lunedì 29 aprile 2013

FESTA DI S. CATERINA DA SIENA

Mistica, stimmatizzata, energica donna d’azione, operatrice di pace, abile diplomatica, fine mediatrice. Riporta il Papa (“il dolce Cristo in terra”) a Roma. Ricuce lo strappo di uno scisma. Analfabeta, ma ci ha lasciato lettere (ben 13 ai monaci olivetani) che sono capolavori di spiritualità. Questo, e altro ancora, è stata S. Caterina, compatrona d’Europa, patrona d’Italia insieme a S. Francesco d’Assisi e, con S. Teresa d’Avila, tra le prime donne ad essere proclamata Dottore della Chiesa.
Il brano di Vangelo proclamato, che riprende la logica delle Beatitudini, considerato un po’ come il “Magnificat” di Gesù, ci aiuta a cogliere il “segreto” di questa grande Santa: la sua vita è stata improntata a quella dei “piccoli” di cui parla Gesù. Essi non sono soltanto i bambini che sono i nostri migliori maestri, perché sono disarmati e disarmati, semplici, diretti ed immediati. Ma, “piccoli” per Gesù sono anche i portatori di ogni tipo sofferenza. Questi li dobbiamo mettere in cattedra. Ci insegnano più loro che forse tanti anni di teologia. Passare un’ora sola con un malato, un sofferente ci fa entrare nel mistero di Dio: è teologia viva, è fare teologia allo stato puro. Ma i piccoli sono anche tutti coloro che non hanno il potere né il sapere né l’avere, come S. Caterina che era povera e illetterata. Inoltre, i piccoli sono quelli che abbandonano la pretesa di bastare a se stessi.
Gesù ci chiama a riposare in Lui, capace di ricaricarci, motivarci e farci riprendere il cammino dopo qualche possibile sbandata. Non è un rifugio di fortuna ma un porto di amore nel quale approdare. Ci chiama alla sua scuola per imparare la mitezza e l’umiltà. Gesù si impara imparandone il cuore, il modo di amare. Discepoli del suo cuore per non essere analfabeti del nostro cuore. Vuole che prendiamo su di noi il suo giogo, che è pesante e leggero insieme, perché amare da tanta gioia ma anche tanta sofferenza.

venerdì 26 aprile 2013

VENERDÌ DELLA QUARTA SETTIMANA DI PASQUA – Anniversario della Canonizzazione di S. Bernardo Tolomei (26 prile 2009)

Ricordare il felice anniversario della Canonizzazione di S. Bernardo Tolomei, significa e comporta anzitutto fare spazio ad un supplemento di riflessione sulla sua scelta di sequela Christi, con l’adozione della Regola Benedettina assumendo il progetto di vita concreta che essa propone. E il Vangelo di questo venerdì della quarta settimana di Pasqua ce ne offre sorprendentemente l’aggancio.
Gesù da una risposta chiara e lapidaria alla domanda di Tommaso: “Come possiamo conoscere la via?”. “Io sono la via, la verità e la vita”. Tre parole in crescendo. Tre parole immense che nessuna spiegazione può esaurire del tutto. Sono le tre “V” di Cristo, unico “navigatore” per approdare al Padre. Con lui non si può sbagliare strada. Gesù è la Via, perché ci manifesta la Verità che ci conduce alla Vita.
“Io sono la via”. Non c’è una strada da percorrere, ma una persona, se così si può dire. Percorrere Cristo vuol dire ripercorrere la sua vita con la mia vita, cioè rinnovare i suoi umanissimi gesti di amore, di accoglienza, di perdono: pregare come lui, pensare come lui, amare come lui.
“Io sono la verità”. La verità non sta in una definizione, in un libro ma in un “io” (ego sum veritas), la verità non è un sistema di pensiero ma una persona: Gesù. Le sillabe di questa parola sono i gesti e i detti di Gesù. Lui è la mappa colorata di cielo che ci porta al Padre.
“Io sono la vita”. Nella nostra esistenza ci dovrebbe essere questa proporzione: più Dio equivale a più io. Più Vangelo entra nella nostra vita, più si vive. Con l’adesione al Padre noi realizziamo pienamente noi stessi, a tutti i livelli. In Dio noi troviamo le risposte vere ai nostri interrogativi più drammatici: il dolore, la sofferenza innocente, la morte.
Guardiamo davvero a Gesù, come nostra via, nostra verità, nostra vita. Proprio come ha fatto San Bernardo Tolomei.

giovedì 25 aprile 2013

FESTA DI SAN MARCO EVANGELISTA

Stiamo celebrando e prega con noi, oggi, San Marco, o meglio, Giovanni (At 12,12) alias Marco, un evangelista forse ancora tutto da scoprire. Collaboratore per qualche tempo di Paolo e Barnaba nella missio ad gentes ma legato a Pietro del quale riflette la predicazione, ci presenta un vangelo che incastona agilmente pochi discorsi ma molti fatti, un vangelo visualizzato. Si tratta di 661 versetti - il più breve dei quattro vangeli - e proprio a motivo della sua sobrietà narrativa, per secoli è stato sottovalutato e interpretato come un riassunto di Matteo o di Luca e, forse proprio per questo, snobbato dai commenti dei Padri. In realtà è il più antico dei quattro vangeli, che ad esso si sono ispirati.
Adottando un linguaggio semplice, asciutto ma vivace, ci regala uno splendido ritratto di Gesù del quale, nel suo racconto, fa emergere in filigrana due tratti fondamentali: Gesù è il Messia (Cristo) ed è il Figlio di Dio. Ci disegna il volto umano di Dio, come al momento della morte in Croce e il volto divino dell’uomo, cioè il cristiano non è tanto uno che ha imparato tante cose su di lui ma è uno che cammina dietro a Gesù, fino al Calvario. In sintesi, vuole rispondere a due domande: chi è Gesù? (Mc 1,27 e 8,27) e, chi è il discepolo di Gesù?
“Initium evangelii Iesu Christi Filii Dei” (Mc 1,1) - Inizio del Vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio… E’ il mattutino in Marco. E’ un incipit che annovera due titoli cristologici: “Cristo” e “Figlio di Dio”. Due titoli cristologici che dovrebbero accompagnare il nostro respiro. Ecco perché l’incipit marciano dovrebbe essere l’incipit cristiano, il nostro incipit esistenziale
Non basta conoscere Gesù ma occorre condividerne anche il dramma, perché egli non è una dottrina da imparare, ma una persona da seguire.
Chiediamo a questo discepolo della prima generazione cristiana di saper scoprire, quando meditiamo sul Vangelo, che Gesù è il Figlio di Dio, accolto dal mondo intero, raffigurato dal centurione sotto la croce. E, come quest’ultimo, anche noi stupirci davanti a Gesù Crocifisso ed esclamare: “Davvero costui era il Figlio di Dio!” (Mc 15,39).

domenica 7 aprile 2013

SECONDA DOMENICA DI PASQUA

Le ore successive alla Pasqua sono cariche di apparizioni e di incontri.
E’ la sera del giorno di Pasqua. Le donne hanno riportato la notizia sconvolgente dell’angelo, ma i discepoli hanno paura. Stanno nascosti e blindati nel cenacolo, avvolti nella loro incredulità e delusione. Ma le porte chiuse non fermano il Signore, che porta loro due doni: quello della pace e quello dello Spirito per il perdono dei peccati.
Il suo amore è più forte delle nostre paure. Non importa quante colpe, quante cadute, quanti tradimenti abbiamo incolonnato nella nostra vita, Lui c’è! Ed è questo che ci da l’energia di vivere come discepoli del Signore Risorto e di ricominciare sempre daccapo. Non dimentichiamo mai che il Signore ha scelto come testimoni della sua risurrezione, persone come noi piene di incoerenze e di contraddizioni, di miserie e di fragilità, ma autentiche.
Però, manca un nome all’appello. E’ quello di Tommaso. Egli non c’era quella sera e, dopo otto giorni, di ritorno al fortino dei discepoli riceve l’annuncio della visita fatta da Gesù. “Abbiamo visto il Signore!”(Gv 20,24). Probabilmente gli apostoli ci hanno messo anche il punto esclamativo al termine di queste parole. Tommaso rimane gelido di fronte alla testimonianza dei compagni. Non si lascia contagiare dall’euforia collettiva degli Undici che raccontano una speranza difficile da credere. Si fa ostinatamente esigente nel controllo. Impressiona la precisione della sua richiesta: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo” (Gv 20, 25).
Viene definito incredulo. In realtà, porta le conseguenze di una fede ferita. Ha ancora negli occhi la drammatica visione del Calvario e di Gesù in croce, barbaramente ucciso. Tommaso non ha più la forza di credere. Davvero ci assomiglia e non a caso è chiamato Didimo che significa “gemello”. E’ uno come noi. Uno che è tormentato dai dubbi, dalle esitazioni. La storia di Tommaso si replica in continuazione.
Gesù ritesse la tela e attende Tommaso dopo il tempo di sbandamento che esso ha avuto. Si offre disarmato e gli concede con delicata sensibilità quello che alla Maddalena - se ricordiamo - aveva invece impedito: “Noli me tangere”- “Non mi toccare”. Gesù lo invita a toccare le sue ferite, ormai gloriose. Ferite che sono feritoie di luce. Quelle delle mani, dei piedi e quella ancor più marcata sul suo costato, trafitto da una lancia romana. Il Crocifisso è Risorto, ma il Risorto è il Crocifisso. Croce senza Pasqua è cieca, Pasqua senza Croce è vuota.
Gesù, non si impone ma si propone e si espone. Per il suo ripasso in esclusiva allo scolaro più difficile, usa pochi verbi, semplici ma concreti: “guarda-metti-tocca”. Alla fine, Tommaso si arrende e dice la cosa più grande con le parole più semplici: “Mio Signore, mio Dio” (Gv 20,28).
“Mio Signore, mio Dio”. Una professione di fede, profonda e limpida, che vale davvero una Summa theologica! Uno splendido mini-credo! La sua fede, inchiodata al pavimento dove si è inginocchiato, non ha più riserve. La sua, è la risposta di un uomo trasformato. Tommaso rinunzia ad ogni verifica. Il toccare gli è diventato superfluo. “Mio Signore, mio Dio”: poche sillabe, ma sono l’alfabeto di amore di Tommaso per Gesù. Il nostro alfabeto.
“Mio Signore, mio Dio”. Per due volte, Tommaso ripete quel piccolo aggettivo: mio, che non indica possesso geloso, ma chi ci ha rubato il cuore. “Mio”, come lo è il respiro, e senza il quale, non vivrei. Andiamo davanti al Signore con le nostre scottature e le nostre ciccatrici.
A noi cristiani dei secoli futuri, Gesù lancia una lode che equivale ad un biglietto-omaggio per il Paradiso: “Beati quelli che pur non avendo visto hanno creduto”(Gv 20,29).

lunedì 1 aprile 2013

LUNEDI’ DI PASQUA

Non sappiamo se, nell’ultima Cena, dopo che Gesù ebbe lavato i piedi e riprese le sue vesti, qualcuno dei dodici apostoli si sia alzato da tavola e, con grembiule, brocca, catino e asciugatoio, si sia diretto a lavare i piedi del Maestro. Probabilmente, no.
C’è da supporre, comunque, che dopo la sua morte, ripensando a quella sera, i discepoli non abbiano fatto altro che rimproverarsi l’incapacità di ricambiare la tenerezza di Gesù. Sarà mai possibile - si saranno forse detti – che non ci sia venuto in mente di strappargli dalle mani quei simboli del servizio e, ripetere sui suoi piedi ciò che egli ha fatto con ciascuno di noi? Credo che dovette essere così forte il disappunto della Chiesa nascente per quell’occasione perduta che, quando Gesù apparve alle donne il mattino della Risurrezione – come ci ha appena riferito il Vangelo – esse non seppero fare di meglio che lanciarsi su quei piedi e abbracciarli. Testuale: “Esse si avvicinarono, gli abbracciarono i piedi e lo adorarono” (Mt 28, 9). Quasi per risarcire Gesù, sia pure a scoppio ritardato, di un’attenzione che la notte del tradimento non gli era stata offerta.
“Gli abbracciarono i piedi”! La Pasqua, infondo, è anche tutta qui. Nell’abbracciamento di quei piedi. Essi devono divenire non solo il punto di incontro per i nostri momenti di amorosa preghiera al Signore, ma anche la cifra interpretativa di ogni nostro servizio reso agli altri. L’una e l’altra cosa insieme. Se non afferriamo i piedi di Gesù, cioè se non riserviamo del tempo per la preghiera, lavare i piedi al prossimo, cioè fare gesti carità, non basta. Se caduti in ginocchio, non interpelliamo quei piedi di Gesù sulle nostre scelte quotidiane, il trascorrere 24 ore in servizi vari, forse rischierebbe di essere solo ricerca sterile di sé e magari motivo di vanagloria. Ma è anche vero che non possiamo fermarci all’adorazione davanti all’ostensorio luminoso di quei piedi forati: essi ci rimandano ai piedi del prossimo in necessità. Chi, per amore del Signore, fa spreco di
generosità, vive veramente e scivola dall’abbraccio soffocante di una esagerata attenzione a se stesso ed evita i trabocchetti dell’egoismo.
E’ la salute che da anni alla vita ma è l’amore che le da senso.
Un giorno, della nostra vita resterà solo ciò che abbiamo donato. Ciò che si spende è perduto, ciò che si possiede lo lasceremo ad altri, ciò che abbiamo donato resterà per sempre.