parte appunto Lui e il magistero infallibile della Chiesa, la verità non ha titolari ma solo destinatari.
Vita: la vita non è solo quella biologica, non è solo un susseguirsi ritmato di pulsazioni cardiache, ma è soffio di Dio, entusiasmo del cuore, gioia di donazione, fecondità spirituale, pienezza di amore. Ecco perché solo Gesù è la vita, e quando ci capita di deragliare in certi pericolosi fuoripista facciamo ogni sforzo per rientrare nel suo giro. Altrimenti si vive male, molto male.

E tu, D. Jos, questo lo hai capito molto bene. Con la tua scelta di vita monastica, per 25 anni hai raccordato intorno a Gesù tutta la tua vita trascorsa qui a Monte Oliveto. Hai scoperto che l’anima della vita monastica è l’amore per Gesù. S. Benedetto, nella Regola, continua a ripeterlo. Vieni da una nazione, l’Olanda, che è stata evangelizzata dai benedettini; è stata segnata da santi benedettini, come S. Willibrord e S. Alberto di Egmond. Guarda a loro. Sei un monaco: sii silenzioso testimone del Risorto, evangelizzatore con il tuo impegno dell’Opus Dei e con il buon esempio, in ascolto della Parola e attivo nella comunione fraterna. Non arrenderti alle inevitabili difficoltà di ogni tipo: esse sono il pane nero di quasi tutti gli uomini e noi non possiamo pretendere alleggerimenti doganali per certi bagagli pesanti della nostra vita personale.


Vogliamo quindi adesso esortarti fraternamente a continuare rinnovando la tua professione monastica con l‘entusiasmo e la freschezza del Suscipe da te cantato, proprio in questo spazio, il 14 maggio 1989. Forse una data un po’ lontana ma oggi così vicina per grazia di Dio.

QUARTA DOMENICA DI PASQUA

“Domenica del buon pastore” è il titolo abituale della Quarta Domenica di Pasqua che è anche la giornata di preghiera per le vocazioni sacerdotali e religiose. Forse dovrebbe essere chiamata la domenica delle pecore…

Se l’immagine del pastore è un po’ sbiadita e anacronistica nella nostra cultura tecnologica essa però conserva il genuino fascino di un ricco retroterra biblico che dovremmo riscoprire. Il suo valore sta anche nell’essere una modalità dell’immenso spartito musicale della Pasqua là dove ricorda che il pastore è pronto a dare la vita per le sue pecore. Esattamente come ha fatto Gesù per noi, morendo in croce. Ma nel Vangelo di domani, che inaugura il cap. 10 di Gv ed è ricco di affascinanti similitudini trasmesse con parole semplici, chiare, dirette, insieme con l’immagine del pastore si intreccia quella della porta: “Io sono la porta”. Uitlizza uno degli spazi più comuni e più utilizzati nella vita quotidiana. Pensiamo anche solo a tutte quelle volte che noi, nell’arco di una giornata, passiamo attraverso una porta, aperta o chiusa che sia. La porta separa uno spazio da un altro.  In senso simbolico, tutta la vita è un aprire e chiudersi di porte.
Ma attenzione, non la porta dell’ovile, ma la porta delle pecore.
Ci sono parole semplici come una conchiglia ma dentro c’è tutto il mare se le si ascolta bene.
Gesù è la porta che porta… al Padre. Entrata di salvezza, uscita di sicurezza! Una porta sempre aperta. Alla porta-Gesù pposso bussare a qualsiasi ora del giorno e della notte, in qualsiasi stagione della vita.
Chiama per nome. Cioè da colore alla mia identità, alla mia storia. Sulla bocca del Signore c’è il mio nome proprio, la mia unicità. Mi chiama come solo una mamma può fare.
Le voci alternative a quelle di Gesù risuonano solo per uccidere e rubare,
Importa. A Dio importa ciascuno di noi. Importa, cioè letteralmente sono importante per Lui.

Sembra che voglia entrare più che in punta di piedi in punta di voce. Suona sgrammaticato ma riguardo a Dio, la grammatica si può prendere certe libertà. A quel posto di pastore ci possono essere molti aspiranti, ma ognuno di essi corrisponde a quel ladro di cui parla Gesù: viene solo per rubare ed uccidere. 

TERZA DOMENICA DI PASQUA

Solo alcune sottolineature alla pagina del Vangelo di Emmaus (Lc 24,13-35), senza pretesa di commentarla in modo esaustivo perché è ricchissima di messaggi.
E’ una esclusiva di Luca, un capolavoro di catechesi liturgica e missionaria, oltre che ad essere dotata di bellezza letteraria e teologica. Un succedersi di parole, gesti, sorprese. Tutto per farci comprendere che la Risurrezione va vista con gli occhi della fede che è l’ala dataci da Dio per salire fino a Lui.
Due uomini sul tragitto di pochi km (circa 11) che separa Gerusalemme da Emmaus, la cui ubicazione certa è per ora affidata solo a delle ipotesi. C’è comunque una Emmaus spirituale che tutti ci portiamo dentro.
Due discepoli, uno di nome di Cleopa: abile strategia narrativa di Luca per ancorare alla storia concreta la vicenda che sta narrando e l’altro, invece, senza nome, forse perché ciascuno di noi possa identificarsi in lui e fare la medesima esperienza …
Sono due camminatori ex entusiasti, sconsolati per la vicenda di Gesù finita nel sangue, con tanta tristezza addosso, con il sapore amaro di una sconfitta e del “tutto finito” perché la morte di Gesù era suonata come una campana a morto sulle loro speranze. Il loro cammino è corredato di reciproca lamentazione e di progressivo affossamento. Mal comune difficilmente fa mezzo gaudio. Spesso, fa solo doppia tristezza. Questi due specialisti dello sconforto, Luca li tratteggia con una espressiva pennellata: “il volto triste” (Lc 24,17). Non è un tocco da romanzo. E’ una fotografia. La fotografia nitida anche di noi quando facciamo naufragio nelle nostre delusioni e frustrazioni.
Incontro, domanda e racconto. La Parola e il Pane si fanno strada.
Mentre si stanno sfogando a vicenda, si affianca a loro uno sconosciuto. E’ il Risorto ma non lo riconoscono. Il Signore abita nei nostri passi. Li rallenta al loro ritmo. Non perde mai le nostre tracce. Avvicinarci nell’ora della nostra tristezza è una regola di Dio. A volte facciamo difficoltà a sentirlo presente ma lo possiamo intercettare solo con la fede.  
Di che cosa stavate discutendo lungo la via?” (Lc 24,17). Gesù li ascolta con paziente attesa. Ed essi narrano i momenti tragici della Passione. Penso che non sia mai successo a nessuno di raccontare all’interessato … la sua morte e fargli il resoconto puntiglioso dei suoi funerali! E pronunciano la frase più triste di tutto il Vangelo: “Noi speravamo …” (Lc 24,21)
A volte anche noi coniughiamo esistenzialmente i verbi solo all’imperfetto o al passato e così disseminiamo la nostra strada di pietre tombali e di definitivi “ormai”…
Gesù li rende coscienti che hanno “bucato” il fatto più clamoroso, quello cha cambia tutto: la sua risurrezione! Hanno definito “forestiero”(Lc 24,18) il loro compagno di viaggio, ma in realtà sono proprio loro i “forestieri”, cioè i più lontani dal senso vero della venuta di Gesù, da loro interpretata in termini di potere e di successo. Gesù “parte in quarta” e li inchioda con un rimprovero che ha lo schiocco di una frustata: “stolti e lenti di cuore”. “E cominciando da Mosè …” (Lc 24,27): Gesù improvvisa solo per loro due un minicorso biblico, meglio offre loro una lectio divina lampo! Gesù esegeta, facendo memoria delle mirabilia Dei attualizzandole, li sblocca dal venerdi santo e dal sepolcro vuoto dove si erano fermati, per riorientare la loro lettura degli avvenimenti verso la risurrezione. Ma anche la spiegazione della Scrittura fatta da un catechista d’eccezione come Gesù non è sufficiente ad aprire i loro occhi. E allora termina la liturgia della Parola e si passa a quella eucaristica: “spezzò il pane e lo diede loro”. Un segno che non lascia dubbi. Un tuffo al cuore, lo riconoscono.
La liturgia della strada sfocia in una liturgia della speranza. Erano partiti dalla stazione della tristezza e sono arrivati alla stazione della gioia.

Resta con noi Signore, perché ormai si fa sera”(Lc 24,29). Ripetiamo spesso questa preghiera dei due discepoli di Emmaus.  “Si fa sera …”  E’ sempre “sera”, anzi notte buia, senza di Lui.

SECONDA DOMENICA DI PASQUA

Domani sarà proclamata una pagina di Vangelo (Gv 20, 19-31) che ritorna puntuale ogni seconda domenica di Pasqua e che proprio per questo c’è il rischio che la si ascolti con la mente in stand-by, senza lasciarsi coinvolgere più di tanto. E’ invece una pagina che spalanca il nostro cuore alla gioia di credere, nonostante scottature e cicatrici di ogni tipo.
I discepoli stanno nascosti e blindati nel cenacolo, tappati e tarpati dalla paura (paura dei Giudei ma anche di se stessi, di come avevano abbandonato, tradito, rinnegato), avvolti nella loro incredulità, aggomitolati in una coperta di delusione e di tristezza. Ma le porte sprangate non fermano il Risorto. Il suo amore è più forte delle nostre paure a nastro. Non importa quante colpe, quante cadute, quanti tradimenti abbiamo incolonnato nella nostra vita e forse prosciugato la nostra autostima, Lui c’è! E porta il dono della pace: “Pace a voi!”. Non è un augurio, una promessa, ma una affermazione. Scende su ciascuno di noi stasera come una benedizione che ci da energia vitale e ci spinge ad andare dall’altra parte della paura dove c’è ciò di cui abbiamo paura.
Ma in quella stanza nel mercato di Gerusalemme manca un nome all’appello. E’ quello di Tommaso. Egli non c’era quella sera e, dopo otto giorni, di ritorno al fortino dei discepoli riceve la notizia della visita compiuta da Gesù: “Abbiamo visto il Signore !”(Gv 20,24). Tommaso rimane gelido di fronte alla testimonianza dei suoi compagni. Non si lascia contagiare dall’euforia collettiva degli altri che raccontano una speranza difficile da credere. Si fa ostinatamente esigente nel controllo: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo” (Gv 20,25). La Resurrezione non è una speranza, è una certezza. Sperare è un verbo inquieto che si porta dentro domande. Essere certi invece è fiducia incrollabile, è serenità granitica.
Viene definito “l’incredulo”. Il suo nome è diventato proverbio. Ma in realtà, porta le conseguenze di una fede ferita. Ha ancora stampata negli occhi la drammatica visione del Calvario e di Gesù in croce, barbaramente ucciso. Tommaso stenta a credere. Davvero ci assomiglia e forse non a caso è chiamato Didimo che significa “gemello”. E’ uno come noi che a volte restiamo fermi in un percorso fatto di dubbi e di lentezze. Gesù ritesse la tela e attende Tommaso dopo il suo sbandamento. Per il suo ripasso in esclusiva allo scolaro più difficile adotta la lezione più facile, usando pochi verbi, semplici ma concreti: “guarda-metti-tocca”. Lo invita a toccare le sue ferite, incancellabili come il suo amore, che sono come pozzi di luce: quelle delle mani, quelle dei piedi e quella più marcata sul suo costato, trafitto da una lancia romana. I segni inequivocabili del suo amore. Ma Tommaso non tocca (ormai sarebbe superfluo), rinuncia ad ogni verifica, si arrende e dice la cosa più grande con le parole più semplici: “Mio Signore, mio Dio” (Gv 20,28). Una professione di fede, profonda e limpida che lo inchioda in ginocchio cadendo dal piedistallo della sua incredulità. Sono attimi intensi per Tommaso, la verità gli scoppia dentro:“Mio Signore, mio Dio”. Poche sillabe, ma condensano tutto l’alfabeto dell’amore di Tommaso per Gesù. Dovremmo fare nostre quelle sue parole. Ripeterle spesso, come una giaculatoria.

Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto” (Gv 20,29). A noi cristiani dei secoli futuri, Gesù lancia questa lode che equivale ad un biglietto-omaggio per il Paradiso. Una beatitudine, l’ultima del Vangelo e non pronunciata sul Monte insieme alle altre. Essa è indirizzata a noi che in quel momento non c’eravamo. “Beati…”: una beatitudine che deve avere i nostri nomi.