“Oggi, sarai con me in Paradiso”(Lc 23, 43). La parola di Gesù in croce al ladrone pentito è la rivelazione di
ciò che è il Paradiso: è un essere con Cristo, un vivere eternamente in Lui il
dialogo d’amore con il Padre nello Spirito Santo. “Ricordati di me” prega il morente. “Sarai con me” risponde l’Amore. “Ricordati di me” prega la paura. “Sarai con me in un abbraccio”
risponde l’Amore.
Ogni funerale che celebriamo è una lezione di vita e
di futuro.
C’è una parola che mi sembra pennellare a tutto tondo
il profilo spirituale di D. Arcangelo. Una parola che appartiene a quel cantus firmus che ha fatto da sottofondo
ai suoi 88 anni di vita come cristiano, come monaco e come sacerdote. Questa
parola scritta nell’antifona che ha fatto da base al canto esistenziale di D.
Arcangelo è fede. Siamo nell’anno
della fede e anche un’occasione come questa può darci lo spunto per un abbozzo
di riflessione.
Tutti noi possiamo testimoniare che quella di D.
Arcangelo è stata una fede rocciosa, limpida, come la fiducia cieca di un
bambino nell’amore della sua mamma. Questa fiducia intrepida si è tradotta soprattutto
in un’obbedienza declinata davanti alle richieste dei vari Superiori che ha
avuto. Quante volte egli ha dovuto coniugare i sinonimi del verbo credere:
fidarsi, obbedire, rischiare, andare dietro a Gesù, secondo la definizione di
fede che propone il testo conciliare Dei
Verbum: “fede è l’atteggiamento con cui l’uomo si consegna a Dio liberamente e
totalmente” (n.5).
La fede che ha infiammato il cuore del nostro
confratello badengo è stata di ottimo conio, della lega inossidabile di Abramo,
di S. Benedetto e del nostro S. Bernardo.
Come Abramo: “Esci dalla tua terra
e va”… e lui è stato in diversi
monasteri… (Guatemala)
Questo suo spessore spirituale era abbinato ad un
carattere trasparente, estroso, inventivo, allegro, gran lavoratore, connotato
di tipica toscanità. Come non ricordare il suo simpatico umorismo che talvolta
sfociava in una gradevole vis comica?
In questi ultimi mesi, con grande lucidità e
ammirevole serenità, si è preparato all’incontro con sorella morte. L’attendeva, con quei suoi occhi vispi che
sprizzavano desideri di Paradiso: “Desiderare
la vita eterna con tutto l’ardore spirituale”, ricorda S. Benedetto nella
Regola. La morte non ci deve far paura,
semmai ci deve far paura una vita anemica di Vangelo, di amore sul quale saremo
giudicati. D. Arcangelo ha avuto uno sguardo particolarmente paterno su quelle
persone - molto numerose - sofferenti per seri disagi interiori dai vari nomi.
Li ha accolti, li ha seguiti, li ha aiutati a superare le loro sofferenze.
Ogni persona cara che ci lascia rende tutti
contemporanei. Perché in Dio non c’verità della nostra fede che i defunti ci
invitano a tirare fuori da un certo dimenticatoio. Una verità di fede che professiamonel
Credo. Molto opportunamente il nuovissimo Rito delle esequie prevede che esso sia detto (noi lo canteremo)
al momento della sepoltura, al cimitero.
Maria, porta del cielo e Madre di misericordia,
accompagni Don Arcangelo all’incontro con Dio.
Celebriamo oggi S. Luca, l’evangelista che non
appartiene al gruppo dei Dodici e che non ha conosciuto direttamente Gesù. Ci
consegna, oltre al Vangelo, il Libro degli Atti degli Apostoli, da cui
attingiamo la sua vivacità nel collaborare con S. Paolo.
Nel Vangelo appena proclamato, abbiamo raccolto il
ritratto che Gesù disegna del missionario, del credente tout court.
La tradizione afferma che Luca era anche un pittore,
oltre che medico. Storicamente non è provato, eppure in questo c’è qualcosa di
vero perché egli dipinge con le parole e fa emergere il volto di Cristo, e
conseguentemente quello del cristiano. Pochi istanti fa, abbiamo raccolto il
ritratto del missionario, del credente tout
court. L’unica preoccupazione di chi annuncia Gesù è quella di essere
piccolo, allora il suo annunzio sarà grande. Fidandosi più dell’aiuto di Dio
che delle sue forze. Con un ritorno alle cose essenziali. Con un ritorno al
cuore per accorgermi che Dio mi parla come un innamorato. Con una buona dose di
umiltà. Prendiamo esempio da quella lampada accesa: essa non si sforza di fare
luce, brucia, e basta.
Stando a quei versetti di Luca, l’impegno del
discepolo è di portare pace, gesti vita ( “guarite
i malati”) e la vicinanza di Dio. Dunque, siamo chiamati a “guarire” la vita degli altri. A dare e
dire la buona notizia: “Dio è con noi, con amore”. Questo augurio, di tutto
cuore, ce lo dovremmo scambiare anche tra di noi: “Dio sia con te, con amore”.
La vocazione di un uomo non è quella di inventare se
stesso ma quella di ascoltare qualcosa (Qualcuno?) che è già dentro di sé come
un piccolo seme che contiene già la sceneggiatura della sua vita presente e
futura. Ma sono necessari gli occhiali della fede.
C’è un libro, edito dalla comunità di Bose (ed. Qiqajon), che ha un titolo un po’
strano: “Parole da mangiare”. In
esso, l’autore afferma che le vere risposte sono quelle che aprono a nuove
domande. Ci sono infatti delle risposte che chiudono o concludono le questioni,
ci sono delle risposte che ci dicono tutto quello che è bene sapere e sono
senz’altro positive perché ci fanno andare avanti con più serenità. Ma ci sono
anche delle risposte che non esauriscono le domande. Sono risposte che aprono a
domande ancora più profonde e belle. Quando uno si fa delle domande è una
persona viva, naturalmente senza esagerare per non cadere in una cronica quanto
sterile inquietudine.
“Cosa devo fare
per avere la vita eterna?”. La domanda
dell’anonimo personaggio, in cerca d’autore, del Vangelo, presunto giovane
secondo il passo parallelo di Mt, ci riguarda. E’ anche nostra. Quell’uomo vuol
sapere se sta vivendo o se sta morendo: “Maestro buono, è vita o morte la mia?
Viviamo anche noi questa domanda: cosa devo fare per vivere veramente? Per
vivere una vita maiuscola? Per fare un salto di qualità?
Gesù risponde elencando alcuni Comandamenti. Il giovane,
che ha interrogato Gesù per sapere la verità su se stesso, ammette di averli
osservati ma rivela di essere abitato da una inquietudine interiore, un tarlo che
lo rode dentro ma è un tarlo luminoso perché si traduce in desiderio di
orizzonti più larghi di quelli soliti, normali di un uomo. “Signore, che cosa
mi manca?”. Che cosa mi manca per volare nella mia vita? “Gesù, fissatolo, lo amò”. Un’espressione molto forte. Qualche
biblista traduce con: “se lo strinse al cuore”. Se voglio sapere cosa mi manca,
devo collocarmi spesso sotto quello sguardo, soprattutto nell’Adorazione
Eucaristica, permettere che esso mi interroghi, mi scruti come un radar, mi
attraversi come un laser, per rivelarmi ciò che non sono e ciò che potrei
essere. Che mi invita a puntare alto nella vita.
Gesù al giovane ricco non propone un undicesimo
comandamento ma fa una proposta radicale: una comunione più piena con Lui,
sbarazzarsi di tutto e seguirlo. Chiede di andare oltre. Gli spara una raffica
di verbi: va, vendi, vieni, seguimi! Una spallata a tante cose per essere
libero e felice. Ma questo discorso non
viene recepito dal giovane ricco, ex futuro apostolo, che se ne va triste,
privo del coraggio di essere felice con Gesù. Preferisce appartenere alla sua
immagine che a se stesso. Preferisce restare un ostaggio sequestrato dalle sue
ricchezze. Preferisce restare nel crepaccio buio di una vita spenta e
ripiegata. Ha desideri di terra e non desideri di cielo.
Quel magis, quel
di più che ci urge dentro è Gesù
stesso: è Lui a fare la differenza
rispetto alla risposta tradizionale, pur valida ma insufficiente, di praticare
i Comandamenti. Un’altra logica di vivere e un cuore moltiplicato. Quel giovane
voleva la vita eterna. Essa non riguarda solo il “dopo” ma anche l’ “oggi”. C’è
di mezzo il centuplo promesso. Gesù non ci paga solo con la gloria eterna, magari firmandoci un assegno
post-datato, pagabile alla cassa dell’eternità. Già quaggiù Dio ci restituisce
moltiplicato tutto ciò che noi lasciamo per Lui.
La fede è il caso serio della vita, nel senso che con
o senza fede, con molta o poca fede, le cose cambiano e tanto. Tutto dipende se
al centro c’è o non c’è Dio che con la sua Parola illumina e orienta i nostri
giorni, Dio dal quale allontanarsi è cadere, al quale rivolgersi è risorgere,
nel quale rimanere è stare saldi, al quale ritornare è rinascere, nel quale
abitare è vivere in pienezza. Esiliare Dio o snobbarlo ci fa essere senza
radici e senza ali, schiacciati sul presente e con un aumento vertiginoso di desertificazione
del senso di vivere. Per camminare senza essere depistati dovremmo pregare
spesso il Credo che è il racconto
dell’amore del Padre, del Figlio e
dello Spirito Santo: le verità da credere non sono altro che la sequenza
infinita dell’amore di Dio per noi. Il Credo
è uno dei segni richiesti dall’Anno della fede. Per questo, noi abbiamo pensato
di esporlo su un apposito copri leggio dove resterà per tutto l’anno.
Se restringiamo la luce che proietta l’anno della fede
sulla nostra specifica realtà esistenziale, ci accorgiamo subito che la fede è
il respiro vitale che permea tutta la vita monastica, è il registro che muove
tutta l’intelaiatura della giornata del monaco, è davvero la conditio sine qua non…
Il Prologo alla
Regola, che è cristocentrica, ce lo conferma. Come non ricordare il v.21: “Cinti dunque i fianchi con la fede…”?
Per San Benedetto tutto deve essere compiuto , perché tutto è visto, alla luce
della fede. A cominciare dalle persone. L’abate è obbedito perché in monastero
“creditur”, cioè si ritiene per fede
che egli è Christi vices(2,2);
così l’accoglienza degli ospiti (53,1-2.7), la cura per i poveri e i pellegrini
(53,15), la premura per gli ammalati (36,1-2) sono sostenuti dall’onda lunga
della fede. E non soltanto le persone, ma anche le cose sono viste e utilizzate
alla luce della fede. Allora non c’è da stupirsi che il monastero dove ubique credimus “sappiamo per fede che Dio è
dappertutto presente” sia definito da S. Benedetto “domus Dei”… non potrebbe
essere diversamente!
Perfino il tempo viene valutato diversamente: non è
più kronos, cioè una successione di
ore, ma kairòs, cioè corrente di
grazia e di salvezza. Sul fondale di un tempo visto così si ricama l’Opus Dei.
Il tempo del monaco indossa quotidianamente il paramento della Liturgia delle
ore. Il Papa ha detto una frase che non ha bisogno di commenti: “Chi trova Dio, ha trovato tutto. E noi lo
possiamo trovare solo perché egli prima ci ha cercato e ci ha trovato”.
La fede di San Benedetto espressa nella Regola e che
dovrebbe essere anche quella di ogni monaco, può essere sintetizzata in tre
parole: “Obsculta”: ascolta la
chiamata di Dio… fides ex auditu, “perfice”: porta a compimento il sogno
che Dio ha avuto su di te creandoti; “pervenies”:
approderai nell’abbraccio finale con Dio.
Sotto un certo aspetto, quest’anno della fede per noi
monaci è un “di più”. Il motu proprio
con il quale Benedetto XVI indice l’Anno della fede si intitola
significativamente “Porta fidei”. Se
ci pensiamo bene la porta del nostro monastero, quella vera, è quella della
fede, una porta sempre aperta.
Maria, donna di fede, “beata quae credidisti”- “beata perché ha creduto” (lc 1,45),
tonifichi la nostra fede per credere senza chiedere e assumendo con fierezza il
Credo nel domicilio del nostro cuore
perché da lì doni cadenze di testimonianza cristallina alla nostra vita
cristiana.
Ogni anno la memoria dei Santi Angeli custodi viene a
ricordarci queste presenze invisibili ma reali e sensibili nella nostra vita.
Essi sono dono ai quali Dio ci affida, perché la nostra vita è un mistero così
prezioso ma anche così fragile che proprio per questo ha bisogno di essere
custodita amorevolmente ed efficacemente.
Gesù nel Vangelo alla domanda dei suoi discepoli chi
sia il più grande nel regno dei cieli, da una risposta che li spiazza: chiama
un bambino e lo indica: ecco chi è il più grande. Grande certo non in statura
ma grande “altrove”. La porta d’ingresso del Paradiso è piuttosto bassa. Se
abbiamo certe “altezze” faremo fatica a passarla. Gesù ci incoraggia a
diventare come bambini, cioè ad avere un
cuore quello sì veramente “grande”, a
metterci fiduciosamente nelle mani di Dio, accettando serenamente di dipendere
da Lui. Come ha fatto lo stesso Gesù che si è sempre rimesso nelle mani del
Padre, nell’ascolto e nell’obbedienza alla sua volontà.