Le ore successive alla Pasqua sono cariche di apparizioni e di incontri.
E’ la sera del giorno di Pasqua. Le donne hanno riportato la notizia sconvolgente dell’angelo, ma i discepoli hanno paura. Stanno nascosti e blindati nel cenacolo, avvolti nella loro incredulità e delusione. Ma le porte chiuse non fermano il Signore, che porta loro due doni: quello della pace e quello dello Spirito per il perdono dei peccati.
Il suo amore è più forte delle nostre paure. Non importa quante colpe, quante cadute, quanti tradimenti abbiamo incolonnato nella nostra vita, Lui c’è! Ed è questo che ci da l’energia di vivere come discepoli del Signore Risorto e di ricominciare sempre daccapo. Non dimentichiamo mai che il Signore ha scelto come testimoni della sua risurrezione, persone come noi piene di incoerenze e di contraddizioni, di miserie e di fragilità, ma autentiche.
Però, manca un nome all’appello. E’ quello di Tommaso. Egli non c’era quella sera e, dopo otto giorni, di ritorno al fortino dei discepoli riceve l’annuncio della visita fatta da Gesù. “Abbiamo visto il Signore!”(Gv 20,24). Probabilmente gli apostoli ci hanno messo anche il punto esclamativo al termine di queste parole. Tommaso rimane gelido di fronte alla testimonianza dei compagni. Non si lascia contagiare dall’euforia collettiva degli Undici che raccontano una speranza difficile da credere. Si fa ostinatamente esigente nel controllo. Impressiona la precisione della sua richiesta: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo” (Gv 20, 25).
Viene definito incredulo. In realtà, porta le conseguenze di una fede ferita. Ha ancora negli occhi la drammatica visione del Calvario e di Gesù in croce, barbaramente ucciso. Tommaso non ha più la forza di credere. Davvero ci assomiglia e non a caso è chiamato Didimo che significa “gemello”. E’ uno come noi. Uno che è tormentato dai dubbi, dalle esitazioni. La storia di Tommaso si replica in continuazione.
Gesù ritesse la tela e attende Tommaso dopo il tempo di sbandamento che esso ha avuto. Si offre disarmato e gli concede con delicata sensibilità quello che alla Maddalena - se ricordiamo - aveva invece impedito: “Noli me tangere”- “Non mi toccare”. Gesù lo invita a toccare le sue ferite, ormai gloriose. Ferite che sono feritoie di luce. Quelle delle mani, dei piedi e quella ancor più marcata sul suo costato, trafitto da una lancia romana. Il Crocifisso è Risorto, ma il Risorto è il Crocifisso. Croce senza Pasqua è cieca, Pasqua senza Croce è vuota.
Gesù, non si impone ma si propone e si espone. Per il suo ripasso in esclusiva allo scolaro più difficile, usa pochi verbi, semplici ma concreti: “guarda-metti-tocca”. Alla fine, Tommaso si arrende e dice la cosa più grande con le parole più semplici: “Mio Signore, mio Dio” (Gv 20,28).
“Mio Signore, mio Dio”. Una professione di fede, profonda e limpida, che vale davvero una Summa theologica! Uno splendido mini-credo! La sua fede, inchiodata al pavimento dove si è inginocchiato, non ha più riserve. La sua, è la risposta di un uomo trasformato. Tommaso rinunzia ad ogni verifica. Il toccare gli è diventato superfluo. “Mio Signore, mio Dio”: poche sillabe, ma sono l’alfabeto di amore di Tommaso per Gesù. Il nostro alfabeto.
“Mio Signore, mio Dio”. Per due volte, Tommaso ripete quel piccolo aggettivo: mio, che non indica possesso geloso, ma chi ci ha rubato il cuore. “Mio”, come lo è il respiro, e senza il quale, non vivrei. Andiamo davanti al Signore con le nostre scottature e le nostre ciccatrici.
A noi cristiani dei secoli futuri, Gesù lancia una lode che equivale ad un biglietto-omaggio per il Paradiso: “Beati quelli che pur non avendo visto hanno creduto”(Gv 20,29).
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