martedì 31 dicembre 2013

OMELIA DI FINE ANNO

Si stanno chiudendo i cassetti di un anno intero. Dentro ci sono, in bell’ordine o sparpagliati, fotogrammi in bianco-nero o a colori, a secondo dei momenti brutti o belli vissuti. Il 2013 sta scivolando via.  Da un lato ci sono 365 giorni ormai finiti e da qualcuno tra noi archiviati con il timbro della sofferenza; dall’altro lato, si allarga la pianura dei 365 giorni del 2014. La fine dell’anno porta con se diverse riflessioni che si intercettano a vicenda. Pensieri ineludibili. Pensieri pensosi.
Siamo qui per ringraziare il Signore di un altro anno che si è, per quasi 11 mesi, identificato con l’anno della fede, la quale conserva una connotazione personale anche quando è professata comunitaria. Nel Credo infatti diciamo: “Io credo in Dio Padre…”. La fede, quella di sana e robusta costituzione, sorregge e illumina il nostro cammino monastico, da continuamente nuovi impulsi alle nostre speranze e tiene accesa la fiamma di una carità fattiva. Il tempo, senza l’avvertita presenza di Dio, è solo un susseguirsi di istanti che consumano e bruciano il tempo, che resta perciò senza fecondità.
Il Signore ci dona un altro anno per un ulteriore sforzo di conversione del nostro cuore per un decollo decisivo verso di Lui.
Il Signore ha in mano la storia del mondo ma è anche al timone della nostra piccola storia personale che è inserita nel grande progetto di amore di Dio.
Te Deum laudamus. Così tra poco canteremo con un solenne inno di ringraziamento vestito di festose parole in latino, che riepiloga e trasforma in preghiera diversi motivi per ringraziare Dio.
Te Deum, come un “grazie” comunitario per la presenza tangibili di Dio in mezzo a noi nella preghiera, nei sacramenti, nella fraternità, nell’ospitalità; per ogni miracolosa normalità accaduta nella stoffa di ogni giorno del 2013.  
In altre occasioni, il Te Deum si canta unicamente per motivi di grande gioia. Ma quello di fine anno si presenta sempre come un Te Deum in chiaro-scuro.
E allora Te Deum, per errori, debolezze assortite, piccoli dissesti interiori dovuti a motivi che talvolta sono difficili da spiegare anche a noi stessi. Ma Te Deum anche per quando abbiamo saputo sdoganare certe situazioni che ci avevano tolto la serenità. Non stiamo più a rimuginare un certo passato. Non guardiamo più indietro, ci siamo già stati! Non si giudica una persona dai suoi sbagli ma dalla sua voglia di cambiare.
Te Deum, per tutte quelle volte che siamo stati degli specialisti delle perplessità, siamo stati esegeti pessimisti e scettici di certe situazioni. L’arrivo di un nuovo anno ci porti ad un ottimismo sia pure realista, per non cedere alla tentazione di “pensare con chiarezza e non sperare più”, come ammoniva Camus.
Te Deum, per quando non abbiamo fatto esercizi di comunione ma Te Deum anche per quando abbiamo cooperato alla pace e all’armonia della nostra famiglia monastica. Te Deum per quando abbiamo voluto seguire ostinatamente la nostra volontà e per quando invece abbiamo accolto volentieri quello che S. Benedetto chiama  “bonum oboedientiae” (Rb 71,1).
Te Deum, per quando, a motivo di certe circostanze intessute di tristezza e di amarezza, abbiamo pensato che l’inverno fosse l’unica stagione ma Te Deum anche per quando e quanto abbiamo fatto circolare aria di primavera intorno a noi.
Chiediamo a Maria, che già da stasera abbiamo iniziato a festeggiare come Madre di Dio, un supplemento di protezione e di aiuto per il nuovo anno 2014.

giovedì 26 dicembre 2013

FESTA DI SANTO STEFANO

                     
Ieri, gli angeli, la mangiatoia, un bambino. Oggi, quasi un dirottamento . Si ha l’impressione di essere un po’ destabilizzati dalla celebrazione di un martire dopo le gioiose ore appena trascorse. Sembra quasi che i riflettori della liturgia abbiano dimenticato il Protagonista e slittato su Stefano, uno dei primi sette diaconi. Sembra quasi un calo di tono.
In questa epoca di fast-tutto, in cui cioè si vive all’insegna del continuo cambiamento e della velocità, la liturgia vuole invece con santa sapienza, non esaurire nel 25 dicembre l’immensa ricchezza spirituale del Natale di Nostro Signore. Possiamo dire che il Natale ha in questo giorno, tinto di rosso sangue, il suo tempo supplementare, perché Gesù è nello spirito, nel cuore, nei pensieri di Stefano, il primo martire. Stesso itinerario, stesso destino. Stefano fotocopia nella sua vita quella di Cristo: nella predicazione, nel processo subito, nella morte violenta. Ci sono dei sorprendenti parallelismi tra la morte del Maestro e quella del discepolo: quest’ultimo ripete più o meno le stesse parole di Gesù in croce.
Il sangue versato da Stefano è un inno di amore a Gesù e un attestato di fedeltà al Vangelo. Natale dunque non è solo un coro di dolci melodie ma anche una sinfonia drammatica fatta dei rantoli di morte di tanti martiri.
 La prima lettura ci ha trasmesso quello che sembra essere un dettaglio e invece non lo è: la presenza di Saulo. Il mondo è come una grande ragnatela, fatta di migliaia di fili, ognuno dei quali collegati ad un altro. C’è un filo che collega la morte violenta di Stefano a Saulo, è come se Stefano avesse passato il testimone al futuro S. Paolo.
Gli Atti degli Apostoli (At 6,15) ci riportano il particolare che il volto di Stefano era “come quello di un angelo”. I testimoni di Gesù sono sempre luminosi anche se dentro hanno qualche sofferenza. I loro occhi brillano perché hanno una febbre costante: quella di raccontare con la vita chi è Gesù. E così sia anche per noi.

mercoledì 25 dicembre 2013

NATALE (giorno)

                                  
L’Atteso nasce nella forma più inattesa. Nasce come un profugo. Nasce in una stalla! Nasce nella nostra vita per abitarla. Nasce sulla paglia delle nostre fragilità e miserie. Quel Bambino ci ruba il cuore e non chiede altro che essere ospitato nella nostra vita. E così, dentro il battito umile e ostinato del nostro cuore batte un altro cuore. Di quel Bambino, una volta incontrato, non se ne può più fare a meno. Ci tiene per mano fin dal suo primo respiro. Il Natale non è una delicata leggenda raccontata per commuoverci, non è una fiaba per bambini. E’ storia nel senso crudo, letterale della parola. Il cristianesimo poggia sulla roccia solida della storia, verificabile e documentata, sulla roccia solida della grotta di Betlemme.

Abbiamo ascoltato un vangelo immenso e da vertigine. Racconta di Dio. Vangelo che ci vieta pensieri piccoli. Non ci lascia incollati all’istante che fugge. Non sono parole bio-degradabili: restano lì, allineate come stelle. Diciotto versetti, pacati e solenni e che forse dovremmo leggere in ginocchio. Ci fanno “navigare” nel mistero dell’Incarnazione e scopriamo che nei misteri dolorosi delle mille Via Crucis del mondo e nei mille sentieri di gioia che la vita sa ancora regalarci, la Parola, oggi, si è fatta carne. Prende casa in mezzo a noi. Una Parola che si fa carne tra le lamiere contorte di una baracca distrutta dal tifone (come recentemente nelle Filippine) o tra le macerie di case distrutte da un terremoto; una Parola che si fa carne tra gli scafi delle carrette del mare ondeggianti verso Lampedusa; una Parola che si fa carne tra i capannoni deserti di fabbriche chiuse per la crisi; una Parola fatta che si fa carne in certi reparti di ospedale dove i malati attendono più o meno rassegnati la morte.
E per quel che ci riguarda personalmente, siamo davanti ad un bivio: accettiamo o rifiutiamo che Dio pianti la sua tenda nella nostra vita? Accettarlo, vuol dire cambiare il modo con cui si guardano le cose e così le cose che guardiamo cambiano.

Lo sguardo di un bambino appena nato ci offre un percorso con due coordinate: la serenità e la spontaneità. La serenità, perché per un bambino tutti sono amici, con i quali giocare. Se a noi adulti si avvicina qualcuno di nuovo, spesso attiviamo dei filtri mentali se non dei sospetti.  E poi, la spontaneità, perché per un bambino tutto è un regalo. A noi adulti le cose non bastano mai, vogliamo di più e di meglio. Un bambino, con una cosa che magari noi buttiamo via, ci può giocare per un intero pomeriggio. Dovremmo tornare a quel bambino che c’è in noi per lasciarlo giocare. Recuperiamo quella serenità e quella spontaneità che nonostante tutto non abbiamo perso ma che sono in qualche angolo buio del nostro cuore.

Sia questo l’impegno che prendiamo, insieme ad altri impegni di pura marca evangelica, oggi ma non solo oggi. Il Natale infatti si allarga a tutti i 365 giorni dell’anno. Rivestiamo ogni giorno con la bellezza del Natale!

martedì 24 dicembre 2013

NATALE (notte)


Non poteva essere che così!
Nasce per essere il custode innamorato di ogni frammento della mia vita. Un bambino, Lui, figlio della notte. Un bambino, Lui, il figlio di Dio. Dio lui stesso. Possiamo dire sottovoce agli angeli di Betlemme che anche in terra adesso c’è il Paradiso.  
                Il Figlio di Dio nasce anzitutto, come diciamo nel Credo, “per la nostra salvezza”. Ma nasce anche non tanto per essere amato, quanto per amare, per avere qualcuno da amare e dire a ciascuno di noi: io ti amo non perché ho bisogno di te, ma ho bisogno di te perché ti amo. E, come ricorda la quarta strofa del canto natalizio Adeste fideles, “come non amare chi tanto ci ha amato” (“sic nos amantem quis non redamaret”)? Capita a volte che quando si vuole troppo bene a qualcuno si perde se stessi. Alcuni colori, tra i più belli, della nostra identità si smarriscono. Amare Dio invece ci fa tirar fuori il meglio di noi stessi.
                   Natale è un po’ come dire: Dio allo specchio. Dio si tradisce con il suo amore. In questo campo Dio non è come noi uomini. Noi spesso  facciamo di una persona la nostra priorità quando poi, dopo, magari l’esperienza ci mostra che per essa non siamo stati e non siamo che un’opzione. Per Dio no. Per Lui siamo tutti figli “unici”. Se nessuno è escluso dal suo amore, però egli nasce soprattutto per i bastonati dalla vita, per quelli che hanno una grande sofferenza, per quelli che sono amareggiati, tristi, disperati, sporcati dalla maldicenza. Per quelli che sono paralizzati da problemi più grandi di loro, per chi il Natale lo passerà da solo. Oppure magari anche in compagnia ma con tanta solitudine interiore. Ci si può sentire soli anche in mezzo ad una folla. A Natale questo si avverte ancora di più. La solitudine, in questo caso, è come un grande ricevimento dove ognuno balla da solo. Tutte queste persone, e altre ancora, sono gli invitati speciali e preferiti al compleanno di Dio come uomo. Perciò se tra noi c’è chi sta vivendo queste ore di Natale con la morte nel cuore per la cattiveria di qualcuno, questa è esattamente la sua festa, perché Dio viene ad abitare dentro il suo cuore a pezzi.  Natale, ovvero elogio della piccolezza! Dio è vicino a ciò che è piccolo, debole, emarginato, insignificante… per noi, ma non per Lui!
                        Il Natale ci impedisce di bastare a noi stessi e ci educa al dono di sé. Le nostre ferite interiori spirituali, psicologiche, morali, affettive, si rimarginano nella misura in cui curiamo quelle degli altri. E così Betlemme (“casa del pane”) è dovunque le nostre mani sanno inventare atti di amore. Le nostre impronte non sbiadiscono mai sulle persone che tocchiamo per  un gesto di amore. Il Signore le fa sue, diventano tatuaggi indelebili del suo cuore. Ogni giorno è il primo giorno del resto della nostra vita. Viviamolo come fosse l’ultimo e l’unico, amando come se nessuno ci avesse mai fatto soffrire, donando senza far sentire in obbligo, perdonando senza farlo pesare. E sarà Natale ogni giorno!

martedì 17 dicembre 2013

NOVENA DI NATALE (Apertura)

                             
Anche la Liturgia ha i suoi twitters! Sono le cosiddette “Antifone O”, che risalgono al tempo di papa Gregorio Magno o poco dopo, che ci accompagneranno da stasera, ogni giorno al Magnificat, fino all’antivigilia di Natale compresa: sette telegrafiche antologie bibliche, ricche di riferimenti messianici, per sottolineare altrettanti titoli cristologici del Salvatore. Sette antifone con una simile struttura musicale, introdotte da una “O” più di stupore che di invocazione, e tutte si annodano in un “veni” struggente, un grido che esprime il nostro bisogno di Dio. Sapientia, Adonai, Radix, Clavis, Oriens, Rex, Emmanuel: un crescendo di inquadrature del Messia. Vi avvertiamo il desiderio appassionato di Dio di metterci suo Figlio nelle braccia. Quella di stasera, O Sapientia” viene dalla tradizione monastica applicata all’abate, come fonte di ispirazione per il suo servizio nel monastero. Un sistema anche intelligente quello che regge queste Antifone: la quinta, quella del 21 dicembre, giorno esatto del solstitio, quando cioè, toccato il massimo del buio, il sole comincia a risalire, si canta: “O Oriens..”: O Astro che sorgi…”
Esse ci aiutano a pregare con più intensità in questi speciali giorni di immediata preparazione al Natale e ci vogliono programmare interiormente per cogliere l’autentico significato del Natale. Le loro lettere iniziali, in ordine capovolto, nascondono una promessa antica: “Ero cras”, ci sarò domani. Ci sarò domani, e aggiungiamo, sempre. Non è enigmistica ma una certezza grande e consolante!

Dopo ogni “Antifona O” è bello pensare che è come se ci fossero dei puntini di sospensione che si riempiono di diversi significati, si trascolorano in parole non dette, che sono depositate nel nostro cuore, in attesa di lievitare e diventare realtà. Ma direi che soprattutto quei puntini di sospensione attendono di essere sostituiti dalle nostre  personali risposte al messaggio delle antifone. Coraggio, rispondiamo.


Mt, ci ha presentato la genealogia di Gesù, un lungo e monotono schedario anagrafico costruito con perfezione matematica. Un intreccio di luci e ombre. Nel DNA umano di Gesù c’è un concentrato di storia biblica non priva di fragilità e di colpe. Si resta colpiti dalla ripetizione quasi ossessionante (39 volte!) di un “generò”. Ma quel “generò” ci riguarda e ci provoca: si potrà dire di ciascuno di noi che il 25 dicembre 2013  “generò” nella sua vita Gesù, lasciandola da Lui illuminare e cambiare?

domenica 8 dicembre 2013

SOLENNITA’ DELL’IMMACOLATA CONCEZIONE DELLA B.V. MARIA


A volte il nostro cuore è mosso da corde che neanche sappiamo di avere. Corde come la semplicità, la capacità di stupirsi, la freschezza interiore, la generosità nel far felici gli altri. Questo e ben altro ancora anche in Maria che oggi festeggiamo.
Sembra di vederla questa ragazza di Nazareth, villaggio senza storia. Lei, Maria, con ancora nelle orecchie la voce leggera dell’Angelo e nel cuore un mix di gioia e di confusione. Più che alla porta, l’Angelo ha bussato alla sua persona. E infatti il racconto è tutto un dialogo. “Non temere…concepirai” (1, 30-31). Le promesse profetiche danzano tra le parole dell’angelo. Erano al futuro, ora sono al presente. Maria si lascia avvolgere dal piano di Dio. Maria diventa “Ianua coeli”, porta del cielo, perché attraverso lei Dio entra nel mondo. Anche a ciascuno di noi è chiesto, secondo la vocazione ricevuta, di offrirsi come porta d’ingresso di Dio là dove e con chi abitiamo.
Non temere”, dice l’Angelo a Maria ma lo dice anche a ciascuno di noi. “Non temere” lo devo dire anche a me stesso, non solo quando vedo sulla mia vita le orme chiare di Dio ma soprattutto quando esse sono cancellate, semplicemente perché (come ricorda uno splendido raccontino) in quei momenti Dio mi sta portando in braccio. “Non temere” di ricominciare tutto daccapo: tu non coincidi con i tuoi errori. “Non temere” di donarti a Lui con il tuo “eccomi”, limpido e senza riserve, prendendo come navigatore della tua vita la sua Parola e, per noi monaci e oblati, anche la Regola di S. Benedetto.
A ognuno di noi la vita racconta quante volte Dio è venuto a visitarci con le sue piccole “annunciazioni”: un momento felice, una crisi, una gioia inattesa, un problema di salute, l’incontro con una persona speciale. Come Maria dire: “Non so come… non so perché... ho delle paure… ho dei dubbi… mi pongo delle domande… ma mi fido di Te”.
“Sì”: tutto ruota intorno a questo piccolo e semplice monosillabo. Il “sì” di Maria deve essere l’ icona dei nostri piccoli “sì” quotidiani.
Maria ci invita a fidarci di Dio che ha fatto cose grandi in lei e che può fare grandi cose anche in noi…  Dire a Dio: “Fai tu”. E dopo il fidarsi di Dio c’è l’affidarsi a Dio.
Maria ha compreso una cosa fondamentale: Dio non ti chiama per realizzare quello che hai in testa tu. Ti chiama o ti ha chiamato, perché vuole altro da te. Tu, così come sei. Anche se ti senti inadeguato e pieno di ombre. I fili d’erba crescono anche nella steppa…

Maria che si mette nelle mani di Dio ci insegna che la vita, che è il gioco più appassionante, non è un capitale da investire secondo i propri progetti ma secondo il sogno che Dio ha avuto su di te creandoti. Anche se ti senti pieno di limiti. Non si deve aver paura delle inevitabili difficoltà: l’aquilone si alza nel cielo con il vento contrario, mai con il vento favorevole! Fare la sua volontà, con semplicità e con una buona dose di umiltà. Meno “io” e più “Dio”. E più si sta con le mani vuote davanti a Dio, più Lui pensa a riempirle.

domenica 1 dicembre 2013

PRIMA DOMENICA DI AVVENTO (A)

“I giorni di Noè”(Mt 24,37): in quei giorni gli uomini erano troppo normali! Erano diventati smemorati di Dio. Erano impegnati solo a vivere alla giornata, rosicchiando il quotidiano. Una vita senza profondità. “I giorni di Noè”, per noi, sono quelli in cui ci dedichiamo solo a dimensioni corte, quando saziamo inutilmente la nostra fame di cielo con abbuffate di piccoli bocconi di terra. Ci sono delle persone che si incontrano quando la vita vuole farci un regalo. Dio, ci fa incontrare, ci manda continuamente suo Figlio. Una Presenza che non si vede con gli occhi ma si sente con il cuore, se è rimasto quello di un bambino.
… e non si accorsero di nulla”(Mt 24,39), soggiunge Matteo. Loro del diluvio, noi del respiro di Dio sotto il quotidiano. Viene in mente la storia del Titanic. L’orchestrina continuava a suonare mentre la nave si riempiva di acqua e si inabissava. Mentre una musica suadente invita al ballo, i nostri attuali iceberg (crisi economica, pericolo nucleare, disastro ecologico, terrorismo, ecc. ….) tentano di affondarci. Ma noi possiamo e dobbiamo reagire alla tentazione dello scoraggiamento e della rassegnazione, perché abbiamo nella manica l’asso vincente che ci permette di restare in piedi ed andare avanti: Cristo che è “lo stesso ieri, oggi e sempre” (Eb 13,8). Possiamo cogliere una chiara indicazione per uscire dalla superficialità, dall’essere persone-sughero, cioè a dare spessore con la pratica della Parola di Dio, ad ogni dimensione del nostro vissuto quotidiano. E’ un impegno robusto ma che ci abilita a rendere profondo ogni momento.
La pagina di Matteo si presenta a tinte fosche, debordante di terrificanti minacce. Pur sapendo che non si tratta di una fantasiosa fiction ma di una realtà vera anche se futura, non guardiamo al linguaggio ma al messaggio. Resettiamo quegli atteggiamenti elencati dalla seconda lettura e puntiamo all’essenziale. “Due uomini saranno nel campo, uno sarà portato via e uno lasciato” (Mt 24,40). Non è un accenno alla morte, ma a due modi diversi di stare nel campo della vita. La vita non è un dono ma un prestito, va vissuta bene. Ed è una sola, non c’è una sua replica. La grazia connessa con l’Avvento è quella di essere un colpo d’ala verso ciò che veramente conta.
L’Avvento è un tempo per non essere più degli inguaribili distratti: Gesù certo è venuto più di 2000 anni fa, verrà alla fine dei tempi ma viene anche nella ferialità di ogni giorno e nelle pieghe delle ore, attraverso fatti e persone. Si impasta nella nostra storia personale come lievito di felicità vera. Nella filigrana dei nostri giorni inserisce pagliuzze di bellezza spirituale. Ecco perché dobbiamo avere i sensori sempre accesi per cogliere il suo passaggio, che possiamo facilmente percepire soprattutto nei piccoli gesti di amore, dati e ricevuti. Come ricorda Matteo, Dio a volte può venire come un ladro, ma solo per rubarci quello che di noi ci fa stare male come certe valigie pesanti dove ci sono quelle esperienze negative che spesso siamo tentati di ripetere.

In fondo tutta la vita dovrebbe essere un Avvento! E allora, adottando le coordinate della vigilanza e della prontezza, mettiamoci - un po’ come i soldati in caserma - sull’“attenti!” cosicché un giorno incontrando Dio, Egli nel suo abbraccio eterno ci dica: “riposo!”.