Gesù cammina in riva al lago e incontra quattro
pescatori- ignari futuri discepoli - che stringono nelle mani callose le reti
della pesca. Tra essi Andrea, il
“Protocleto”, cioè il primo chiamato. “Subito”:
questo avverbio brilla nel breve dialogo tra Gesù e quei pescatori. Stupisce e
colpisce questa immediatezza nel seguire Gesù.
Al Signore si risponde prontamente ma non è facile
seguirlo, perché è una scelta che comporta un abbandono e un abbraccio:
l’abbandono di ciò a cui si rinuncia e l’abbraccio di ciò che si è preferito.
Matteo riporta che Gesù passa e guarda: “vidit…”, per due volte in pochi minuti.
Lo sguardo di Gesù li cambia. Contrariamente ad una legge di psicologia che
afferma che una persona inizia a esistere come tale quando inizia a guardarsi
con gli occhi degli altri, quando legge negli occhi degli altri se stessa, ecco
l’alternativa: guardare se stessi con gli occhi di Dio. Lui ci fa sentire
diversi e veri.
Non c’è solo la sequela ma anche la
testimonianza operativa. Pescati per
pescare. Ma non più le rotte del mare (cioè la vita fino ad allora condotta) ma
le mappe del cielo (la vita nuova col Cristo).
“Lasciare” e “seguire”: sono due verbi che non vanno
separati. Non si lascia per lasciare ma per seguire, per vivere sintonizzati
con Cristo.
Qui cogliamo la fede in quello che è il suo aspetto
essenziale. Siamo chiamati a fidarci di una Persona, la quale non ci dice cosa vuole
e dove ci porterà: chiede un’adesione incondizionata a Lui. La fede allora non
significa principalmente “credere che…” ma fidarsi di Lui senza troppe
spiegazioni.
Sembrerebbe una pièce
teatrale. Invece non lo è. Non è per niente un happy end. E’ uno degli ultimi fotogrammi drammatici della vita di
Gesù.
La farsa di uno sconcertante processo lampo. Due
poteri a confronto:
Ponzio Pilato, il governatore della Giudea, e Gesù il
figlio di Dio. Così vicini, così lontani, perché mossi da una concezione di
potere inconciliabile.
Una domanda ripetuta più volte, in un atteggiamento di
superiorità e con martellante ironia: “Sei
tu il re dei Giudei?” (Gv 18,33).
Legato, insanguinato, il viso tumefatto e
sputacchiato, coronato di spine. Questo è il re dei Giudei!
Gesù è un re strano, non ha mai abitato nelle reggie.
Una volta sola ci è andato ma nelle vesti di un condannato. Il suo primo trono
è stato una mangiatoia, l’ultimo la croce dove morirà colpevole di innocenza.
Da essa non ha voluto scendere, anche se avrebbe potuto farlo.
Non ha imposto segni di prepotenza ma ha proposto il
grembiule del servizio. Ha promulgato una sola legge: amatevi.
Un re che non sta sopra di noi ma è inginocchiato
davanti ai nostri piedi, come ai discepoli nell’ultima cena.
Nel suo Regno si va in croce per gli altri, non si
mettono in croce gli altri; si ragiona facendo prevalere il dono, la disponibilità,
il servizio, la giustizia.
“La tua gente i
capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?” (Gv
18,35). Questa domanda è rivolta a Gesù
ma in realtà è rivolta a ciascuno di noi. “Cosa ha fatto questo re? Ha
capovolto tutto: si è messo a proclamare beati i poveri, gli affamati, coloro
che piangono, i miti, i perseguitati ed ha annunciato che gli ultimi saranno i
primi e viceversa. Ha rivoluzionato le nostre comode classificazioni: i buoni
da una parte, i cattivi dall’altra. Ha dichiarato che le prostitute staranno davanti
a tutti noi nel suo Regno dove, come se non bastasse, si può entrare soltanto
diventando bambini. Un Regno il suo, senza confini e senza censimento.
Si è schierato
dalla parte di un’adultera. Ha gradito il profumo di una pubblica peccatrice.
Ha orchestrato una festa per un mascalzone che aveva sperperato il patrimonio
paterno. Ha rivalutato i rottami della società.
Ha strappato Dio dal cielo e ce lo ha portato sulla
terra, a camminare in mezzo a noi. E, questo Dio sulla terra, è terribilmente
scomodo. Questo Dio lo possiamo incontrare ogni momento: nel fratello che ha
fame, sete, è malato …
Ecco, per questo, Pilato, lo devi condannare. E’
venuto a disturbarci perché ci ha offerto la possibilità di un vivere diverso.
Questa bella memoria mariana - la Presentazione di
Maria - non ha fondamenti biblici, nasce da un Vangelo apocrifo (il
Protoevangelo di Giacomo, sec. II), ha però un messaggio nascosto che va
evidenziato: Maria si è presentata a Dio senza riserve, mettendosi ad una
scuola dura e spesso misteriosa. E’ quindi un esempio stupendo per noi per
orientare decisamente e ogni giorno la nostra vita a Dio e per vivere fino in
fondo la nostra opzione per Cristo, con l’obbedienza che nasce dalla fede:
radicata nel Battesimo, ravvivata dalla Cresima, illuminata dalla Professione
monastica. E a questo punto, il collegamento con il Vangelo si disegna naturaliter, perché questo atteggiamento
ci porta a fare la volontà di Dio e quindi ad essere “madre e fratelli di
Gesù”. Siamo “parenti” di Gesù quando riusciamo a dare carne, concretezza a
frammenti di Vangelo. Il discepolato include una certa “maternità” perché se trasmettiamo agli altri
Cristo, lo si genera diventando così “madre di Gesù”.
Essere della “famiglia” di Gesù significa andare
continuamente alla Parola di Dio con la lectio
divina, diventare ogni giorno scolari del Vangelo, ripartire dall’alfabeto
della nostra fede, lasciarci dare “indicazioni per l’uso” dalla nostra Santa
Regola che, come sappiamo, è cristologica.
Se non c’è questo legame di “parentela” con Cristo non
solo si vive male, ma anche i conti con noi stessi non tornano mai. Manca
Qualcuno. Lui.
Adesso chiediamoci: se Gesù in questo momento entrasse
nella nostra chiesa e venisse qui sul presbiterio, in mezzo a noi, potrebbe
rivolgerci le stesse parole indirizzate prima nel Vangelo a chi gli stava
vicino: “Ecco i miei fratelli” (Mt
12,49) ?
“Il sole si
oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo…”
(Mc 13,25).
Nel Vangelo di domani, penultima domenica dell’anno
liturgico B e con la quale saluteremo l’evangelista Marco, Gesù adottando
immagini mutuate dall’AT parla di scardinamento dei sistemi astrali e planetari
che sfocia in un terrificante crollo cosmico, in un’impressionante scenografia
apocalittica. Sappiamo tutti che si tratta di un linguaggio simbolico per farci
riflettere non sulla fine del mondo ma sul fine del mondo. In ogni caso, gli
avvenimenti ultimi della storia del mondo sono legati al mistero di Dio.
La vita va vissuta giorno dopo giorno, scoprendovi le
improvvisazioni di Dio per non lasciarci piallare dal dejà vu. Se abbiamo Dio nel cuore, in ogni giornata possiamo
inserire un po’ di fervore avventuroso.
A volte capita
che nel nostro cielo personale il sole si spenga e le stelle cadano a grappoli,
lasciandoci dei lividi di tristezza che lievita fino a farci stare male: ad es.
per una malattia, la morte di una persona cara, una delusione da parte di chi
non ce la saremmo mai aspettata. Ecco che in questi momenti Gesù ci educa alla
speranza: se anche il cielo mi dovesse crollare addosso, nei suoi frantumi c’è
la mano di Dio che vuole stringere la nostra, oltre il muro d’ombra c’è sempre
la sua mano forte e sicura che vuole afferrare la nostra.
“Imparate dalla pianta di fico: quando spuntano le foglie voi sapete che
l’estate è vicina” (Mc 13,28)… Gesù ci invita a vedere oltre il freddo
dell’inverno, oltre certe gelate esistenziale e emotive, lea piccola gemma di
futuro che è spuntata solo per noi. Quella fogliolina di fico basta a riportare
la speranza di un “e poi” diverso.
Di una cosa sappiamo con certezza del domani, di ogni
domani: Dio si alza sempre prima del sole per tessere la nostra giornata.
Celebrando tutti i Santi dell’Ordine Benedettino
possiamo arrivare ad una certezza condivisa: essi sono stati e sono tutt’oggi
il commento più bello della Regola che anche noi abbiamo professato. Una Regola
capace di generare dei Santi… e noi, a che punto siamo?
Mi sembra che, guardando a queste figure luminose che
sono presenti in ogni secolo, ci possiamo porre una domanda: come sognò San
Benedetto i suoi monaci? La risposta che viene spontanea è: ci sognò così
affascinati da Cristo da essere capaci di “nulla
anteporre al suo amore”(RB 4,21; 72,11).
S. Benedetto ci sognò, anzitutto, attenti alla Parola
di Dio e a farne vita della nostra vita: “Ascolta,
o figlio, i precetti del maestro, piega l’orecchio del tuo cuore, accogli con
docilità e metti concretamente in pratica…” (RB Prl, 1).Non possiamo essere
dei distratti, non si può non sentirla la Parola di Dio perché ha una voce
forte: “clamat nobis Scrptura divina”
(RB 7,1)… “clamat”… grida! E uno
strumento delle buone opere ci ricorda: “Ascoltare volentieri le sante letture”
(RB 4,55). Il ritmo possibilmente quotidiano della lectio divina, plasma l’identità del monaco, “nascosta con Cristo in Dio” (Col 3,3).
Ci sognò anche obbedienti, “con l’obbedienza di coloro che non hanno più nulla di caro che Cristo” (RB
%,2), un’obbedienza che ha i colori della gioiosa disponibilità, che non
conosce tristezze e mormorazioni. Un’obbedienza totale, non solo verso l’abate
ma anche verso i fratelli: “facciano a
gara nell’obbedirsi a vicenda” (RB 71,1). Addirittura cercata questa
obbedienza perché è qualcosa di positivo, di bello e di buono: “oboedientiae bonum” (RB 71,1).
Ci sognò umili, non con un’umiltà da collo torto e
occhi socchiusi, ma un’umiltà che si identifica con la verità di se stessi che
porta all’accettazione senza complessi dei propri limiti. Per questo motivo San
Benedetto ci incoraggia, nel Prologo, a “servire
Dio con i doni che Egli ha posto in noi”(RB Prl, 6). E tutti ne abbiamo e
da mettere al servizio della comunità. Nella Regola ci offre addirittura 12 scalini
per non scivolare nello stagno di Narciso.
Sì, San Benedetto sognò ma il suo sogno è diventato
realtà come ci prova la lunga fila di Santi e Sante che hanno tradotto nella
vita la sua Regola e che oggi festeggiamo con l’impegno di imitarli.
Quando il “molto” è poco e il “poco” è molto …
L’amore si può quantificare in un solo avverbio:
tutto. Non si da nulla finché non si da tutto. Ciò che non diamo lo perdiamo.
Dio quando prende le nostre misure mette il metro intorno al nostro cuore. E’
esso la vera bilancia di Dio. E’ lì che avviene la verifica se da cristiani
credenti siamo passati a cristiani credibili. Noi possiamo o “giocare con la
fede” o “giocarci nella fede”.
Gesù oggi ci
mette alla scuola di una povera vedova, la fa salire in cattedra e da lì ci
impartisce una straordinaria lezione di fede. Le vedove, ai tempi di Gesù,
erano collocate al fondo della classe sociale e ai margini della vita civile.
Nel tempio, Gesù, osserva il susseguirsi di alcune
scene disgustose che sfiorano il ridicolo da parte di molte persone che con
voluta e autoreferenziale ostentazione,
farcita di orgoglio, gettano nelle cassette (in genere erano tredici specie di
ceste a forma di tromba) diverse manciate di grosse monete, richiamando così,
con il rumore sonante, l’attenzione estasiata dei presenti e assicurandosi una
sciocca pubblicità. “… osservava come
la folla vi gettava monete”(Gv 12,41). Notiamo il
particolare: osservava “come”, non “quanto” la gente
offriva. Gesù rileva qualcosa di dissonante. Possiamo paragonarlo al maestro
d’orchestra che appena nota uno strumento fuori tono o non a ritmo con lo
spartito, ferma tutti perché qualcosa non va.
A questo punto dell’episodio si inserisce, umile e
furtiva, la semplice e commovente figura di una povera vedova che, dopo aver
sussurrato a se stessa l’ammontare irrisorio che sta nelle sue mani - due
monetine - le getta nella cassetta andando ad urtare leggermente le monete dei
ricchi. Le getta con quelle sue mani di povera donna sola, certamente sciupate
dalla fatica del sopravvivere. Due monetine: un niente che per lei è il tutto.
Tutto quello che ha. Poteva almeno tenersi una monetina e offrire l’altra.
Rischia di fare la fame, di bruciare il suo domani. Invece dona tutto. Ricalca
il generoso atteggiamento della vedova dove si ferma Elia, come ci ha riportato
la prima Lettura. La santità è fatta anche da piccoli gesti pieni di cuore.
Non vuole fare a metà con Dio. Il ricco invece fa
l’elemosina di ciò che ha in più, del superfluo: i suoi averi li mantiene
intatti. La vedova invece dona della sua povertà, di ciò che le è necessario
per andare avanti. “Tutto quello che
aveva per vivere” (Mc 12,44). ,La traduzione strettamente letterale è molto
più forte e significativa suona: “Tutta la sua vita”. Dona a Dio ciò che dio le
ha donato: la vita. Da a Dio quel che è di Dio.
Preferisce la provvidenza alla previdenza. Due
monetine, le sue, che hanno i bagliori di diamanti perché dentro c’è tutto il
suo cuore. Sono preziose come una pagina di vangelo vivo. Il suo gesto, colmo
di una tenerezza infinita è avvolto dal silenzio, e il silenzio non si sente ma
agisce, come tutti quei gesti di amore che facciamo senza i riflettori accesi. Quella
della vedova è una mini-liturgia di speranza e di fiducia che provoca Dio: io
ho pensato a Te, ora tocca a Te Signore pensare a me. Ti faccio più importante
della mia stessa vita. Lei è convinta che dare a Dio significa ricevere ancor
di più. E questa è autentica fede, che è fiducia totale in Dio o non è fede.
Chi dona tutto non si deve poi stupire di ricevere tutto.
Oggi vogliamo ricordare la dedicazione della prima e
più antica cattedrale, mater omnium
ecclesiarum, sede del vescovo di Roma, centro di unità della Chiesa viva e
palpitante. Ogni anno questa è un’occasione per meditare sul mistero del nostro
essere Chiesa, cioè “tempio del suo corpo”
(Gv 2,21), il corpo di una Persona - il Cristo - che illumina e profuma il
nostro vissuto quotidiano con la sua presenza. La nostra fede è vera quando è
esperienza di incontro con Lui, soprattutto nella preghiera e, in fondo, tutta
la vita del monaco ruota intorno a questo preciso e mirato obbiettivo:
arrendersi al fascino del Signore Gesù, da Lui amati e attesi così come siamo,
con i nostri peccati e le nostre debolezze. Ogni volta che ci esponiamo alla
sua luce, come quando facciamo l’adorazione eucaristica, si attiva una terapia
che ci guarisce dalle nostre ferite interiori e da certe nostre inquietudini
rimandandoci sempre alla cura energica ed energetica del suo Vangelo e a quella
coadiuvante della Regola.
Sappiamo che ogni volta che una nuova chiesa viene
dedicata, il primo gesto del rito previsto è l’aspersione con l’acqua lustrale.
Così pure, ogni volta che noi entriamo in chiesa il primo gesto che compiamo è
quello di segnarci, dopo aver immerso la mano nell’acquasantiera. Certo, è
anzitutto un modo per segnare un passaggio da un luogo profano a quello sacro,
ma, ancor più profondamente, un modo per ricordare il proprio battesimo quale
inizio di un cammino di conversione per noi rafforzato anche dalla professione
monastica.
Vogliamo riscoprire la bellezza della comunione con
Cristo e rinnovare l’impegno personale e
comunitario di tenerci legati a Lui, come pietre vive che, l’una con
l’altra, poggiano sulla pietra di fondazione, togliendo con il mezzo della
carità fraterna - e alla carità tutto è permesso - ciò che impedisce di
aderire: come fa il muratore che pulisce
le pietre prima di stendervi la malta e accostarle le une alle altre, perché
diventino una sola cosa. Il confratello è tempio di Dio, e lo si profana quando
prevale la sterile legge dell’egoismo e dell’interesse personale, al contrario,
lo si onora con la gratuità, l’altruismo, il dialogo, il perdono. Lasciamoci
anche noi raggiungere dalle cordicelle usate da Gesù verso i mercanti del
tempio, perché porti un po’ di ordine nel nostro cuore, liberandolo da certe
presenze.
L’eucarestia che stiamo celebrando ci mette in
comunione con il tempio vero e vivo del Signore: il suo corpo crocifisso e
risorto. Gesù sa bene quello che c’è in ognuno di noi, ma conosce pure il
nostro desiderio: quello di essere abitati da Lui.
“Qual è il primo
di tutti i comandamenti?”. Questa è la domanda che risuona nel Vangelo di
domani - Mt 12, 28b-34 – che è l’incipit di
un dialogo tra Gesù e uno scriba, che si rivela come un uomo in ricerca.
Occorre ricordare che la legge era costituita da 613 precetti: 365 formulati al
negativo, “non fare…”, e 248 al positivo. Una vera giungla di norme, con
annessa una morale complicata, nella quale era difficile districarsi.
“Qual è il primo
di tutti i comandamenti?”. Come a dire: “Qual è il cuore della fede? Gesù risponde allacciando in una felice
sintonia l’amore a Dio e l’amore al prossimo.
Per arrivare al prossimo devo partire da Dio, per arrivare a Dio devo
partire dal prossimo. Solo se prima si incontra Dio, sorgente di amore, si
riesce poi ad amare l’altro in pienezza; d’altra parte l’ amore per gli altri è
la verifica seria del mio amore per Dio. Dio ci aspetta negli altri. Sarebbe
un’illusione pericolosa pensare diversamente. Non posso scavalcare il prossimo
per arrivare a Dio. Ma è anche vero che Dio bussa alla nostra porta come
mendicante di amore, perché Dio stesso vive di amore. Non dimentichiamo la
folgorante affermazione di Gv: “Dio è
amore”.
In sintesi: àmati e ama. Gesù ci chiede di amare “come te stesso” “tamquam te
ipsum”.. E’ una notazione importante perché ricorda il dovere anche di
amare se stessi, naturalmente non in senso egoistico e narcisistico, ma come
accettazione serena di come siamo, accettando anche i nostri limiti, le nostre
parti oscure. Perdonando a noi stessi le nostre fragilità: lo fa Dio nel
sacramento della Riconciliazione, perché noi non dovremmo fare altrettanto
verso noi stessi? Altrimenti significa che siamo ancora attaccati al nostro
amor proprio. Un sano amore di se stessi sta alla base del vero amore per gli
altri. Un cattivo rapporto con gli altri denuncia sempre un cattivo rapporto
con se stessi.
Per capire un po’ cosa è l’amore, forse dovremmo
capire cosa è il suo contrario. Il
contrario dell’amore non è l’odio ma l’indifferenza che è peggio. L’odio è solo
la versione impazzita dell’amore. L’indifferenza è peggio dell’odio perché fa
si che l’altro per noi non esista. E nessuno ha il diritto di far provare
questa terribile sensazione ad un suo fratello.
Dunque Gesù ci chiede un cuore plurale, a più voci, in
cui l’amore a Dio è come la melodia principale attorno alla quale può
dispiegarsi il contrappunto degli altri amori: famigliari, confratelli, amici.
Dio non ruba il nostro cuore ma lo moltiplica.
“Amerai”, ci
chiede Gesù. “Amerai”, un verbo al
futuro per dire che l’amore è un
itinerario infinito, non si conclude mai. Un futuro per dirci che nessun altro
futuro è possibile sulla terra se non quello dell’amore. Quando si ama
veramente ci si accorge che l’amore non basta mai, ce ne vuole sempre di più.
L’amore è sempre oltre l’amore.
La Commemorazione di tutti i fedeli defunti ci pone
ogni anno davanti al mistero della morte, ci dona la possibilità di esprimere
la nostra fede nella risurrezione, ma soprattutto apre il nostro cuore alla
celebrazione della comunione dei Santi che ci lega con coloro che ci hanno
preceduti sulla sponda dell’eternità.
L
a nostra vita è un cammino esodale, siamo come
mendicanti permanenti in attesa di raggiungere la meta. La tristezza o la paura
della morte sono illuminate dalla certezza che in Dio c’è vita eterna. “Mortem cotidie… Avere ogni giorno presente la morte” (RB 4, 47) ci
ammonisce la Regola. La morte fa
parte della vita nel senso che, come comunemente si dice, “siamo nati per
morire”, ma per i cristiani la morte è la porta che immette nella vita per
sempre. La morte è la scintilla della vita per sempre. Non si vive più per
vivere di più! Abbiamo più futuro che passato e presente. Possiamo dire che in
realtà non si muore ma si nasce due volte. Il cristiano non è un essere mortale
ma un essere “natale”, cioè che esiste per nascere continuamente.
La nostra serenità di fronte alla morte si fonda sulla
Risurrezione di Cristo e, alla luce del mistero pasquale, mi sembra che noi cristiani possiamo sentirci
autorizzati a parlare dello splendore della morte. Splendore e morte, sembra
che ci sia una contraddizione ad accostarli. Il primo termine, splendore,
richiama luce, vita e gioia; il secondo, morte, richiama sofferenza e buio.
Eppure la morte e la risurrezione di Cristo rendono possibile tale
combinazione: lo splendore della morte! Ma che bello vedere la morte così!
Per questo, in tutto ciò che facciamo, nelle nostre
scelte mettiamo quel briciolo di lievito di eternità che ci fa guardare oltre.
Mettiamo tutta la nostra vita nelle mani di Maria,
perché, come una corona del rosario, possa attraverso di Lei scorrere momento
per momento, giorno dopo giorno, “nunc et
in hora mortis nostrae -adesso e nell’ora della nostra morte”, fino a
quell’attimo decisivo in cui noi, terminato il pellegrinaggio della fede, saremo
accolti dall’abbraccio inesprimibile di Dio.
Tutti i Santi… Tutti! Come se li radunassimo qui, in
chiesa. O forse, ancor prima e ancor più, nel nostro cuore. In questa infinita
e variegata coralità noi stamattina immergiamo gli occhi. In quella pagina
dell’Apocalisse di rara bellezza e suggestione, che costituisce la prima
Lettura e che parla di noi, lampeggia un numero: 144.000! E’ evidente che si
tratta di un numero simbolico: 12x12x1000. 12 sono le tribù di Israele, 12 gli
Apostoli e 1000 è il numero dell’Agnello, cioè di Cristo e della sua signoria.
Ma non resta un numero chiuso: diventa “una
moltitudine immensa” (turbam magnam).
Basta togliere una lettera e il significato di questa
solennità diventa evidente. Cioè: invece di leggere “tutti i santi”, leggere in
forma d’augurio: “tutti santi”. Ed è questo il messaggio della festa di oggi:
in forza del battesimo, siamo tutti chiamati ad essere santi! Questa è
l’occasione per riscoprire che la santità non è un dono esclusivo ed elitario
per certi fuoriclasse della fede o per chi ha doni straordinari. I Santi non
sono nati già con una marcia in più. La pista da seguire è quella delle
Beatitudini, che fanno parte del cosiddetto
discorso della Montagna, il primo dei cinque grandi discorsi di Matteo.
Sembrano corpose e sconcertanti affermazioni ma sono come litanie che si
intrecciano tra loro. Le Beatitudini sono il cuore del Vangelo, definite anche
la magna carta del cristianesimo., un
manifesto sconvolgente e contromano.
Dio agisce da artista: con le Beatitudini vuole
plasmare in noi il santo. Ma Dio agisce anche da stilista: il nostro vero abito
è quello della santità.
Ma le Beatitudini prima di essere il ritratto del
discepolo ideale, sono il ritratto di Gesù! Lui è il povero in spirito,
l’afflitto, l’affamato, il mite, il perseguitato, il misericordioso, il puro di
cuore e l’operatore di pace. Le Beatitudini sono l’autobiografia di Gesù.
Nove cartelli segnaletici che ci indicano la direzione da seguire. Non
si può sbagliare! Sono il segreto della felicità dal punto di vista di
Dio. Non per niente sono introdotte e
scandite da un ripetuto e martellante: “Beati…
Beati…”. Sono dei paradossi ma in fondo, sono delle “felicitazioni” da
parte di Dio.
Il più grosso miracolo che i Santi hanno fatto è stato
quello di lasciare che Dio lavorasse nella loro vita. Santo è chi lascia che il
Signore riempia la propria vita fino a farla diventare dono per gli altri.
Santo è chi vive in sintonia con Gesù e la sua Parola, in dialogo non-stop con Lui e mette il grembiule
del servizio. I santi, conosciuti e anonimi, questi ultimi segreti costruttori
di storie di bene, sono la prova e la garanzia che si può vivere il Vangelo.
Santi si diventa anche se santi siamo nati nel Battesimo. Si diventa, nel senso
che è una scelta da rinnovare quotidianamente. Non è santo chi non cade, ma chi
cadendo trova la forza di rialzarsi. E’ santo non chi fa cose straordinarie ma
chi fa straordinariamente le cose normali di ogni giorno. E’ Santo chi riesce a
leggere su ogni cosa: “Più in là”
(Montale).
Forse il nostro nome non apparirà mai sul calendario,
ma non è questo che conta. L’importante è essere scritti nel calendario di Dio.
E lì c’è anche il nostro nome, occorre solo rivelarlo raschiando la patina del
peccato che ne offusca la bellezza. Una specie di “gratta e vinci”, ma per la
vincita più importante: quella del Paradiso!