domenica 31 marzo 2013

PASQUA

La grande sorpresa di Dio!
L’immagine è lì, chiara, nitida. Nessuno può resettarla. Un sepolcro vuoto. Dentro non ci sono le spoglie del morto ma le spoglie della morte. I rintocchi di morte si sono trasformati in semi di vita.
Quella tomba vuota ci regala la certezza che la nostra morte fisica è solo il penultimo atto della nostra vita. Quella tomba vuota ci dona la gioia di non trovare più il nostro passato. Quella tomba vuota libera la sinfonia della speranza per le nostre croci all’ingrosso o al dettaglio. Chi non oltrepassa quella tomba vuota non può approdare che a traguardi di disperazione.
Quella tomba vuota è la prima di una moltitudine infinita. I riflessi del Risorto ci avvolgono, noi ne siamo le icone contemporanee, perché l’evento della Risurrezione non riguarda solo Cristo ma investe tutti noi.
Il Vangelo, nelle sue ultime parole, parla di un discepolo che guardando il sepolcro “vide e credette” (Gv 20,8). Un discepolo senza nome. Possiamo cogliervi un messaggio. Non ha un nome perché ha i nostri nomi; si chiama come me e come voi. Ha il nome di ciascuno di noi.
A proposito di nome. Martedi prossimo, durante l’Otttava di Pasqua, alla Messa del giorno, sarà proclamato come Vangelo il passo che segue subito quello di oggi. Si tratta sempre delle apparizioni del Risorto. E, quel grappolo di versette, ci presenta Maria di Magdala che sta fuori del sepolcro di Gesù e piange. Per quattro volte viene ribadito che sta piangendo. Non si piange così per la perdita di una persona che non è un familiare. Si piange così solo perché ci viene strappato il cuore, qualcosa di se stessi. Il pianto dice che solo con il cuore si vede bene. E’ il collirio giusto. E lì, nel giardino, risuona il suo nome: “Maria!”. E’ inconfondibile la voce di Gesù. E’ inconfondibile solo chi ci tocca il cuore ma non per rapporti che poi risultano veleni e ci intossicano dentro. E’ inconfondibile chi ci tocca il cuore ma per rapporti che ci danno gioia e vita, ci fanno crescere spiritualmente Sono molti quelli che ci conoscono e ci chiamano per il nostro nome, ma pochi lo pronunciano con amore. Gesù, come per Maria di Magdala, lo fa continuamente verso ciascuno di noi, per essere cielo del nostro cielo.
Buona Pasqua a tutti!

sabato 30 marzo 2013

Sabato Santo (capitolo Lodi)

Sabato Santo. Dio sembra scomparso dall’orizzonte. Dio sembra assente. Sembra un giorno zero per l’umanità. Sembra un giorno sospeso nel vuoto, perché Gesù è scomparso dalla scena della storia. E’ il Deus absconditus che si cela anche in quei piccoli o grandi drammi che, ad intermittenza o in modo continuato, albergano nel nostro cuore. La bellezza di Dio si nasconde, come affermano alcuni teologi, sub contraria specie, cioè nel suo opposto: approda nel pianeta sofferenza, dalle mille e talvolta tragiche espressioni.
Giorno dell’apparente silenzio di Dio. Oggi il silenzio è abitato dalla Vita che dorme. Il chicco di grano è sottoterra e tra pochissimo sboccerà splendido!
Il Cristo, nel sepolcro, è come il sole nel suo viaggio notturno. Attraversa la notte. Nascosto. C’è anche se non lo vediamo. Occorre attendere l’alba per contemplarlo, sfolgorante nella sua Risurrezione.
Silenzio: oggi la parola tace. Anche la Liturgia (eccetto quella delle Ore) tace nell’attesa della sconvolgente notizia della Risurrezione di Gesù. Essendo un giorno aliturgico, non c’è l’eucarestia. E allora il silenzio di queste ore assume un valore quasi “sacramentale” per farci sentire di meno l’assenza del Cristo.
Queste ore - fino alla Veglia - sono ore in cui si accendono le luci della speranza. Facciamoci discepoli di questo tempo di attesa.

VEGLIA DI PASQUA

Il grande viaggio quaresimale si conclude in questa notte, illuminata dalla luna nuova di primavera. La solenne veglia pasquale è la madre di tutte le veglie, veglia delle meraviglie di Dio dove si è dispiegata una immensa ricchezza celebrativa e simbolica: fuoco, luce, acqua. E’ stato un po’ come ripercorrere il cammino della storia della salvezza per giungere a contemplare il volto del Cristo Risorto ed essere avvolti e travolti dalla luce. E’ come se Dio ricreasse il mondo. La Risurrezione di Cristo è vita nuova.
Questa nostra celebrazione è iniziata alle porte della chiesa, quasi a volere imitare le donne di cui parla il Vangelo. Il loro cuore era profondamente triste. Una pietra pesante, pesante come la morte stava lì a separarle da quel maestro, da quell’amico che le aveva capite e aveva dato senso alla loro vita. Tutto sembrava finito. E invece, no. Si sentono dire: “Non è qui, è risorto”. Esse ne fanno un annuncio che comincia la sua corsa attraverso la storia e che raggiunge anche noi oggi, nel 2013.
“Non è qui, è risorto”(Lc 20,6), ci ha annunciato Luca, concorde con gli evangelisti Matteo e Marco. Per raccontare la Risurrezione di Gesù, usano i due verbi che noi coniughiamo la mattina: svegliarsi ed alzarsi. Come se i nostri giorni fossero impegnati ad una risurrezione quotidiana.
Talvolta può sembrare che il buio di certe situazioni, il gelo della violenza, la tristezza, l’odio, l’egoismo siano i padrini e i padroni della nostra vita. La Risurrezione di Cristo ci dice che non è così. Il canto dell’alleluja riesce e riuscirà sempre a coprire ogni grido di male.

venerdì 29 marzo 2013

Venerdì Santo (capitolo Lodi)

Il Venerdì Santo non è considerato dalla Liturgia un giorno di lutto e di pianto, anche se queste componenti sono presenti, ma un giorno di contemplazione del sacrificio di Gesù, per Crucem, per la Croce che oggi da velata sarà mostrata e adorata.
L’amore ha scritto la sua storia sul corpo di Gesù con l’alfabeto delle ferite che rivelano un cuore aperto in cui dimorare. Quando la bocca di Gesù viene chiusa dalla morte è il suo costato a divenire bocca aperta. A “parlarci”. Amore incancellabile e per questo, ferite incancellabili. In esse approdano tutte le nostre sofferenze che sul corpo di Cristo assumono un valore infinito - un capitale inesauribile di grazia salvifica - e aprono il cuore alla speranza.
Questo ci fa capire che anche il nostro cuore ferito, con le sue cicatrici può diventare capace di amore e di guarigione sugli altri. Proprio attraverso queste nostre ferite che ci paiono (e sono!) colpi duri, insensati, tremendi ricevuti da persone o da fatti e situazioni, proprio per quelle ferite, noi diventiamo capaci di aiutare gli altri attraverso le stesse tempeste.
Benedetta sia la Croce di Cristo!

giovedì 28 marzo 2013

Giovedì Santo (capitolo Lodi)

In profonda ma soprattutto orante sintonia con tutta la Chiesa, stasera inizieremo il cammino del Triduo Pasquale, del quale la Messa in Coena Domini che ritualizza la Pasqua, ne è come l’introduzione. Queste ore che la precedono sono ancora, liturgicamente, tempo di Quaresima. Il Triduo Pasquale terminerà la sera di Pasqua con i Vespri solenni. Tre giorni speciali per vivere in modo speciale tutto l’anno liturgico, del quale la Pasqua è fonte e centro. Essa polarizza in sé tuti gli altri giorni. E noi, penso, la Pasqua la stiamo aspettando secondo l’indicazione che cogliamo nel cap. 49 della Regola: “cum spiritalis desiderii gaudio” – “con la gioia del desiderio suscitato dallo Spirito”.
Il Giovedì Santo costituisce un grande portale d’ingresso al Triduo Pasquale della morte, sepoltura e risurrezione del Signore. Celebrando stasera, alla Messa in coena Domini, il memoriale dei due gesti che Gesù pone all’inizio della sua Passione - la consegna del pane e del vino secondo la tradizione sinottica e la lavanda dei piedi secondo la tradizione giovannea - la liturgia ci introdurrà nell’atteggiamento stesso con cui Gesù è andato incontro alla sua morte, dandole un senso diverso.
Stasera, raccoglieremo la provocazione di Gesù: “Fate questo in memoria di me”. E’ una consegna da riattualizzare non solo sacramentalmente ma anche esistenzialmente, perché l’eucarestia è una scuola di fraternità e ci chiama ad avere un cuore vulnerabile e non rattrappito.
Così pure, la lavanda dei piedi, con la quale Gesù capovolge la scala di valori del mondo invitandoci a portare sempre addosso il grembiule del servizio. E, su questo punto, la nostra meditazione e il nostro impegno devono rimanere aperti non solo oggi, ma tutto l’anno.

GIOVEDI SANTO

Tra poco ci sarà la lavanda dei piedi. Un gesto non folcloristico o teatrale ma un gesto che ci trasmette il senso della nostra vita. Lasciamoci vincere da questo gesto, lasciamoci trasformare da questo gesto, lasciamoci cullare da questo gesto, lasciamoci contagiare da questo gesto. Sì, il gesto della lavanda dei piedi ci consegna l’arte del servizio. Il messaggio di Gesù è di tagliente chiarezza: “Come ho fatto io, così fate anche voi” (Gv 13,14). Amare servendo e servire amando. Meglio ancora, capire che amare è servire. E’ il testamento di Gesù. Tutto era pronto. Anche Giuda era pronto e il bacio saliva sulle sue labbra. Il bacio che, nei secoli fino ad oggi, si è perpetuato come sigillo di ogni umano tradimento. “Non fate questo”. In memoria di Giuda, potremmo dire!
Ma questa sera - con un grembiule, una brocca e dell’acqua che tintinna -anche i nostri piedi, sono nelle mani di Gesù per una liturgia della tenerezza. Così come sono, senza prelavaggi. Prendendo tra le sue mani i piedi di ciascuno di noi, pensa a tutti i nostri passi sbagliati, alle nostre fughe da Lui. Ma non gli fanno problema le nostre debolezze, le nostre fragilità. Gesù ci spoglia di tutte le nostre difese e di tutte le nostre maschere. Davanti a Lui possiamo-dobbiamo lasciare i nostri travestimenti.
Non alza la testa sopra le caviglie, non fa distinzioni tra buoni e cattivi. Lava i piedi a tutti. Strofina i piedi a Pietro, proprio quei piedi che lo avrebbero portato lontano da Lui nel tradimento; prende nelle sue mani quelli di Giovanni, il giovane innocente ed ingenuo che avrebbe preso il suo posto accanto a Maria. Lava i piedi anche a Giuda che, presto avrebbero oscillato nel vuoto, nella morsa tragica e disperata del suicidio.
Non è facile capire un Dio così. Un Dio che si mette in ginocchio per dimostrarci il suo amore. Non è solo un esempio di umiltà, è amore allo stato puro!
C’eravamo anche noi. C’eravamo anche noi, a quella cena di amore e di tradimenti, noi con le nostre luci e le nostre ombre, i nostri slanci di conversione e i rimorsi dei nostri peccati. I rimorsi, sia detto non tra parentesi, sono sterili. Quando perdona, Dio li cancella dalla sua memoria. Perché non dovremmo farlo anche noi? Con il suo perdono, il Signore ricicla le nostre colpe, i nostri scarabocchi esistenziali in benedizione per il presente e per il futuro. Non lasciamoci inseguire dal passato negativo.
Ma,a pensarci bene, prima di quello di Giuda c’è stato un altro “tradimento”: quello di Gesù! Egli “tradisce” se stesso, nel senso che si dichiara, si rivela nel suo amore per noi con il dono della sua Presenza, l’Eucarestia, istituita nello stesso contesto della lavanda dei piedi, come ci ha ricordato la seconda lettura: “Fate questo in memoria di me”. Gesù, pane per tutti. L’Eucarestia: l’emozione di un Dio che ti raggiunge come sei. Un abbraccio che ti fa ripartire. Pane spezzato-sangue versato: pro vobis … per voi. “Per voi” (1Cor 11,24): due paroline che dicono il senso di tutto. Tutto il progetto salvifico di Dio, la creazione, l’incarnazione-passione-morte- risurrezione, cieli nuovi e terra nuova … per voi! Queste due paroline, leggere come un soffio, sono il sigillo posto su ogni pagina della Bibbia, su ogni pagina della nostra vita, anche quella più incomprensibile e oscura. “Per voi”.

domenica 24 marzo 2013

DOMENICA DELLE PALME

La Domenica delle Palme è la porta che ci apre la Settimana Santa, gioiello dell’anno liturgico, la Grande Settimana che fa eco ai sette giorni della creazione. Il tempo dell’uomo è sconvolto, nasce l’ottavo giorno: quello del Risorto.
Una settimana che è “la” settimana, cioè il centro e l’apice della nostra vita spirituale; è una miniera dalla quali non si finisce mai di estrarre i tesori spirituali nascosti nelle pieghe delle sue ore e delle varie celebrazioni liturgiche, ricche di pathos, che affiorano a cascata soprattutto nel Sacro Triduo. Sono i giorni del nostro destino.
Settimana chiamata “santa” per gli eventi che propone e riattualizza, eventi decisivi per la storia di Dio con gli uomini, ricevendo un forte invito a riflettere più che mai sul secondo - il primo è quello dell’Unità e Trinità di Dio - dei due misteri principali della nostra fede: Incarnazione, Passione, Morte e Risurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo. Avremo a disposizione, tra emozioni forti e incalzanti, abbondanza di testi e di gesti. Il tornare, ogni anno, a considerare la morte e risurrezione di Gesù è tornare sempre alle nostre radici; non è e non può essere una fiction, una commedia, ma è scovare e scavare ragioni di fede. Questi giorni sono per noi una scuola di vita, che non può omettere la lezione fondamentale sul mistero della sofferenza e della morte.
Nella Settimana Santa è come se facessimo una specie di corso-base di cristianesimo, che poi riprenderemo giorno per giorno fino a quando arriverà la nostra ora nona, e potremo anche noi ascoltare la voce di Gesù: “Oggi sarai con me in Paradiso” (Lc 22,43). Da allora, ogni morte, non sarà che una porta spalancata sul “paradiso”.
Domani, ascoltando il racconto della Passione secondo la redazione di Luca, scorreranno rapidamente dinanzi ai nostri occhi le sequenze drammatiche dei fotogrammi finali della vita di Gesù, dove già filtra la luce della risurrezione. Non ascolteremo un semplice reportage anche se avvincente, non è un thriller, ma un annuncio carico di fede. Il racconto del dolore di Dio. Saremo intercettati da un alternanza di baci e di sputi, di sguardi d’amore e di tradimento, di mani che spezzano il pane e di altre che contano monete, di occhi che piangono e di altri che organizzano i riti della crocifissione. La Passione-Morte-Risurrezione di Gesù rappresentano un “qui e ora” per ciascuno di noi. Non è un ricordo una tantum. Ogni nostra celebrazione eucaristica riattualizza e rivive quegli avvenimenti. La Passione accade per noi, oggi.
La liturgia di domani, prevede che in certi casi si possa adottare la forma breve. Viene da pensare che invece, come documenta l’esperienza, la passione, ogni passione - fisica o spirituale - è sempre in forma lunga. A volte dura tutta la vita. La Passione di Cristo, infatti, non si è ancora conclusa. Continua e si prolunga in tante persone e in tanti luoghi, come certi reparti degli ospedali. Non ci può dunque essere, in un certo senso, la forma breve della Passione perché essa assume un’ampiezza spropositata e variegata.
Da domani, associamo il nostro sguardo con quello di Maria che è arrossato dal pianto per un dolore indicibile. Quando il venerdì cantiamo lo Stabat Mater, il suo struggente lirismo ci fa provare qualcosa dell’intensa anche se serena sofferenza di Maria. Lo Stabat Mater apre la strada all’alleluja!

giovedì 21 marzo 2013

FESTA DEL TRANSITO DI SAN BENEDETTO

Il giorno che inaugura l’avvio della Primavera, la liturgia ci offre la figura del N. S. P. Benedetto nel ricordo del suo transito. Il Santo di Norcia è un dono che Dio ha fatto alla Chiesa di tutti i tempi, in particolare attraverso la sua Regola che ha 15 secoli ma non li dimostra, perché quanto vi leggiamo è sempre attuale, così come è sempre attuale il Vangelo che ne innerva i 73 capitoli. Così come è sempre attuale il Cristo, intorno al quale il monaco raccorda la sua vita e ogni scelta. La Regola, tutta cristocentrica, all’insegna della discrezione, con il suo stile sobrio ed essenziale è il ritratto di S. Benedetto, specialmente il Prologo.
S. Benedetto è un’affascinante figura di uomo “biblico” per la sua somiglianza ad Abramo e a Mosè. Come Abramo all’inizio, come Mosè alla fine. Come Abramo anch’egli ha lasciato la sua terra, dapprima Norcia e poi Roma, per cercare veramente Dio. Come Mosè, per la modalità della sua morte, stando alla descrizione di Papa Gregorio: in piedi, mani al cielo e in preghiera.
Morire in piedi e con le braccia allargate è già qualcosa di particolare: ma questo suo modo di morire ci rivela ciò che ha segnato la sua vita. Si appoggia alle braccia di due monaci ed è perciò portato e sostenuto dalla comunità. Qui diviene evidente l’importanza da lui accordata, fino alla fine, al “cenobitarum fortissimum genus” (RB 1,13) e che cosa significhi per lui la comunità. Si presenta alla porta solitaria della morte in compagnia dei confratelli… come non ricordare le ultime parole del cap. 72: “…nos pariter ad vitam aeternam”? E’ un passaggio indicatore di una disposizione dal sapore testamentario. La compagnia dei fratelli nell’ hora mortis, quando essa scoccherà sul quadrante della nostra vita, ci aiuterà ad allentare gli ormeggi senza paure e sarà come dire a Dio: “ecco, io ho vissuto con loro e per loro”.

martedì 19 marzo 2013

SOLENNITA’ DI SAN GIUSEPPE

La pagina del Vangelo appena proclamato e che possiamo definire come l’Annunciazione a Giuseppe, chiude con queste parole: “Giuseppe, destatosi dal sonno, fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore” (Mt 11,24). Esse possono introdurre e pilotare la nostra riflessione. Una frase lapidaria che contiene tutta l’adesione alla volontà di Dio, tutta la decisione di custodire nella sua vita, Gesù di cui è padre anche se non genitore, inserendolo nella genealogia davidica. Questo dovrebbe essere, come monaci, anche il nostro atteggiamento. Come non ricordare infatti il “nihil Christi carius” (RB 5,2)?...
Giuseppe ci insegna a vincere la tentazione della fuga, quando le cose non vanno bene in noi e attorno a noi, per vivere invece la sfida della presenza. Giuseppe ha guardato a Maria e a Gesù non come a degli ostacoli per la sua serenità ma come a un dono da custodire. Questo ci insegna a non arrenderci davanti alle difficoltà e ci ricorda che noi non abbiamo un navigatore satellitare che calcola e traccia il percorso della nostra vita ma abbiamo però a disposizione la fede che ci permette di camminare anche nella nebbia di alcune situazioni che forse (o almeno così ci sembra) ci fanno vedere poco chiaro o poco bene la strada che stiamo facendo. Grazie alla fede invece dovremmo avvertire, come Giuseppe, che la nostra mano è guidata da quella di Dio. Giuseppe, che accoglie dall’angelo la chiave di lettura di quanto succede a Maria e accantona l’escamotage programmato per togliere Maria da una situazione imbarazzante, ci insegna ad essere “disarmati” davanti a Dio, consegnandosi a Lui con fiducia totale e disponibilità fattiva. La fede di Giuseppe è di pura marca biblica, come quella di Abramo, padre dei credenti. Anche lui patriarca, ma “patriarca dei sogni”, intesi non come evasione dalla realtà ma come esperienza di saper decifrare il mistero anche in quei fatti che ci sembrano chiari e evidenti.
Il falegname di Nazaret, con la sua disarmante semplicità, è grande perché davvero grande è la sua fede. Credere, per lui è lasciar fare a Dio; non è solo desiderio di servire il Signore ma è anche disponibilità a lasciarsi sorprendere da Lui. Credere è giocare con Dio con l’ “audaciometro”: quanto più ci fidiamo e affidiamo a Dio, tanto più Dio si fida e si affida a noi. Credere senza riserve, senza ritardi, senza rimpianti. La fede “feriale” del giorno per giorno, del fare ogni giorno la volontà di Dio, genera i Santi. Questa è la santità: l’umiltà come Giuseppe, il suo silenzio, la sua perseveranza, la sua gratuità nel servizio.
Giuseppe fa credito a Dio. In una parola: obbedisce. L’obbedienza, sulla quale S. Benedetto ci regala un intero capitolo della Regola (il quinto), comporta anche percorrere la strada tracciata da Dio nel quale è la nostra pace, accompagnati sempre dal suo “non temere”. Al contrario, quando ci ripieghiamo su noi stessi per pensare, valutare con le sole nostre forze, restiamo ancorati a piccole-grandi paure.
Giuseppe accetta di essere dentro un disegno divino che lo coinvolge e lo supera. Ognuno di noi, direbbe Pascal, “è troppo grande per bastare a se stesso”. Per questo, impegniamoci ad azzerare quelle nostre resistenze che talvolta ci impediscono di rispondere con disponibilità al mistero della nostra vocazione monastica che può scombinare le nostre strade programmate per aprirci la corsia preferenziale dove Dio ci attende.

domenica 17 marzo 2013

5a DOMENICA DI QUARESIMA

Sul fondale della liturgia della Parola della quinta Domenica di Quaresima emerge l’episodio dell’adultera. Con esso è come se fossimo intercettati dalla misericordia di Dio, che si rende palpabile nella persona di Gesù. Conosciamo i particolari. Gli scribi e i farisei tendono un tranello ben congegnato a Gesù presentandogli un’adultera colta sul fatto, per chiedergli il suo parere. Infatti, aderendo alla condanna della lapidazione, Gesù avrebbe violato il diritto romano e soprattutto contraddetto il suo insegnamento di perdono; perdonandola, invece avrebbe violato la legge ebraica.
Gesù sembra non raccogliere la provocazione. Non risponde. Sembra estraniarsi dalla scena. Traccia dei segni per terra. I commentatori di ogni tempo si sono sbizzarriti nell’interpretare il contenuto di quella scrittura misteriosa. C’è chi dice che scrivesse i peccati degli implacabili accusatori, o il comandamento “non uccidere” o che imitasse un gioco tipico dei bambini che sono imperturbabili quando stanno giocando. La verità forse è più semplice. Gesù faceva dei segni per terra per non incrociare lo sguardo di quei giudici crudeli quanto ipocriti. Ma, anche, con quella sua scrittura misteriosa, abbozza il codice della misericordia che non si può scrivere sulla materia dura e neppure può essere fissata sulla carta ma può solo essere solo tracciata sulla superficie delicata e soffice di un cuore di carne, che Gesù simboleggia appunto con la morbidezza della terra.
Gesù rovescia la situazione, spezza la tenaglia mortale degli accusatori, rompe il suo silenzio: “Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra”. “Se ne andarono via tutti”, annota il Vangelo. Sono cadute non solo le pietre che tenevano in mano. Sono cadute anche le loro maschere, la legge, la presunta aureola. “Tutti”: per dire che nessuno ha il diritto di condannare. Quando si punta il dito accusatore - l’indice - contro qualcuno, ci sono altre tredita della nostra mano puntate in direzione di noi stessi. Sembra quasi che la nostra stessa fisicità ci metta in guardia dal gettare pietre quando forse il primo bersaglio dovremmo essere noi, dal gettare fango che non fa male ma sporca, quando forse noi ne siamo tutto imbrattati. Con la maldicenza e le critiche corrosive, noi scarichiamo le nostre colpe e le nostre debolezze leggendole negli altri. Quando uno calunnia, in realtà parla di se stesso, si autodescrive. Anche un linguaggio tagliente può essere “omicida”. Per condannare gli altri bisogna soffrire di una inguaribile amnesia: dimenticarsi delle nostre colpe.
Gesù, rimasto solo con la donna, si alza. “Misera et misericordia” fotografa insuperabilmente S. Agostino. Si alza. Un gesto bellissimo. Come fosse davanti ad una persona importante. Le restituisce la dignità perduta.
“Va e non peccare più”. Sono poche parole ma bastano per azzerare una storia di male e cambiare l’esistenza. Gesù non giustifica l’adulterio, non banalizza la colpa ma fa ripartire la vita. Per Gesù l’uomo non coincide con il suo peccato, è più grande del suo esame di coscienza. Gesù vede oltre: non gli interessa il nostro passato ma illumina il nostro presente e ci riapre il futuro.

sabato 9 marzo 2013

SOLENNITA’ DI SANTA FRANCESCA ROMANA

“Voi siete il sale della terra … voi siete la luce del mondo …”. Queste parole siglano luminosamente la vita della carismatica figura di S. Francesca Romana, splendida icona di santità nel solco della spiritualità benedettina attinta proprio nel monastero annesso a questa Basilica che sorge nel cuore dell’antica Roma. Sale e luce = genio della carità! S. Francesca potrebbe essere definita come la Madre Teresa del 15mo secolo. Con le mani verso l’alto,cioè in preghiera, e verso l’altro, cioè il prossimo in necessità.
Sale e luce. Il primo serve a dare sapore, a conservare il cibo. La seconda, serve ad illuminare, a dare la vita. Ambedue hanno una caratteristica: il servizio. Non tanto il dare ma il darsi. Il menù della società ha bisogno di questo sale. La vita delle persone che conosciamo e incontriamo ha bisogno di questa luce.
Forse la consapevolezza dei nostri limiti e delle nostre miserie ci scoraggiano nell’assumere questo stile di testimonianza. Ci viene in soccorso, consolante, la parabola del fico sterile di domenica scorsa. Dio che si traveste da contadino paziente e dice: “Voglio lavorare ancora un anno attorno a questo fico e forse porterà frutto”. Ancora un anno: la speranza di Dio smuove e bypassa il calendario… “forse”. Si accontenta di un “forse”, Si aggrappa ad un fragile “forse”. Lascia ancora del tempo ai miei anni trascorsi senza dare frutti. Per Dio, i miei possibili miglioramenti di domani contano di più della mia sterilità di oggi. I ritmi di crescita variano e cambiano da una persona all’altra. Mai rassegnarsi a quello che si è stato o si è. Soprattutto mai dire “ormai” in riferimento a se stessi. “Ormai” non è una parola ma è una catena che lega il volo della vita, è un’illecita chiusura di sipario. Perciò non fermiamoci alla superficie di noi stesi, cerchiamo in profondità, camminiamo verso la cella segreta del cuore è là troveremo una manciata di sale e una lucerna accesa. Nonostante tutto, siamo sale della terra; nonostante tutto, siamo luce del mondo. Ma per pura grazia. Non dobbiamo restare curvi sulle nostre storie e le nostre sconfitte, ma illuminiamo gli altri e saremo illuminati. Siamo tutti feriti, però capaci di essere guaritori. Nessuno ha troppi difetti o troppe ombre per potersi esentare dall’impegno gioioso di dare sapore e luce alla vita degli altri. Per lasciare il mondo un po’ più bello di come lo abbiamo trovato. Proprio come ha fatto S. Francesca Romana.

domenica 3 marzo 2013

TERZA DOMENICA DI QUARESIMA

Ogni domenica di Quaresima si presenta con un volto. Se la prima domenica aveva il volto della prova - le tentazioni di Gesù - e, la seconda il volto della gloria con l’episodio della Trasfigurazione, la terza ha il volto della conversione che si disegna a partire da racconti di morte.
Quello di questa domenica è un vangelo sconcertante, di immenso dolore, di grandi domande. Vediamo Gesù accennare a due disgrazie.
Un lago di sangue: il massacro di un gruppo di ebrei nel tempio, ordinato da Pilato, assommando così omicidio e sacrilegio. Una orribile tragedia: il crollo rovinoso della torre di Siloe, che aveva provocato 18 vittime. Interessante questo Gesù che, per così dire, legge e commenta il giornale.
L’opinione comune, la “teologia popolare”, vedeva in questi fatti di cronaca nera un castigo di Dio. L’editoriale di Gesù ribalta questo giudizio. Lui guarda gli avvenimenti in modo diverso e più profondo e afferma due cose: la prima è che le disgrazie non sono un castigo per i nostri peccati e, la seconda è che esse possono invece essere lette come inviti alla conversione per abbandonare certi sentieri che ci portano lontano da Dio. Dio non sta seduto sullo scranno del giudice e la nostra vita non si svolge in un’aula di tribunale.
Disgrazie e fortuna non sono legate necessariamente al nostro comportamento ma diventano l’occasione, come asserisce Gesù, di accorgersi che la vita è un soffio. Vivere, essere ancora vivo stasera, adesso alle ore 20,50, non è un diritto, è un dono, è un miracolo. Noi a volte – se non sempre – viviamo come se dovessimo stare sempre su questa terra. Non esiste una vita più o meno semplice e senza problemi, ma se il Signore convive con noi le cose si affrontano meglio. Certo, non cambiano ma siamo noi ad essere diversi nell’affrontarle.
Possiamo quindi capire perché Gesù racconti la parabola del fico sterile. Un uomo ha un fico nella sua vigna sul quale non trova mai i frutti attesi. Allora chiede al suo contadino di tagliarlo, perché non occupi inutilmente il terreno. Ma il contadino fa di tutto per salvare la pianta. Dio non è quel padrone ma si traveste da contadino paziente. “Voglio lavorare ancora un anno attorno a questo fico e forse porterà frutto”… ancora un anno: la speranza smuove e bypassa il calendario … “forse”….In questo “forse” c’è tutta la pazienza di Dio verso di noi. Si accontenta di un “forse”. Si aggrappa ad un fragile “forse”. Lascia ancora del tempo ai miei anni di inutilità, trascorsi senza frutti. Per Lui, i possibili miglioramenti del domani contano di più della mia sterilità di oggi. Dio si fida di me, io mi fido di Dio che si prende cura di me anche attraverso alcune mediazioni umane. Credere sempre nella mansuetudine di Dio verso di noi che, prima o poi, ci raggiunge nel fondo delle nostre fragilità e miserie. Ce lo ricorda anche la Regola: “non disperare mai della misericordia di Dio”… “numquam desperare” (RB 4,74). I ritmi di crescita e di cambiamento variano da una persona all’altra. Non dobbiamo essere miopi. Mai dire “ormai”, neanche in riferimento a se stessi. “Ormai” è una catena che lega il volo della vita, è una illecita chiusura di sipario. La mano di Dio che non spegne uno stoppino fumigante ma lavora dentro di noi, fa confluire con pazienza acqua e sole su quella piccola zolla di terra che siamo e con ostinato amore ci ripete: “Amami come sei!”.
Dio con noi non chiude mai i conti, ma li riapre di continuo.