martedì 2 settembre 2014

21 Domenica del Tempo Ordinario (A)

Il Vangelo di questa domenica - Mt 16,13-20 - segna una sterzata decisiva  dell’intero racconto matteano. Con voi, soltanto una breve sottolineatura che si limita ai primi quattro versetti che sfociano nella solare e solenne professione di fede di Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” che trasformano quell’angolo di Cesarea di Filippo a nord della Galilea, nel luogo del primo “conclave” della storia: “…tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa…a te darò le chiavi…ciò che legherai…ciò che scioglierai”.
I discepoli seguono Gesù incantati dalla sua parola così diversa da quella degli altri rabbì, i suoi miracoli lasciano tutti a bocca aperta, la sua attenzione agli ultimi della società capovolge schemi mentali e religiosi. Ma ora, Gesù, inizia a girare le carte in tavola, vuole fare il punto della situazione con i suoi discepoli. E con noi. Ed ecco allora la pungente domanda: “La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?”. Gesù non sta attraversando una crisi di identità, non vuole informazioni circa il gossip che circola su di lui ma vuole pennellare in chi lo ascolta un’intuizione vitale. Tutti in fila, i suoi discepoli, gli rispondono le cose più scontate: “Alcuni Giovanni Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti”. La risposta che daremmo forse anche noi, secondo il catechismo e la teologia.
Gesù allora fa alzare in volo una seconda domanda, preceduta da un “ma” che vuole ascoltare solo una risposta che interpella personalmente: “Ma voi chi dite che io sia?”. La domanda, così incalzante e coinvolgente di Gesù arriva stasera anche per ciascuno di noi: “Io chi sono per te?”. Una domanda secca, asciutta e forse un po’ birichina, che ci mette al muro. Cristo non è ciò che io dico di Lui, ma ciò che io vivo di Lui. Nella grammatica cristiana il verbo credere non regge il complemento oggetto: “credo Gesù Cristo”. Il monaco (ma anche ogni cristiano impegnato) si autodefinisce dall’espressione: “credo in Gesù Cristo”. Ad una domanda inquietante, una risposta di fede.

“In”, cioè innestato in Lui, come tralcio nella vite. Vivere di Lui. Vivere con Lui. Non poter fare a meno di Lui. Non avendo niente di più caro e nulla anteponendo al suo amore, come ci ricorda la Regola nel cui orizzonte è presente tutta una dinamica esperienziale che ruota intorno all’umiltà e all’obbedienza, due virtù proprie di Cristo umile e obbediente usque ad crucem. Fare di Cristo il cuore pulsante della nostra vita monastica. Respirare Cristo.

“Chi sono io per te?”. Domanda da amare. Domanda da sentirsi ripetere ogni giorno.

SOLENNITA’ DELL’ASSUNZIONE DELLA B.V. MARIA

Sull’uscio della casa di Elisabetta … è anche qui che sembra trattenerci la solennità dell’Assunta. Da quel punto prospettico scopriamo cosa e come guarda Dio. Dio guarda soprattutto l’umiltà di Maria, facendo lampeggiare non i grandi fatti ma l’elogio della piccolezza. Umiltà: cioè il giusto e sano riconoscere quello che si è, con luci e ombre. Essa parte da una verità: io sono unico ma non l’unico. Se la superbia è la madre dell’ipocrisia, l’umiltà lo è della serenità che ci fa vivere gioiosi di quello che si è e che si ha. Su quell’uscio Maria, maestra di stupore, con il Magnificat che è un mosaico di testi biblici si autoproclama felice e ci sgrana una serie di verbi in chiaro-scuro riferiti a Dio con i quali riassume la Storia della Salvezza: ha guardato, ha fatto, ha spiegato, ha disperso, ha rovesciato, ha innalzato, ha ricolmato, ha rimandato, ha soccorso, si è ricordato … Una serie di verbi incalzanti tra i quali troviamo certamente quelli che ci ricordano quanto la mano di Dio ha fatto e fa anche nella nostra vita. Cerchiamo di non essere degli inguaribili distratti.
Questa solennità inoltre, a noi che, per tanti motivi, nel viaggio della vita siamo così schiacciati sul presente è una boccata di ossigeno che ci spalanca un orizzonte splendido, quello vero e che ci attende. Maria assunta in cielo e, prima di lei, Gesù Risorto, sono la certezza assoluta della fede che la nostra vita, anche quella corporea, è destinata ad una felicità eterna. “Credo nella risurrezione della carne”, affermiamo nella professione di fede: l’anima non può rimanere da sola, ha bisogno del suo compagno di viaggio, il corpo che così partecipa all’eternità. Siamo figli fatti per il cielo, come Maria nostra Madre. Lei aspetta tutti noi per l’abbraccio con Dio. Vedere la nostra vita dalla postazione dell’eternità le conferisce luce, leggerezza, la riconduce all’essenziale, le imprime orientamenti precisi e positivi.
Ognuno di noi è un sogno digitato dal e nel cuore di Dio e perciò porta in se incorporato il cielo. Dove la natura scrive morte la fede legge pasqua. C’è questa comunione fortissima tra noi e i nostri cari che ci hanno solo apparentemente lasciato: in questi casi il cuore non è dove batte ma dove ama. Riceviamo perciò anche un’iniezione di coraggio di fronte a tante prove e dispiaceri che a volte assumono dolorose dimensioni.  Ma anche la nuvola più scura ha sempre un lato verso il sole.
Però leggere il significato di questa festa come uno sguardo verso il cielo, al futuro che ci attende, non ci deve far dimenticare l’ineludibile impegno qui, sulla terra, ad essere cristiani coerenti e gioiosi di manifestarlo. Andiamo a scuola da Maria che ci insegna ad intrecciare la fede con la quotidianità, che ci consegna l’alfabeto della vita che noi possiamo individuare ed esplorare in molte delle litanie a lei dirette: amore, fedeltà, preghiera, tenerezza, misericordia, gioia, consolazione.

Così sia e così speriamo.                

Omelia per il funerale della nonna di D. Tommaso

In occasioni come questa forse sarebbe meglio il silenzio. Ogni parola oltre a perdere contenuto e significato, rischia di essere di troppo. Sì, forse sarebbe meglio il silenzio in questi momenti in cui la nonna Gina sembra prendervi per mano e portarvi sulla sponda dell’invisibile dove lei si trova da domenica pomeriggio. Non ci sono parole umane di consolazione ma ci sono quelle della nostra fede, altrimenti è come vivere con un orologio senza lancette. E’ come girare a vuoto senza trovare la giusta direzione. La freccia segnaletica per noi è la parola di Gesù Risorto che abbiamo appena ascoltata nel Vangelo: “Chi crede in me, anche se morto vivrà”. Anche se morto… Una speranza che è una certezza che si identifica con l’amore fedelissimo di Dio per ognuno di noi. Un amore, il suo, in grado di compiere quello che tutti noi desideriamo: far vivere per sempre le persone, come nonna Gina, cui vogliamo bene. Per questo, se ci pensiamo bene, a proposito dei nostri defunti non dovremmo mai usare l’imperfetto “era..…” ma il presente “è”! Per un cristiano, in realtà, la morte non esiste perché appena chiudo gli occhi a questa vita, li apro all’infinito di Dio. La morte è una porta buia ma per chi crede è una porta che da su un mondo di luce. Una porta aperta da Maria, guardiana della nostra ultima ora. Lei è stata vicina all’ultimo respiro del Figlio in croce e lo sarà anche accanto al nostro.
Ecco perché se è vero che la fede non toglie il dolore però è anche altrettanto vero che abilita chi soffre a vivere la morte della persona cara con atteggiamento e prospettive diverse. La sofferenza assume i lineamenti timidi ma forti della serenità interiore. C’è poi il gran mezzo della preghiera, come il Rosario, e ancor più, la partecipazione alla Messa che ci mettono in forte comunione con quei nostri cari che si sono trasferiti presso Dio ma che continuano ad abitare con noi. E’ vicina a te D. Tommaso che gli sei
sempre stato tanto affezionato; da bambino andavi con lei e con l’altra nonna al Santuario della Madonna di Pradella e di quello del B. Innocenzo


da Berzo. Lei ha sempre visto bene la tua scelta di vita consacrata e ora che è così vicina Dio sarà per te un sostegno spirituale.
Sicuramente in queste ore la vostra mente è affollata di ricordi e di gesti di Gina che come tante altre persone vi ha lasciato degli insegnamenti, più con l’esempio che con le parole, ancorati a valori umani e religiosi. Il modo più bello di ricordarla è l’impegno a farli vostri. La vita di persone come Gina è stata come un’omelia muta che parla al cuore.

Gina, siatene sicuri, come tutti i nostri cari defunti si trova nell’abbraccio inesprimibile e splendido di Dio: senta anche il vostro, forte forte… 

DOMENICA 15° DEL TEMPO ORDINARIO (A) PROFESSIONE TEMPORANEA DI D. CELESTINO.

Ecco…”. Con un “ecco” che cade tra la gente assiepata sulla spiaggia, Gesù dall’insolito e precario pulpito di una barca, propone la prima di una serie di sette parabole, cioè di originali ed efficaci “audiovisivi”, attinti dalla concreta esperienza del quotidiano, dalla natura, per trasmetterci un messaggio, con un linguaggio che contiene di più di quel che dice. A quella di oggi, che qualcuno definisce come la madre di tutte le parabole, l’interpretazione la dà lo stesso Gesù, segno che si tratta di qualcosa di  molto importante. Non si tratta di un contadino incapace o di un seme di qualità scadente. Il problema è il terreno. Stesso seme ma non stessi terreni. Dobbiamo ricordarci che la terra di Gesù, ancora oggi, non è come la grande e bella pianura padana ma spesso si presenta tagliata da nastri di strada o sassosa o con striminzite macchie di rovi e arbusti. Strada-sassi-spine sono le tre esse della parabola. Sono proprio i primi tre terreni in cui il seme gettato fallisce perché essi mancano della necessaria fertilità.

Carissimo D. Celestino, quando diverso tempo la mano del Signore si è aperta su di per gettarvi seme della sua Parola è iniziata a fiorire una nuova stagione nella tua vita. Non ti sei accontentato del trenta e nemmeno del sessanta ma, avendo essa disegnata sul terreno del tuo cuore la parola “vocazione monastica”, hai puntato al cento. Hai avvertito dentro di te una certa insoddisfazione verso tante realtà che, per quanto belle e oneste, sentivi che non ti bastavano più. Hai voluto evitarti una forma di anoressia esistenziale. Una lista di voli raso-terra.
Dopo aver maturato la tua scelta di consacrazione, sostenuto dai tuoi famigliari che ancora saluto e ringrazio, aiutato nel discernimento dal tuo padre spirituale, per una serie di circostanze provvidenziali, tramite il comune amico Claudio che è qui presente, sei giunto in “questa scuola del servizio divino” che è Monte Oliveto. Hai iniziato il tuo percorso formativo, in Noviziato ti è stata spiegata e approfondita la Regola che oggi intendi professare, ed eccoti adesso alla impegnativa tappa della professione temporanea che tale, “temporanea”, lo è solo perché lo chiede la prudenza della Chiesa. In realtà, l’offerta di te stesso a Dio deve essere già da adesso totale … infatti non ci si può donare a Dio a col contagocce! Per il Signore: tutto e subito!
Non c’è amore senza una promessa, non c’è promessa senza esserci incorporato un “per sempre”, non c’è un “per sempre” se non lo si vuole sino alla fine, sino e oltre la morte. Oggi tu ufficializzi quello che che è il servizio più grande che puoi fare alla Chiesa e alla società: essere monaco … con la scelta dell’obbedienza e della conversione del tuo cuore che comprende i voti di castità e di povertà. E non per realizzare una santità di “serie A” perché tutti i battezzati sono chiamati alla santità, ma perché trovi la tua felicità nel fare la volontà di Dio, essere una piccola icona del Fiat di Maria.

Dio, come quel seminatore, sperpera fino allo spreco. Ha proprio le mani bucate: bucate dai chiodi sul legno della Croce, il più clamoroso degli sprechi di Dio per noi tutti. Ed ecco perché ti invito a guardare spesso nostro Fondatore, San Bernardo Tolomei, ritratto mentre contempla il Crocifisso che è “il come” dell’amore. D. Celestino, lascia che Cristo ami in te. Se saprai fare spazio nella tua vita monastica al suo amore, allora amerai come Lui. Come insiste San Benedetto a più riprese nella Regola, che hai letto e studiato durante il Noviziato, fai di Gesù il tuo “tutto”.

Nella vita di S. Teresa d’Avila si narra che un giorno, sulla scala del noviziato del suo Carmelo abbia incontrato un bambino che le chiese il suo nome. “Sono Teresa di Gesù”, rispose la Santa, che subito aggiunse e tu, bambino, come ti chiami?”. “Gesù di Teresa”, fu la risposta.  Dunque, per te: Celestino di Gesù e Gesù di Celestino.

SOLENNITA’ DEI SANTI PIETRO E PAOLO

Soltanto Lui, il Cristo, poteva metterli insieme. Pietro e Paolo: così diversi. Pietro e Paolo…  due percorsi di vita annodati dallo stesso legame: Cristo.
Pietro: l’ex-pescatore di Cafarnao, uomo semplice e rozzo, entusiasta e irruente, generoso e fragile. Unico per quella sua solare professione di fede che è un resumé di teologia allo stato puro: “Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio” (Mt 16,16).  Proprio lui è scelto per essere il primo. Proprio lui con le mani callose della pesca (ma le mani sporche di lavoro profumano di dignità) e la mente certo a digiuno delle profezie, delle discussioni dotte degli scribi, è scelto per essere il primo tra gli Apostoli. Proprio lui che piange le lacrime amare del rinnegamento e sente bruciare forte la ferita del tradimento. Come i cristiani di ogni epoca, anche noi siamo pietre su Pietro…e così viene su la grande Chiesa.
Paolo: l’intellettuale raffinato e polemico, lo zelante e fanatico persecutore. Sappiamo tutti che non fu discepolo diretto di Gesù, ma che il via alla sua azione instancabile e vulcanica fu il famoso incontro, rocambolesco e decisivo, con il Risorto sulla strada di Damasco. Nelle sue Lettere gustiamo il fascino e la bellezza di una vita completamente orientata a Cristo.
Chiavi e passi. Chiavi: Pietro. Passi: Paolo.
Guardando a loro, ma visti come Simone e Saulo, possiamo dedurre che Dio non guarda i meriti perché il suo amore non si merita ma lo si accoglie e condivide. Quando Dio chiama qualcuno a seguirlo più da vicino, può riciclare in positivo i suoi limiti,  le sue fragilità e miserie. L’impulsiva testardaggine di Simone si trasforma in roccia su cui costruire la Chiesa, la intransigente passionalità di Saulo si trasforma in ardore missionario. Qualcosa di simile può accadere anche a noi, ma la premessa necessaria, la conditio sine qua non, è consegnare senza riserve la nostra vita a Cristo. Senza che ci sia un altro “tu” in concorrenza. Come a Simone anche a noi cambia il nome, cioè sostituisce chi siamo con chi potremmo essere se lo seguiamo e pratichiamo la sua Parola.

Ma adesso riascoltiamo quella inquietante domanda che Gesù pone nel Vangelo prima proclamato, però restringendola dal plurale al singolare: “Chi sono io per te?”. E’ vero che “Solo buone domande meritano buone risposte”(Oscar Wilde), ma quella di Gesù non è solo una “buona domanda”, essa è la domanda delle domande. Una domanda che ci mette al muro. Dobbiamo dare la nostra risposta personale. La nostra risposta, come quella data da Pietro, dovrebbe pennellare il rapporto che abbiamo con Gesù. Riguarda il “come” e il “quanto” collochiamo la sua presenza nelle nostre 24 ore. Cristo non è tanto ciò che dico di Lui, ma ciò che vivo di Lui. “Chi sono io per te?”. Domanda da amare e da porsi ogni giorno.

SACRO CUORE DI GESU’ (A)

Quante perle in poche parole! Gesù capovolge le regole del gioco.
Gesù sembra snobbare coloro che possono esibire eccellenti pagelle scolastiche o di altro tipo, non gli interessano i primi della classe nella vita, quelli che sono superbamente ingolfati in se stessi, nella propria bravura in tante cose, quelli che si sentono a posto. Lui non è per i saccenti e i presuntuosi, quelli che sono preceduti da prefissi come super, iper o méga. Lui si dona ai piccoli che non sono soltanto i bambini, i poveri o gli ultimi della società ma, stando al termine greco tradotto con “piccoli”, anche alle persone con alcune contraddizioni, immature, incerte, zoppicanti, ansiose, che non hanno paura di ammettere le loro debolezze. Agli umili, ai disarmati.
Gesù chiama tutti questi tipi di persone ad ormeggiare nel suo cuore per fare esperienza della sua dolcezza, per ritrovare nuove energie, nuovi impulsi, per ricaricare energie indebolite. Ci chiede di non rimanere schiacciati dal male che facciamo, ci risolleva dai nostri errori e ci dice di ripartire, di avere fiducia nel suo amore che respira alle nostre spalle.
C’è poi un verbo che caratterizza lo stare con Gesù: “imparare”. E Gesù stesso dice da chi e che cosa. Da Lui. La mitezza e l’umiltà. Non le possiamo imparare da altri maestri. Sono due materie talmente importanti alla scuola del Vangelo che Gesù chiede di impararle da Lui.

Gesù ci ha mostrato la misura (la dismisura!) del suo amore morendo in croce per noi. Lasciamoci allora raggiungere dal suo amore che non pone condizioni, che non pesa, che non ricatta, che non fa star male, che non ci avvita in piccinerie mentali: un amore libero che solo Lui sa proporre.

CORPUS DOMINI (A)

Lo ha voluto Lui. Con un gesto libero, disarmante, originalissimo. Da Dio.  Lo ha voluto Lui nell’ultima Cena, dopo quel chiodo di tenerezza che è la lavanda dei piedi. Ultima Cena, nella quale ha le radici la solennità che stiamo celebrando, anche se liturgicamente ha avuto origine in un altro contesto storico: “Prendete e mangiate”-“Prendete e bevete”. Gesù decide di rispondere al suo desiderio di stare sempre con noi rimanendoci nel segno umile, semplice, fragile, quotidiano di un pezzetto di pane e di un po’ di vino.
Un pane come pro-memoria del suo amore. L’emozione di un Dio che mi raggiunge come sono: sporco o splendido e fa di me il suo tabernacolo che cammina. Ciascuno di noi è il tabernacolo che preferisce.
Ad ogni Eucarestia è Dio che ci cerca e ci chiama: “Beati gli invitati alla cena del Signore …”. La piccola ostia che sa di niente e che S. Teresina chiamava “cielo che sei mio” ci fa affacciare sull’immensità di Dio. In noi si deposita l’orma lieve di Dio, lieve come l’ostia. Si immerge nel nostro cuore per organizzare l’amore.
La festa del Corpo di Cristo, offerto come pane, ci ricorda che solo il dono di sé da senso alla vita, è l’unica strada per la vera felicità. L’Eucarestia educa al servizio, non ci lascia in un’ovattata sonnolenza. L’Eucarestia ricevuta ci compromette perché ci impegna ad una vita non troppo dissimile da quella di Gesù. Ci insegna l’arte del servizio. “Fate questo in memoria di me” significa di certo: “celebrate questo rito per rendermi realmente presente”, quindi non un semplice ricordo emotivo della sua Pasqua, ma significa anche: fatevi voi pane e vino per i vostri fratelli. Come voi ricevete me nell’Eucarestia, così gli altri devono ricevere voi nella loro vita. Chi non vive eucaristicamente vive egoisticamente.

E vivere così, di giorno in giorno, fino all’ultimo, quando il nostro morire sarà passare nella sua Pasqua, e l’ultima Eucarestia sarà il “viatico”, cioè l’unico e bellissimo ricordo che ci porteremo via da questa terra,  per andare là dove si ama senza fine.