venerdì 30 novembre 2012

S. ANDREA APOSTOLO

Gesù cammina in riva al lago e incontra quattro pescatori- ignari futuri discepoli - che stringono nelle mani callose le reti della pesca. Tra essi  Andrea, il “Protocleto”, cioè il primo chiamato. “Subito”: questo avverbio brilla nel breve dialogo tra Gesù e quei pescatori. Stupisce e colpisce questa immediatezza nel seguire Gesù.

Al Signore si risponde prontamente ma non è facile seguirlo, perché è una scelta che comporta un abbandono e un abbraccio: l’abbandono di ciò a cui si rinuncia e l’abbraccio di ciò che si è preferito.

Matteo riporta che Gesù passa e guarda: “vidit…”, per due volte in pochi minuti. Lo sguardo di Gesù li cambia. Contrariamente ad una legge di psicologia che afferma che una persona inizia a esistere come tale quando inizia a guardarsi con gli occhi degli altri, quando legge negli occhi degli altri se stessa, ecco l’alternativa: guardare se stessi con gli occhi di Dio. Lui ci fa sentire diversi e veri.

Non c’è solo la sequela ma anche la testimonianza operativa.  Pescati per pescare. Ma non più le rotte del mare (cioè la vita fino ad allora condotta) ma le mappe del cielo (la vita nuova col Cristo).

“Lasciare” e “seguire”: sono due verbi che non vanno separati. Non si lascia per lasciare ma per seguire, per vivere sintonizzati con Cristo.

Qui cogliamo la fede in quello che è il suo aspetto essenziale. Siamo chiamati a fidarci di una Persona, la quale non ci dice cosa vuole e dove ci porterà: chiede un’adesione incondizionata a Lui. La fede allora non significa principalmente “credere che…” ma fidarsi di Lui senza troppe spiegazioni.

domenica 25 novembre 2012

SOLENNITA’ DI CRISTO RE

Sembrerebbe una pièce teatrale. Invece non lo è. Non è per niente un happy end. E’ uno degli ultimi fotogrammi drammatici della vita di Gesù.

La farsa di uno sconcertante processo lampo. Due poteri a confronto:

Ponzio Pilato, il governatore della Giudea, e Gesù il figlio di Dio. Così vicini, così lontani, perché mossi da una concezione di potere inconciliabile.

Una domanda ripetuta più volte, in un atteggiamento di superiorità e con martellante ironia: “Sei tu il re dei Giudei?” (Gv 18,33).

Legato, insanguinato, il viso tumefatto e sputacchiato, coronato di spine. Questo è il re dei Giudei!

Gesù è un re strano, non ha mai abitato nelle reggie. Una volta sola ci è andato ma nelle vesti di un condannato. Il suo primo trono è stato una mangiatoia, l’ultimo la croce dove morirà colpevole di innocenza. Da essa non ha voluto scendere, anche se avrebbe potuto farlo.

Non ha imposto segni di prepotenza ma ha proposto il grembiule del servizio. Ha promulgato una sola legge: amatevi.

Un re che non sta sopra di noi ma è inginocchiato davanti ai nostri piedi, come ai discepoli nell’ultima cena.

Nel suo Regno si va in croce per gli altri, non si mettono in croce gli altri; si ragiona facendo prevalere il dono, la disponibilità, il servizio, la giustizia.

La tua gente i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?” (Gv 18,35).  Questa domanda è rivolta a Gesù ma in realtà è rivolta a ciascuno di noi. “Cosa ha fatto questo re? Ha capovolto tutto: si è messo a proclamare beati i poveri, gli affamati, coloro che piangono, i miti, i perseguitati ed ha annunciato che gli ultimi saranno i primi e viceversa. Ha rivoluzionato le nostre comode classificazioni: i buoni da una parte, i cattivi dall’altra. Ha dichiarato che le prostitute staranno davanti a tutti noi nel suo Regno dove, come se non bastasse, si può entrare soltanto diventando bambini. Un Regno il suo, senza confini e senza censimento.

 Si è schierato dalla parte di un’adultera. Ha gradito il profumo di una pubblica peccatrice. Ha orchestrato una festa per un mascalzone che aveva sperperato il patrimonio paterno. Ha rivalutato i rottami della società.

Ha strappato Dio dal cielo e ce lo ha portato sulla terra, a camminare in mezzo a noi. E, questo Dio sulla terra, è terribilmente scomodo. Questo Dio lo possiamo incontrare ogni momento: nel fratello che ha fame, sete, è malato …
Ecco, per questo, Pilato, lo devi condannare. E’ venuto a disturbarci perché ci ha offerto la possibilità di un vivere diverso.

mercoledì 21 novembre 2012

PRESENTAZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA

Questa bella memoria mariana - la Presentazione di Maria - non ha fondamenti biblici, nasce da un Vangelo apocrifo (il Protoevangelo di Giacomo, sec. II), ha però un messaggio nascosto che va evidenziato: Maria si è presentata a Dio senza riserve, mettendosi ad una scuola dura e spesso misteriosa. E’ quindi un esempio stupendo per noi per orientare decisamente e ogni giorno la nostra vita a Dio e per vivere fino in fondo la nostra opzione per Cristo, con l’obbedienza che nasce dalla fede: radicata nel Battesimo, ravvivata dalla Cresima, illuminata dalla Professione monastica. E a questo punto, il collegamento con il Vangelo si disegna naturaliter, perché questo atteggiamento ci porta a fare la volontà di Dio e quindi ad essere “madre e fratelli di Gesù”. Siamo “parenti” di Gesù quando riusciamo a dare carne, concretezza a frammenti di Vangelo. Il discepolato include una certa  “maternità” perché se trasmettiamo agli altri Cristo, lo si genera diventando così “madre di Gesù”.

Essere della “famiglia” di Gesù significa andare continuamente alla Parola di Dio con la lectio divina, diventare ogni giorno scolari del Vangelo, ripartire dall’alfabeto della nostra fede, lasciarci dare “indicazioni per l’uso” dalla nostra Santa Regola che, come sappiamo, è cristologica.

Se non c’è questo legame di “parentela” con Cristo non solo si vive male, ma anche i conti con noi stessi non tornano mai. Manca Qualcuno. Lui.

Adesso chiediamoci: se Gesù in questo momento entrasse nella nostra chiesa e venisse qui sul presbiterio, in mezzo a noi, potrebbe rivolgerci le stesse parole indirizzate prima nel Vangelo a chi gli stava vicino: “Ecco i miei fratelli” (Mt 12,49) ?

domenica 18 novembre 2012

33ma DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (B)

Il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo…” (Mc 13,25).

Nel Vangelo di domani, penultima domenica dell’anno liturgico B e con la quale saluteremo l’evangelista Marco, Gesù adottando immagini mutuate dall’AT parla di scardinamento dei sistemi astrali e planetari che sfocia in un terrificante crollo cosmico, in un’impressionante scenografia apocalittica. Sappiamo tutti che si tratta di un linguaggio simbolico per farci riflettere non sulla fine del mondo ma sul fine del mondo. In ogni caso, gli avvenimenti ultimi della storia del mondo sono legati al mistero di Dio.

La vita va vissuta giorno dopo giorno, scoprendovi le improvvisazioni di Dio per non lasciarci piallare dal dejà vu. Se abbiamo Dio nel cuore, in ogni giornata possiamo inserire un po’ di fervore avventuroso.

A volte capita che nel nostro cielo personale il sole si spenga e le stelle cadano a grappoli, lasciandoci dei lividi di tristezza che lievita fino a farci stare male: ad es. per una malattia, la morte di una persona cara, una delusione da parte di chi non ce la saremmo mai aspettata. Ecco che in questi momenti Gesù ci educa alla speranza: se anche il cielo mi dovesse crollare addosso, nei suoi frantumi c’è la mano di Dio che vuole stringere la nostra, oltre il muro d’ombra c’è sempre la sua mano forte e sicura che vuole afferrare la nostra.

Imparate dalla pianta di fico:  quando spuntano le foglie voi sapete che l’estate è vicina” (Mc 13,28)… Gesù ci invita a vedere oltre il freddo dell’inverno, oltre certe gelate esistenziale e emotive, lea piccola gemma di futuro che è spuntata solo per noi. Quella fogliolina di fico basta a riportare la speranza di  un “e poi” diverso. 

Di una cosa sappiamo con certezza del domani, di ogni domani: Dio si alza sempre prima del sole per tessere la nostra giornata.

martedì 13 novembre 2012

TUTTI I SANTI DELL’ORDINE BENEDETTINO

Celebrando tutti i Santi dell’Ordine Benedettino possiamo arrivare ad una certezza condivisa: essi sono stati e sono tutt’oggi il commento più bello della Regola che anche noi abbiamo professato. Una Regola capace di generare dei Santi… e noi, a che punto siamo?

Mi sembra che, guardando a queste figure luminose che sono presenti in ogni secolo, ci possiamo porre una domanda: come sognò San Benedetto i suoi monaci? La risposta che viene spontanea è: ci sognò così affascinati da Cristo da essere capaci di “nulla anteporre al suo amore”(RB 4,21; 72,11).

S. Benedetto ci sognò, anzitutto, attenti alla Parola di Dio e a farne vita della nostra vita: “Ascolta, o figlio, i precetti del maestro, piega l’orecchio del tuo cuore, accogli con docilità e metti concretamente in pratica…” (RB Prl, 1).Non possiamo essere dei distratti, non si può non sentirla la Parola di Dio perché ha una voce forte: “clamat nobis Scrptura divina” (RB 7,1)… “clamat”… grida! E uno strumento delle buone opere ci ricorda: “Ascoltare volentieri le sante letture” (RB 4,55). Il ritmo possibilmente quotidiano della lectio divina, plasma l’identità del monaco, “nascosta con Cristo in Dio” (Col 3,3).

Ci sognò anche obbedienti, “con l’obbedienza di coloro che non hanno più nulla di caro che Cristo” (RB %,2), un’obbedienza che ha i colori della gioiosa disponibilità, che non conosce tristezze e mormorazioni. Un’obbedienza totale, non solo verso l’abate ma anche verso i fratelli: “facciano a gara nell’obbedirsi a vicenda” (RB 71,1). Addirittura cercata questa obbedienza perché è qualcosa di positivo, di bello e di buono: “oboedientiae bonum” (RB 71,1).

Ci sognò umili, non con un’umiltà da collo torto e occhi socchiusi, ma un’umiltà che si identifica con la verità di se stessi che porta all’accettazione senza complessi dei propri limiti. Per questo motivo San Benedetto ci incoraggia, nel Prologo, a “servire Dio con i doni che Egli ha posto in noi”(RB Prl, 6). E tutti ne abbiamo e da mettere al servizio della comunità. Nella Regola ci offre addirittura 12 scalini per non scivolare nello stagno di Narciso.
Sì, San Benedetto sognò ma il suo sogno è diventato realtà come ci prova la lunga fila di Santi e Sante che hanno tradotto nella vita la sua Regola e che oggi festeggiamo con l’impegno di imitarli.

domenica 11 novembre 2012

32ma DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (B)

Quando il “molto” è poco e il “poco” è molto …

L’amore si può quantificare in un solo avverbio: tutto. Non si da nulla finché non si da tutto. Ciò che non diamo lo perdiamo. Dio quando prende le nostre misure mette il metro intorno al nostro cuore. E’ esso la vera bilancia di Dio. E’ lì che avviene la verifica se da cristiani credenti siamo passati a cristiani credibili. Noi possiamo o “giocare con la fede” o “giocarci nella fede”.

Gesù  oggi ci mette alla scuola di una povera vedova, la fa salire in cattedra e da lì ci impartisce una straordinaria lezione di fede. Le vedove, ai tempi di Gesù, erano collocate al fondo della classe sociale e ai margini della vita civile.

Nel tempio, Gesù, osserva il susseguirsi di alcune scene disgustose che sfiorano il ridicolo da parte di molte persone che con voluta  e autoreferenziale ostentazione, farcita di orgoglio, gettano nelle cassette (in genere erano tredici specie di ceste a forma di tromba) diverse manciate di grosse monete, richiamando così, con il rumore sonante, l’attenzione estasiata dei presenti e assicurandosi una sciocca pubblicità. “… osservava come la folla vi gettava monete”(Gv 12,41). Notiamo il particolare: osservava “come”, non “quanto” la gente offriva. Gesù rileva qualcosa di dissonante. Possiamo paragonarlo al maestro d’orchestra che appena nota uno strumento fuori tono o non a ritmo con lo spartito, ferma tutti perché qualcosa non va.

A questo punto dell’episodio si inserisce, umile e furtiva, la semplice e commovente figura di una povera vedova che, dopo aver sussurrato a se stessa l’ammontare irrisorio che sta nelle sue mani - due monetine - le getta nella cassetta andando ad urtare leggermente le monete dei ricchi. Le getta con quelle sue mani di povera donna sola, certamente sciupate dalla fatica del sopravvivere. Due monetine: un niente che per lei è il tutto. Tutto quello che ha. Poteva almeno tenersi una monetina e offrire l’altra. Rischia di fare la fame, di bruciare il suo domani. Invece dona tutto. Ricalca il generoso atteggiamento della vedova dove si ferma Elia, come ci ha riportato la prima Lettura. La santità è fatta anche da piccoli gesti pieni di cuore.

Non vuole fare a metà con Dio. Il ricco invece fa l’elemosina di ciò che ha in più, del superfluo: i suoi averi li mantiene intatti. La vedova invece dona della sua povertà, di ciò che le è necessario per andare avanti. “Tutto quello che aveva per vivere” (Mc 12,44). ,La traduzione strettamente letterale è molto più forte e significativa suona: “Tutta la sua vita”. Dona a Dio ciò che dio le ha donato: la vita. Da a Dio quel che è di Dio.
Preferisce la provvidenza alla previdenza. Due monetine, le sue, che hanno i bagliori di diamanti perché dentro c’è tutto il suo cuore. Sono preziose come una pagina di vangelo vivo. Il suo gesto, colmo di una tenerezza infinita è avvolto dal silenzio, e il silenzio non si sente ma agisce, come tutti quei gesti di amore che facciamo senza i riflettori accesi. Quella della vedova è una mini-liturgia di speranza e di fiducia che provoca Dio: io ho pensato a Te, ora tocca a Te Signore pensare a me. Ti faccio più importante della mia stessa vita. Lei è convinta che dare a Dio significa ricevere ancor di più. E questa è autentica fede, che è fiducia totale in Dio o non è fede. Chi dona tutto non si deve poi stupire di ricevere tutto.

venerdì 9 novembre 2012

DEDICAZIONE DELLA BASILICA LATERANENSE

Oggi vogliamo ricordare la dedicazione della prima e più antica cattedrale, mater omnium ecclesiarum, sede del vescovo di Roma, centro di unità della Chiesa viva e palpitante. Ogni anno questa è un’occasione per meditare sul mistero del nostro essere Chiesa, cioè “tempio del suo corpo” (Gv 2,21), il corpo di una Persona - il Cristo - che illumina e profuma il nostro vissuto quotidiano con la sua presenza. La nostra fede è vera quando è esperienza di incontro con Lui, soprattutto nella preghiera e, in fondo, tutta la vita del monaco ruota intorno a questo preciso e mirato obbiettivo: arrendersi al fascino del Signore Gesù, da Lui amati e attesi così come siamo, con i nostri peccati e le nostre debolezze. Ogni volta che ci esponiamo alla sua luce, come quando facciamo l’adorazione eucaristica, si attiva una terapia che ci guarisce dalle nostre ferite interiori e da certe nostre inquietudini rimandandoci sempre alla cura energica ed energetica del suo Vangelo e a quella coadiuvante della Regola.

Sappiamo che ogni volta che una nuova chiesa viene dedicata, il primo gesto del rito previsto è l’aspersione con l’acqua lustrale. Così pure, ogni volta che noi entriamo in chiesa il primo gesto che compiamo è quello di segnarci, dopo aver immerso la mano nell’acquasantiera. Certo, è anzitutto un modo per segnare un passaggio da un luogo profano a quello sacro, ma, ancor più profondamente, un modo per ricordare il proprio battesimo quale inizio di un cammino di conversione per noi rafforzato anche dalla professione monastica.

Vogliamo riscoprire la bellezza della comunione con Cristo e rinnovare l’impegno personale e  comunitario di tenerci legati a Lui, come pietre vive che, l’una con l’altra, poggiano sulla pietra di fondazione, togliendo con il mezzo della carità fraterna - e alla carità tutto è permesso - ciò che impedisce di aderire: come fa  il muratore che pulisce le pietre prima di stendervi la malta e accostarle le une alle altre, perché diventino una sola cosa. Il confratello è tempio di Dio, e lo si profana quando prevale la sterile legge dell’egoismo e dell’interesse personale, al contrario, lo si onora con la gratuità, l’altruismo, il dialogo, il perdono. Lasciamoci anche noi raggiungere dalle cordicelle usate da Gesù verso i mercanti del tempio, perché porti un po’ di ordine nel nostro cuore, liberandolo da certe presenze.
L’eucarestia che stiamo celebrando ci mette in comunione con il tempio vero e vivo del Signore: il suo corpo crocifisso e risorto. Gesù sa bene quello che c’è in ognuno di noi, ma conosce pure il nostro desiderio: quello di essere abitati da Lui.

domenica 4 novembre 2012

31ma Domenica del Tempo Ordinario (B)

Qual è il primo di tutti i comandamenti?”. Questa è la domanda che risuona nel Vangelo di domani - Mt 12, 28b-34 – che è l’incipit di un dialogo tra Gesù e uno scriba, che si rivela come un uomo in ricerca. Occorre ricordare che la legge era costituita da 613 precetti: 365 formulati al negativo, “non fare…”, e 248 al positivo. Una vera giungla di norme, con annessa una morale complicata, nella quale era difficile districarsi.  

Qual è il primo di tutti i comandamenti?”. Come a dire: “Qual è il cuore della fede?  Gesù risponde allacciando in una felice sintonia l’amore a Dio e l’amore al prossimo.  Per arrivare al prossimo devo partire da Dio, per arrivare a Dio devo partire dal prossimo. Solo se prima si incontra Dio, sorgente di amore, si riesce poi ad amare l’altro in pienezza; d’altra parte l’ amore per gli altri è la verifica seria del mio amore per Dio. Dio ci aspetta negli altri. Sarebbe un’illusione pericolosa pensare diversamente. Non posso scavalcare il prossimo per arrivare a Dio. Ma è anche vero che Dio bussa alla nostra porta come mendicante di amore, perché Dio stesso vive di amore. Non dimentichiamo la folgorante affermazione di Gv: “Dio è amore”.

In sintesi: àmati e ama.  Gesù ci chiede di amare “come te stesso” “tamquam te ipsum”.. E’ una notazione importante perché ricorda il dovere anche di amare se stessi, naturalmente non in senso egoistico e narcisistico, ma come accettazione serena di come siamo, accettando anche i nostri limiti, le nostre parti oscure. Perdonando a noi stessi le nostre fragilità: lo fa Dio nel sacramento della Riconciliazione, perché noi non dovremmo fare altrettanto verso noi stessi? Altrimenti significa che siamo ancora attaccati al nostro amor proprio. Un sano amore di se stessi sta alla base del vero amore per gli altri. Un cattivo rapporto con gli altri denuncia sempre un cattivo rapporto con se stessi.

Per capire un po’ cosa è l’amore, forse dovremmo capire cosa è il suo contrario.  Il contrario dell’amore non è l’odio ma l’indifferenza che è peggio. L’odio è solo la versione impazzita dell’amore. L’indifferenza è peggio dell’odio perché fa si che l’altro per noi non esista. E nessuno ha il diritto di far provare questa terribile sensazione ad un suo fratello.

Dunque Gesù ci chiede un cuore plurale, a più voci, in cui l’amore a Dio è come la melodia principale attorno alla quale può dispiegarsi il contrappunto degli altri amori: famigliari, confratelli, amici. Dio non ruba il nostro cuore ma lo moltiplica.

Amerai”, ci chiede Gesù. “Amerai”, un verbo al futuro per dire  che l’amore è un itinerario infinito, non si conclude mai. Un futuro per dirci che nessun altro futuro è possibile sulla terra se non quello dell’amore. Quando si ama veramente ci si accorge che l’amore non basta mai, ce ne vuole sempre di più.

L’amore è sempre oltre l’amore.

venerdì 2 novembre 2012

COMMEMORAZIONE DI TUTTI I DEFUNTI

La Commemorazione di tutti i fedeli defunti ci pone ogni anno davanti al mistero della morte, ci dona la possibilità di esprimere la nostra fede nella risurrezione, ma soprattutto apre il nostro cuore alla celebrazione della comunione dei Santi che ci lega con coloro che ci hanno preceduti sulla sponda dell’eternità.

La nostra vita è un cammino esodale, siamo come mendicanti permanenti in attesa di raggiungere la meta. La tristezza o la paura della morte sono illuminate dalla certezza che in Dio c’è vita eterna. “Mortem cotidie… Avere ogni giorno presente la morte” (RB 4, 47) ci ammonisce la Regola. La morte fa parte della vita nel senso che, come comunemente si dice, “siamo nati per morire”, ma per i cristiani la morte è la porta che immette nella vita per sempre. La morte è la scintilla della vita per sempre. Non si vive più per vivere di più! Abbiamo più futuro che passato e presente. Possiamo dire che in realtà non si muore ma si nasce due volte. Il cristiano non è un essere mortale ma un essere “natale”, cioè che esiste per nascere continuamente.

La nostra serenità di fronte alla morte si fonda sulla Risurrezione di Cristo e, alla luce del mistero pasquale, mi sembra  che noi cristiani possiamo sentirci autorizzati a parlare dello splendore della morte. Splendore e morte, sembra che ci sia una contraddizione ad accostarli. Il primo termine, splendore, richiama luce, vita e gioia; il secondo, morte, richiama sofferenza e buio. Eppure la morte e la risurrezione di Cristo rendono possibile tale combinazione: lo splendore della morte! Ma che bello vedere la morte così!

Per questo, in tutto ciò che facciamo, nelle nostre scelte mettiamo quel briciolo di lievito di eternità che ci fa guardare oltre.
Mettiamo tutta la nostra vita nelle mani di Maria, perché, come una corona del rosario, possa attraverso di Lei scorrere momento per momento, giorno dopo giorno, “nunc et in hora mortis nostrae -adesso e nell’ora della nostra morte”, fino a quell’attimo decisivo in cui noi, terminato il pellegrinaggio della fede, saremo accolti dall’abbraccio inesprimibile di Dio.

giovedì 1 novembre 2012

SOLENNITA’ DI TUTTI I SANTI

Tutti i Santi… Tutti! Come se li radunassimo qui, in chiesa. O forse, ancor prima e ancor più, nel nostro cuore. In questa infinita e variegata coralità noi stamattina immergiamo gli occhi. In quella pagina dell’Apocalisse di rara bellezza e suggestione, che costituisce la prima Lettura e che parla di noi, lampeggia un numero: 144.000! E’ evidente che si tratta di un numero simbolico: 12x12x1000. 12 sono le tribù di Israele, 12 gli Apostoli e 1000 è il numero dell’Agnello, cioè di Cristo e della sua signoria. Ma non resta un numero chiuso: diventa “una moltitudine immensa” (turbam magnam).

Basta togliere una lettera e il significato di questa solennità diventa evidente. Cioè: invece di leggere “tutti i santi”, leggere in forma d’augurio: “tutti santi”. Ed è questo il messaggio della festa di oggi: in forza del battesimo, siamo tutti chiamati ad essere santi! Questa è l’occasione per riscoprire che la santità non è un dono esclusivo ed elitario per certi fuoriclasse della fede o per chi ha doni straordinari. I Santi non sono nati già con una marcia in più. La pista da seguire è quella delle Beatitudini, che fanno parte del cosiddetto  discorso della Montagna, il primo dei cinque grandi discorsi di Matteo. Sembrano corpose e sconcertanti affermazioni ma sono come litanie che si intrecciano tra loro. Le Beatitudini sono il cuore del Vangelo, definite anche la magna carta del cristianesimo., un manifesto sconvolgente e contromano.

Dio agisce da artista: con le Beatitudini vuole plasmare in noi il santo. Ma Dio agisce anche da stilista: il nostro vero abito è quello della santità.

Ma le Beatitudini prima di essere il ritratto del discepolo ideale, sono il ritratto di Gesù! Lui è il povero in spirito, l’afflitto, l’affamato, il mite, il perseguitato, il misericordioso, il puro di cuore e l’operatore di pace. Le Beatitudini sono l’autobiografia di Gesù.

Nove cartelli segnaletici  che ci indicano la direzione da seguire. Non si può sbagliare! Sono il segreto della felicità dal punto di vista di Dio.  Non per niente sono introdotte e scandite da un ripetuto e martellante: “Beati… Beati…”. Sono dei paradossi ma in fondo, sono delle “felicitazioni” da parte di Dio.

Il più grosso miracolo che i Santi hanno fatto è stato quello di lasciare che Dio lavorasse nella loro vita. Santo è chi lascia che il Signore riempia la propria vita fino a farla diventare dono per gli altri. Santo è chi vive in sintonia con Gesù e la sua Parola, in dialogo non-stop con Lui e mette il grembiule del servizio. I santi, conosciuti e anonimi, questi ultimi segreti costruttori di storie di bene, sono la prova e la garanzia che si può vivere il Vangelo. Santi si diventa anche se santi siamo nati nel Battesimo. Si diventa, nel senso che è una scelta da rinnovare quotidianamente. Non è santo chi non cade, ma chi cadendo trova la forza di rialzarsi. E’ santo non chi fa cose straordinarie ma chi fa straordinariamente le cose normali di ogni giorno. E’ Santo chi riesce a leggere su ogni cosa: “Più in là” (Montale).

Forse il nostro nome non apparirà mai sul calendario, ma non è questo che conta. L’importante è essere scritti nel calendario di Dio. E lì c’è anche il nostro nome, occorre solo rivelarlo raschiando la patina del peccato che ne offusca la bellezza. Una specie di “gratta e vinci”, ma per la vincita più importante: quella del Paradiso!