Oggi, la liturgia nel suo personale facebook ci offre la festa dei santi
arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele che stanno accanto a noi come discreti
compagni durante il nostro viaggio sulla terra. Direi che D. Guglielmo, con
questi tre big celesti, tre protettori
così in excelsis, inizia proprio bene
la sua vita da monaco professo solenne, nella nostra comunità e per la
Congregazione Benedettina di Monte Oliveto. Sono tre Angeli che esprimono la
stessa radice del nome di Dio nella radice del loro nome: “hell”…
Gli stessi nomi dei tre arcangeli portano
rispettivamente un dono che noi vogliamo rigirare a Dom Guglielmo. Sono tre
doni che vengono ad equipaggiare la donazione di sé e per sempre che Dom
Guglielmo oggi compie con la professione monastica solenne, circondato dalla
sua comunità, dai famigliari e parenti giunti da Malta.
Dunque … : Michele, “Chi è come Dio?”, cioè lo stupore e il senso della presenza di Dio:
per noi monaci questo atteggiamento è quello che dovrebbe colorare le nostre
giornate; è un angelo combattivo, da chiamare nelle crisi piccole o grandi,
quando ci sentiamo travolti da alcune negatività: ci aiuterà ad andare oltre le
nostre paure e a vedere nero solo quando è buio! Gabriele, “Forza di Dio”, cioè, grande libertà interiore per aderire - obbedire! - alla volontà di
Dio; nella BB è l’angelo degli annunzi importanti. Mille volte meglio della
posta celere, ci trasmette nel cuore gli sms di Dio, ce li fa trovare scritti
negli occhi di chi vive con noi e di chi casualmente incontriamo. Raffaele, “Medicina
di Dio”, cioè terapia d’urto fatta di sincera umiltà per guarire dalle
sempre latenti paralisi nel praticare l’amore fraterno e nell’osservare la
Regola. Questo angelo guaritore può aiutarci a fare pace con un certo nostro
passato e a trasformare le nostre ferite in perle. Questi tre arcangeli Dio ce
li ha dati apposta, sono lì per noi! Forse dovremmo riscoprirli di più e
invocarli ancor di più.
Sono tanti i compiti che gli arcangeli e gli angeli
assicurano a Dio e agli uomini ma, di certo, il più grande è quello della lode.
E questo è anche il primo impegno del monaco, l’Opus Dei : Dio, primo servito. Prima del Canone, al Sanctus, la liturgia ci invita a unire
i nostri cuori e le nostre voci all’esultanza degli angeli. Il monaco non ha
bisogno di arrivare a quel punto della Messa: tutta la sua giornata dovrebbe
essere un “Sanctus”, nella preghiera
corale certo e anzi tutto ma anche per il resto delle 24 ore. Quello della laus perennis, in gran parte in coro ma
non soltanto, è come un marchio di fabbrica che caratterizza, da spessore e
autenticità alla vita del monaco. Anche per questo ti consegnerò tra poco il
libro della Liturgia delle Ore: la Chiesa oggi ti elegge ad esercitarne
ufficialmente il ministero e, come prevede il nostro Rituale, sarai insediato
nel tuo stallo in Coro. La vita di un monaco ruota tutta intorno alla
preghiera.
L’amore del Signore è fedele, fedele per sempre. Cerca,
Don Guglielmo Maria, con tutte le forze di rispondere con quotidiana e gioiosa
fedeltà alla fedeltà del Signore stesso. Non devi però mai dimenticare che
questa tua consacrazione monastica è una grazia: una grazia che sprigiona ogni
giorno l’aiuto necessario per la tua risposta. Non c’è amore senza una
promessa, non c’è una promessa senza la percezione del “per sempre, non c’è un “per
sempre” se non è fatto di santa perseveranza fino alla morte. Lo ricorda
bene S. Benedetto alla fine del Prologo: “usque
ad mortem in monasterio perseverantes” (Prl RB 50). Per Natanaele non è
bastata la sua onestà, è stato necessario anche l’incontro con Gesù per
annoverarlo tra i suoi discepoli. Anche a te, in fondo, è successa la stessa cosa anni fa: hai
incontrato il Signore che ti ha ri-orientato la vita indirizzandoti, attraverso
un mix di con-cause, al nostro monastero. In genere, Dio fa più di quanto aspetti quando meno te lo aspetti!
A conferma
dell’investimento totale che stai facendo della tua vita su di Lui, ripeti
anche tu ogni giorno la stessa professione di fede di Natanaele: “Tu sei il Figlio di Dio” (Gv 1,49).
Non voglio dilungarmi sugli impegni che la professione
solenne comporta perché ad essi sei stato certamente preparato dai due Padri Maestri di formazione che
rispettivamente, prima l’uno poi l’altro, la Provvidenza e l’obbedienza ti hanno messo
accanto.
Recentemente, è stata pubblicata la biografia di un
santo monaco cisterciense del Medioevo, Elredo di Rievaulx, con un titolo molto
bello ed emblematico, che è tutto un programma: “Appassionatamente monaco”. Mi sembra che l’augurio che tutti noi ti
facciamo, caro Dom Guglielmo, non possa essere diverso ma sia proprio lo
stesso: sii appassionatamente monaco, cioè non condurre una vita monastica
esangue e priva di smalto e slanci, ma sii testimone felice della tua scelta di
consacrazione secondo la Regola di San Benedetto, nella Congregazione di Monte
Oliveto.
Gesù continua ad educare i suoi apostoli
sollecitandoli ad andare a Gerusalemme per condividere con Lui il mistero
pasquale. Gesù parla di servizio, i discepoli sognano il successo. Gesù parla
di croce, i suoi vogliono solo trionfi. Gesù parla di una strana “classifica” in cui i primi sono ultimi e viceversa. Non il prestigio ma
l’umiltà che è quella virtù che, quando si ha, si crede di non averla. La
ricerca del potere ha sempre le sue tristi derive nella rivalità, nell’invidia
e nell’ambizione. Nella Regola di S. Benedetto, il cap. 7 “De humilitate”, con la suggestiva immagine della scala, compendia
tutto l’impegno di conversione del monaco.
Di essa non esiste un formato tascabile o ridotto, va accolta “sine glossa”, senza sconti, senza cedere alla tentazione di
togliere o saltare qualcuno dei 12 gradini. L’ascesi condiziona l’ascesa! : “con l’esaltazione si discende e con l’umiltà
si sale” (RB 7,7).
Chi è dunque il più grande? Per rendere più espressiva la sua catechesi,
Gesù accompagna le parole con un gesto destabilizzante e disarmante: prende un
bambino, lo mette al centro e poi lo abbraccia. Una fotografia di sicuro
effetto quella che scatta l’evangelista Marco. Ma perché proprio un
bambino? Sappiamo che ai tempi di Gesù
non contava nulla, era l’ultimo di tutti. Perciò Gesù ne fa l’immagine del vero
discepolo e quindi copia conforme all’originale, il Maestro, il quale “pur essendo di natura divina, non considerò
un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò e umiliò se stesso”(Fil 2, 6-11).
Letteralmente potremmo dire: oscurò e azzerò se stesso. Ma ci sono certo anche
altri motivi nella scelta di un bambino: perché esso non ha e non fa calcoli,
non ha pretese da accampare, posizioni da conservare, privilegi da mantenere.
Vive l’istante, riceve fiducioso ciò che gli viene dato. Si affida. Ha bisogno.
Egli è anche l‘mmagine di chi è sempre abitato dal senso della meraviglia,
della sorpresa. Uno diventa anziano non quando ha 70-80 anni, neppure quando
perde la memoria, ma il giorno in cui la capacità di stupirsi, quando non si
accorge più della bellezza che è intorno a lui e che è l’impronta digitale di
Dio sulla terra.
Ma, agli occhi di Dio, è grande non solo chi occupa
l’ultimo posto ma anche chi fa grande
il suo cuore quando accoglie coloro che sono stati resi “piccoli” da tante
sofferenze, fragilizzati dalle prove della vita. Noi siamo grandi e importanti se frequentiamo
queste persone. In loro c’è Cristo e, in Cristo, il Padre.
Le braccia allargate di Gesù esprimono molto bene
quanto deve essere ampia la nostra capacità di donare e donarci, superando
pregiudizi. Non si abbraccia uno di cui si ha paura.
Ognuno di noi butti via il metro con il quale perde
tempo a calcolare la propria statura e così avrà sempre quella di un bambino.
Dopo aver esaltato ieri la croce del Signore - come
segno di vita e non di morte - per meditare quanto sia grande il cuore di Dio,
oggi volgiamo gli occhi ai piedi della croce, per vedere quanto grande può
diventare il cuore di una persona.
Gesù dice al discepolo: “Ecco tua madre”. Ma la traduzione esatta sarebbe: “Guarda: è tua
madre!”. Come a dire: guarda a Maria, lasciati educare da lei, dai suoi gesti,
dalle sue parole, dai suoi silenzi. Prolunga la sua presenza.
“Ecco tuo
figlio”: sono tre parole, ma contengono ciascuno di noi, non solo Giovanni.
“Madre” e “figlio” sono due parole di vita. Mi sembra che, con esse, ci venga
indicata la vocazione ad essere datori (“madre”) e portatori (figlio) di vita
attraverso le due dimensioni della “maternità” e dell’accoglienza.
La presenza di Maria sotto la croce non è solo un
appello alle nostre emozioni ma anche l’immagine-guida per i giorni in cui la
croce intercetta la nostra vita o quella di chi vive con noi, per evitare la
tentazione, comprensibilissima, di preferire la circonvallazione del Calvario,
nodo di amore e di dolore.
La nostra attenzione più che sul dolore di Maria si
deve fermare sul dolore del mondo le cui schegge arrivano anche in mezzo a noi,
nella nostra comunità. Magari non ce ne accorgiamo, ma ci sono. “Stabat”: siamo chiamati a stare accanto a infinite croci di tutte
le dimensioni. E’ come se ci venisse detto: prenditi cura della vita d’altri,
anche se tu stesso stai male, anzi soprattutto quando stai male, e guarirai.
Illumina altri e ti illuminerai, consola altri e sarai consolato, accogli,
perché le mani di chi accoglie terminano in ali d’angeli; accogli, e nelle braccia
di chi accoglierai troverai le braccia stesse di Dio ad accogliere te.
La Chiesa oggi ci pone davanti al mistero bruciante e
sconvolgente della Croce che è il miracolo definitivo di Gesù. Come il popolo
nel deserto, siamo chiamati a innalzare
il nostro sguardo verso di essa perché colui che vi è adagiato sopra ci aiuti a
leggere i percorsi della nostra vita, orientandone i passi.
Come non lasciarsi raggiungere da quelle parole dette
da Gesù a Nicodemo: “Dio ha tanto amato
il mondo da dare il Figlio Unigenito…” (Gv 3,16) ? “Tanto”…
La Croce è la misura dell’amore di Dio per il mondo, cioè noi: “tanto”… eccessivo, senza limiti,
infinito. “tanto”… è la vita che
sgorga da quelle piaghe per risanare le nostre ferite interiori; “tanto”… è l’umiltà di Dio che accetta di
morire per darci la vita senza fine. Nella Croce possiamo capire il “come” e il
“quanto” dell’amore di Dio per noi. Alla
domanda: “chi è Dio?”, San Bernardo di Chiaravalle rispondeva: “Cerca la
risposta nel crocifisso”.
La croce è la firma autografa di Dio, con l’inchiostro
del suo sangue. La croce è la cattedra da cui ci viene la più bella lezione di
Dio.
L’amore, anche quello umano, può disegnare cuori ma
anche incidere ferite. Davvero l’amore per qualcuno può procurarci delle
ferite. Spesso sono visibili solo a Dio. Ma c’è una certa bellezza anche in
esse, ci innestano nel tronco vivo della vita. E, come per i vegetali, ci si
innesta solo per ferita.
In cooperativa con la Croce, manifesto anche delle
nostre sofferenze, sulla quale Gesù ha sperimentato la desolazione più amara e
il drammatico abbandono di Dio, possiamo
affrontare i momenti più dolorosi. Ma perché? Perché l’amore conosce molti
doveri, ma il primo di questi è di stare con l’amato. E’ in croce per essere
con me e come me. Perché io possa essere con Lui e come Lui.
C’è un po’ un contrasto ombra-luce in questa bella
celebrazione del Santisssimo nome di Maria che, come olivetani, ci permette di
festeggiare un onomastico collettivo. “Additur
proprio nomen Maria”, ricorda incisivamente il n. 59 delle nostre
Costituzioni. Portare il nome di Maria non è portare una decorazione, è
assumere un robusto impegno ad imitarne le virtù.
Da una parte c’è la parola conclusiva dell’apostolo
Paolo che nella prima lettura risuona in
modo grave come una nota bassa in una cantata di Bach: “Passa infatti la figura di questo mondo” (1Cor 7,31). Un chiaro
invito a puntare a un di più, discernendo
ciò che è essenziale insieme ad una specie di parola d’ordine, uno slogan
esistenziale: “relativizzare” tante
cose del nostro vissuto per arrivare direttamente davanti a Dio.
Dall’altra c’è quel nome, il nome di Maria. Una riviera
di luce dolcissima. Uno dei tanti significati, che tra tutti lampeggia, di
questo nome è : “amata da Dio”… più
chiaro di così?
Però a noi, in fondo, non interessano più di tanto le
oltre sessanta interpretazioni etimologiche fornite dagli studiosi a riguardo
del nome di Maria. E’ il suo nome, e basta. Ognuno di noi, pronunciando quel
nome, davvero ci mette dentro un’infinità di significati tutti rigorosamente
suoi. Questo soprattutto ci accade nel dire le 50 Ave Maria del Rosario che, con i suoi misteri, è il Credo
fatto preghiera.
Un nome, Maria, con il quale bussare alla porta del
cielo.
Un nome semplice, eppure ricco di fascino.
Un nome comune, eppure ogni volta che lo pronunciamo
ci sembra nuovo. Un nome pieno di musica, di bellezza.
Un nome che ci provoca delle risonanze interiori in
quella parte tutta nostra che è il cuore, dove lei vuole sempre intonare il Magnificat.
Un nome che non è un nome … che si trascolora in
quello di mamma., che è l’altro nome, il vero nome di Maria.
Sì, sembra davvero
“così piccola” (Mi 5,1) -
prendendo in prestito le parole di Michea - nella prima Lettura - la
presenza di Maria nel Vangelo appena proclamato che quasi il suo nome si perde
in quel lungo e arido schedario anagrafico. Una galleria di ritratti nelle cui
pieghe si insinua la creatività di Dio. Ogni nome, un tassello del grande
mosaico della Storia della Salvezza. Una fredda, monotona litania di personaggi
biblici con annesso un grappolo di promesse che, in un crescendo quasi
rossiniano, sussurra sempre più forte un nome: Gesù. Egli è l’estuario
benedetto in cui finisce il fiotto di vita della catena delle generazioni, un
lento zig-zag che intreccia miserie e grandezze, ombre e luci. La nascita di
Maria si immette in questo fiume carsico che percorre la storia di Israele e
nostra e, grazie a lei, questo fiume finalmente viene alla superficie.
Se mai per noi, come cristiani, ci deve essere un vero
album di famiglia coi ritratti, questo è dato proprio da quella lista di nomi.
Quei nomi elencati da Matteo sono i nostri antenati perché Gesù non è solo “Dio
con noi”, ma anche nostro fratello, anzi: “il
primogenito di molti fratelli”, come ricorda S. Paolo nella seconda
Lettura. “Molti fratelli”: noi siamo
i suoi fratelli. E’ in fondo questa la vera genealogia di Gesù Cristo e noi ne
facciamo parte, come figli di Maria per la sua maternità universale ricevuta ai
piedi della croce. Questa famiglia, questa genealogia nuova di Gesù Cristo si
dilata non per generazione ma per vocazione.
Quell’elenco si rompe all’ultimo anello. Di colpo,
scocca l’ora voluta da Dio. Giunto al nome di Giuseppe, l’evangelista Matteo
abbandona lo schema costante e quasi ossessionante dell’albero genealogico: “X
generò Y per che Giuseppe era “lo sposo
di Maria dalla quale è nato Gesù, chiamato il Cristo” (Mt 1,16). “Dalla quale è nato Gesù”… sì, davvero,
tutto quell’elenco sembra snodarsi verso questo punto òmega: Gesù, radicato nel
tessuto del tempo.
Ma quale souvenir
portarci via da questa solennità che in oriente è chiamata anche “il natale
d’autunno”? Credo che lo possiamo trovare impigliato nelle varie antifone che
si muovono tutte sullo stesso festoso registro: la gioia: “gaudeamus…gaudium…cum iucunditate”. Queste parole sono avvolte in
una danza di neumi gregoriani che si rincorrono! La nascita di Maria è davvero
un appuntamento con la gioia, perché lei ci ha donato Colui senza il quale la
nostra vita perderebbe significato e smalto.
La Solennità della natività di Maria, titolare della
nostra chiesa abbaziale e patrona della nostra Congregazione, è quasi una
parentesi o oasi natalizia nel declinare dell’estate. E’ in qualche modo un
anticipo del Natale, e prima ancora dell’Immacolata, alla quale corrisponde
come collocazione di data nel calendario. La sua nascita è in funzione di
quella del Figlio. Lei viene alla luce per darci la Luce: Gesù.
Il compleanno di Maria ci porta in dono, ogni volta,
anche l’invito alla ricerca e al recupero di virtù “perdute” e che, da qualche
parte, sono minacciate di estinzione e non più quotate alla borsa valori della
società. Virtù che non solo ci scortano nella vita di quaggiù per renderci meno
poveri in umanità ma che anche fanno parte del nostro quotidiano impegno di
conversione.
Maria è stata scelta per la sua piccolezza, Maria è il
solenne elogio della piccolezza da parte di Dio. La piccolezza richiama
istintivamente la semplicità. La semplicità non è una cosa semplice!
I
n genere viene vista come una virtù di serie B. Di
una persona che non possiede doti particolari e verso la quale vogliamo
esprimere un giudizio generoso, diciamo che “è semplice”. Un diploma che
rilasciamo con larghezza a chi è sprovvisto di qualifiche più valide ed
appariscenti: cultura, intelligenza, notevoli capacità pratiche…
Forse non ci rendiamo conto che proprio la semplicità
è una virtù eccezionale. E’ cosa straordinaria essere semplice. In realtà, è
semplice chi ha svolto un paziente e lungo lavoro di semplificazione interiore,
con l’adozione continua e intensa dell’agostiniano “redire ad cor”. La
semplicità è il frutto dell’unità interiore. Tutta la tradizione monastica è
concorde nell’affermare e proporre che la vita del monaco è un cammino di
unificazione che punta all’essenziale, eliminando ingombri di vario genere. Lo
ricorda la stessa parola “monaco”, una parola-prisma perché da essa parte con
mille sfaccettature l’identità che significa. Monaco non è soltanto colui che
vive da solo o colui che ha un solo
amore- Cristo - ma è soprattutto chi, plasmato dalla Paola di Dio “rectissima norma vitae” (RB 73,3),
vivendo “sub regula vel abbate” (RB
1,2), cammina nel doppio binario dell’ “habitavi
secum” di gregoriana memoria e di quello splendido manifesto di vita
monastica che è il prologo della Regola. In questo modo attiva un processo di
unificazione interiore. Tutti i 73 capitoli della Regola vanno in questa
direzione - sono 73 spinte centripete - anche quelli che sembrano essere meno
espliciti in proposito. Sono cose che già sappiamo, fin dai tempi del
noviziato, ma è bene ricordarcele spesso per evitare alcuni blackout nella
nostra vita spirituale. Lasciamoci positivamente artigliare ogni giorno dal
celebre: “Ad quid venisti?”che San
Bernardo di Chiaravalle ripeteva spesso a se stesso. Credo che resti
profondamente vera la risposta data da un abba
del deserto a quel discepolo che gli aveva posto questa domanda: “Chi è il monaco?”. L’anziano rispose: “Il monaco è colui che si chiede ogni giorno:
chi è il monaco?”. Certo non per mettere continuamente in discussione gli
elementi essenziali della vita monastica ma per tenere sempre aperto il cuore a
recepirne gli insegnamenti.
Dopo un’assenza di cinque domeniche domani ritroveremo
l’evangelista di turno, Marco, che guida il nostro cammino in questo anno
liturgico. Per cinque domeniche abbiamo letto o ascoltato il capitolo sesto di
Giovanni, sentendo più volte parlare di “pane”, trovandoci così spesso
riportati a considerare la realtà del mangiare e del bere, e domani è come se
il tema si riproponesse: “Perché i tuoi
discepoli non si comportano secondo le tradizioni degli antichi, ma prendono
cibo con mani impure?” (Mc 7,5). Questa era una delle prescrizioni del
vasto e variopinto campionario di precetti stabiliti con inesauribile
cavillosità e con forte tasso di fiscalità: 248 comandi e 365 divieti! Gesù,
smascherata la deviazione farisaica, va subito al dunque con un insegnamento
positivo e fornisce un elenco di dodici prodotti deteriori (sei al singolare e
sei al plurale) che escono dal cuore: “Dal
cuore dell’uomo escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri,
avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia,
stoltezza.” Gesù dunque lancia il programma di un’ecologia per nostro cuore
che a Lui assomiglia un po’ come a una fabbrica che può produrre però anche
altre cose, ma belle. E le cose belle non hanno un numero chiuso. E, infatti
Gesù non le elenca. Ci può essere un catalogo dei vizi ma le cose buone pulite
non possono essere classificate una volta per tutte.
Come ci insegna Gesù è necessario l’allacciamento
diretto tra cuore e comportamenti esteriori. Senza un cuore disinquinato, non
si possono avere mani pulite, tutt’al più solo igienicamente sterilizzate.
Altrimenti si finisce nell’ipocrisia. E il fariseismo non è morto con l’ultimo
dei farisei. Inoltre, la forma più sottile di ipocrisia è pensare che farisei
siano solo e sempre gli altri.
Gesù smonta il ritualismo, il formalismo, il
moralismo, tutti “ismi” che vanno eliminati, ma senza far sparire la legge di
Cristo. Occorre distinguere tra forme e sostanza, ma quando mancano sia la
sostanza che le forme? Gesù che riporta tutto al “di dentro” dell’uomo, ossia
al cuore, rettifica e illumina senza disprezzare la legge. Certo bisogna dare
un posto di primo piano alla propria coscienza, appellarsi ad essa per le
scelte da fare. E’ necessario però stare attenti perché spesso la coscienza non
è una sorgente incontaminata, anch’essa può corrompersi. Dovrebbe essere spesso
essere sottoposta a controlli e verifiche con il proprio confessore o padre spirituale.
La legge non va assolutizzata. Ma in certi casi considerare la propria
coscienza come un assoluto è solo un alibi per non fare il proprio dovere.
Inoltre, si agisce secondo coscienza quando ci si lascia portare dal cuore come
fosse un telecomando, con la liquidazione dell’ “io proprietario”. Altrimenti
il cuore non è più sotto la luce di Dio ma è “un cuore lontano” da Lui. “Cuore lontano” sono parole di Isaia
riportate da Gesù. Auguriamoci che non siano la fotografia del nostro cuore.
Le regole sono il vestito dell’amore che è il criterio
che le rende genuine e dona trasparente coerenza alla nostra vita spirituale.
Dovremmo porci spesso due domande per evitare lo scoglio del formalismo: che
cosa regala la Parola di Dio alla mia vita? E che cosa regala la mia vita alla
Parola di Dio oggi?
Siamo nella grande novena in preparazione alla
Solennità, a noi così cara, della natività di Maria. Guardiamo a lei, la donna
del cuore che custodisce, conserva e medita nel cuore “conferens
in corde suo”, annota Luca - le parole, gli eventi e i silenzi di Dio.