martedì 30 ottobre 2012

LITURGIA ESEQUIALE PER D. ARCANGELO

“Oggi, sarai con me in Paradiso”(Lc 23, 43). La parola di Gesù in croce al ladrone pentito è la rivelazione di ciò che è il Paradiso: è un essere con Cristo, un vivere eternamente in Lui il dialogo d’amore con il Padre nello Spirito Santo. “Ricordati di me” prega il morente. “Sarai con me” risponde l’Amore. “Ricordati di me” prega la paura. “Sarai con me in un abbraccio” risponde l’Amore.

Ogni funerale che celebriamo è una lezione di vita e di futuro.

C’è una parola che mi sembra pennellare a tutto tondo il profilo spirituale di D. Arcangelo. Una parola che appartiene a quel cantus firmus che ha fatto da sottofondo ai suoi 88 anni di vita come cristiano, come monaco e come sacerdote. Questa parola scritta nell’antifona che ha fatto da base al canto esistenziale di D. Arcangelo è fede. Siamo nell’anno della fede e anche un’occasione come questa può darci lo spunto per un abbozzo di riflessione.

Tutti noi possiamo testimoniare che quella di D. Arcangelo è stata una fede rocciosa, limpida, come la fiducia cieca di un bambino nell’amore della sua mamma. Questa fiducia intrepida si è tradotta soprattutto in un’obbedienza declinata davanti alle richieste dei vari Superiori che ha avuto. Quante volte egli ha dovuto coniugare i sinonimi del verbo credere: fidarsi, obbedire, rischiare, andare dietro a Gesù, secondo la definizione di fede che propone il testo conciliare Dei Verbum: “fede è l’atteggiamento con cui l’uomo si consegna a Dio liberamente e totalmente” (n.5).

La fede che ha infiammato il cuore del nostro confratello badengo è stata di ottimo conio, della lega inossidabile di Abramo, di S. Benedetto e del nostro S. Bernardo.  Come Abramo: “Esci dalla tua terra e va”… e lui è stato  in diversi monasteri… (Guatemala)

Questo suo spessore spirituale era abbinato ad un carattere trasparente, estroso, inventivo, allegro, gran lavoratore, connotato di tipica toscanità. Come non ricordare il suo simpatico umorismo che talvolta sfociava in una gradevole vis comica?

In questi ultimi mesi, con grande lucidità e ammirevole serenità, si è preparato all’incontro con sorella morte.  L’attendeva, con quei suoi occhi vispi che sprizzavano desideri di Paradiso: “Desiderare la vita eterna con tutto l’ardore spirituale”, ricorda S. Benedetto nella Regola.  La morte non ci deve far paura, semmai ci deve far paura una vita anemica di Vangelo, di amore sul quale saremo giudicati. D. Arcangelo ha avuto uno sguardo particolarmente paterno su quelle persone - molto numerose - sofferenti per seri disagi interiori dai vari nomi. Li ha accolti, li ha seguiti, li ha aiutati a superare le loro sofferenze.

Ogni persona cara che ci lascia rende tutti contemporanei. Perché in Dio non c’verità della nostra fede che i defunti ci invitano a tirare fuori da un certo dimenticatoio. Una verità di fede che professiamonel Credo. Molto opportunamente il nuovissimo Rito delle esequie  prevede che esso sia detto (noi lo canteremo) al momento della sepoltura, al cimitero.
Maria, porta del cielo e Madre di misericordia, accompagni Don Arcangelo all’incontro con Dio.

giovedì 18 ottobre 2012

FESTA DI SAN LUCA evangelista

Celebriamo oggi S. Luca, l’evangelista che non appartiene al gruppo dei Dodici e che non ha conosciuto direttamente Gesù. Ci consegna, oltre al Vangelo, il Libro degli Atti degli Apostoli, da cui attingiamo la sua vivacità nel collaborare con S. Paolo.

Nel Vangelo appena proclamato, abbiamo raccolto il ritratto che Gesù disegna del missionario, del credente tout court.

La tradizione afferma che Luca era anche un pittore, oltre che medico. Storicamente non è provato, eppure in questo c’è qualcosa di vero perché egli dipinge con le parole e fa emergere il volto di Cristo, e conseguentemente quello del cristiano. Pochi istanti fa, abbiamo raccolto il ritratto del missionario, del credente tout court. L’unica preoccupazione di chi annuncia Gesù è quella di essere piccolo, allora il suo annunzio sarà grande. Fidandosi più dell’aiuto di Dio che delle sue forze. Con un ritorno alle cose essenziali. Con un ritorno al cuore per accorgermi che Dio mi parla come un innamorato. Con una buona dose di umiltà. Prendiamo esempio da quella lampada accesa: essa non si sforza di fare luce, brucia, e basta.
Stando a quei versetti di Luca, l’impegno del discepolo è di portare pace, gesti vita ( “guarite i malati”) e la vicinanza di Dio. Dunque, siamo chiamati a “guarire” la vita degli altri. A dare e dire la buona notizia: “Dio è con noi, con amore”. Questo augurio, di tutto cuore, ce lo dovremmo scambiare anche tra di noi: “Dio sia con te, con amore”.

domenica 14 ottobre 2012

DOMENICA 28ma DEL TEMPO ORDINARIO (B)

La vocazione di un uomo non è quella di inventare se stesso ma quella di ascoltare qualcosa (Qualcuno?) che è già dentro di sé come un piccolo seme che contiene già la sceneggiatura della sua vita presente e futura. Ma sono necessari gli occhiali della fede.

C’è un libro, edito dalla comunità di Bose (ed. Qiqajon), che ha un titolo un po’ strano: “Parole da mangiare”. In esso, l’autore afferma che le vere risposte sono quelle che aprono a nuove domande. Ci sono infatti delle risposte che chiudono o concludono le questioni, ci sono delle risposte che ci dicono tutto quello che è bene sapere e sono senz’altro positive perché ci fanno andare avanti con più serenità. Ma ci sono anche delle risposte che non esauriscono le domande. Sono risposte che aprono a domande ancora più profonde e belle. Quando uno si fa delle domande è una persona viva, naturalmente senza esagerare per non cadere in una cronica quanto sterile inquietudine.

Cosa devo fare per avere la vita eterna?”. La domanda  dell’anonimo personaggio, in cerca d’autore, del Vangelo, presunto giovane secondo il passo parallelo di Mt, ci riguarda. E’ anche nostra. Quell’uomo vuol sapere se sta vivendo o se sta morendo: “Maestro buono, è vita o morte la mia? Viviamo anche noi questa domanda: cosa devo fare per vivere veramente? Per vivere una vita maiuscola? Per fare un salto di qualità?

Gesù risponde elencando alcuni Comandamenti. Il giovane, che ha interrogato Gesù per sapere la verità su se stesso, ammette di averli osservati ma rivela di essere abitato da una inquietudine interiore, un tarlo che lo rode dentro ma è un tarlo luminoso perché si traduce in desiderio di orizzonti più larghi di quelli soliti, normali di un uomo. “Signore, che cosa mi manca?”. Che cosa mi manca per volare nella mia vita? “Gesù, fissatolo, lo amò”. Un’espressione molto forte. Qualche biblista traduce con: “se lo strinse al cuore”. Se voglio sapere cosa mi manca, devo collocarmi spesso sotto quello sguardo, soprattutto nell’Adorazione Eucaristica, permettere che esso mi interroghi, mi scruti come un radar, mi attraversi come un laser, per rivelarmi ciò che non sono e ciò che potrei essere. Che mi invita a puntare alto nella vita.

Gesù al giovane ricco non propone un undicesimo comandamento ma fa una proposta radicale: una comunione più piena con Lui, sbarazzarsi di tutto e seguirlo. Chiede di andare oltre. Gli spara una raffica di verbi: va, vendi, vieni, seguimi! Una spallata a tante cose per essere libero e felice. Ma questo discorso  non viene recepito dal giovane ricco, ex futuro apostolo, che se ne va triste, privo del coraggio di essere felice con Gesù. Preferisce appartenere alla sua immagine che a se stesso. Preferisce restare un ostaggio sequestrato dalle sue ricchezze. Preferisce restare nel crepaccio buio di una vita spenta e ripiegata. Ha desideri di terra e non desideri di cielo.

Quel magis, quel di più che ci urge dentro è Gesù stesso:  è Lui a fare la differenza rispetto alla risposta tradizionale, pur valida ma insufficiente, di praticare i Comandamenti. Un’altra logica di vivere e un cuore moltiplicato. Quel giovane voleva la vita eterna. Essa non riguarda solo il “dopo” ma anche l’ “oggi”. C’è di mezzo il centuplo promesso. Gesù non ci paga solo con la  gloria eterna, magari firmandoci un assegno post-datato, pagabile alla cassa dell’eternità. Già quaggiù Dio ci restituisce moltiplicato tutto ciò che noi lasciamo per Lui.

giovedì 11 ottobre 2012

La fede è il caso serio della vita, nel senso che con o senza fede, con molta o poca fede, le cose cambiano e tanto. Tutto dipende se al centro c’è o non c’è Dio che con la sua Parola illumina e orienta i nostri giorni, Dio dal quale allontanarsi è cadere, al quale rivolgersi è risorgere, nel quale rimanere è stare saldi, al quale ritornare è rinascere, nel quale abitare è vivere in pienezza. Esiliare Dio o snobbarlo ci fa essere senza radici e senza ali, schiacciati sul presente e con un aumento vertiginoso di desertificazione del senso di vivere. Per camminare senza essere depistati dovremmo pregare spesso il Credo che è il racconto dell’amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo: le verità da credere non sono altro che la sequenza infinita dell’amore di Dio per noi. Il Credo è uno dei segni richiesti dall’Anno della fede. Per questo, noi abbiamo pensato di esporlo su un apposito copri leggio dove resterà per tutto l’anno.

Se restringiamo la luce che proietta l’anno della fede sulla nostra specifica realtà esistenziale, ci accorgiamo subito che la fede è il respiro vitale che permea tutta la vita monastica, è il registro che muove tutta l’intelaiatura della giornata del monaco, è davvero la conditio sine qua non

Il Prologo alla Regola, che è cristocentrica, ce lo conferma. Come non ricordare il v.21: “Cinti dunque i fianchi con la fede…”? Per San Benedetto tutto deve essere compiuto , perché tutto è visto, alla luce della fede. A cominciare dalle persone. L’abate è obbedito perché in monastero “creditur”, cioè si ritiene per fede che egli è Christi  vices(2,2); così l’accoglienza degli ospiti (53,1-2.7), la cura per i poveri e i pellegrini (53,15), la premura per gli ammalati (36,1-2) sono sostenuti dall’onda lunga della fede. E non soltanto le persone, ma anche le cose sono viste e utilizzate alla luce della fede. Allora non c’è da stupirsi che il monastero dove ubique credimus sappiamo per fede che Dio è dappertutto presente” sia definito da S. Benedetto “domus Dei”… non potrebbe essere diversamente!

Perfino il tempo viene valutato diversamente: non è più kronos, cioè una successione di ore, ma kairòs, cioè corrente di grazia e di salvezza. Sul fondale di un tempo visto così si ricama l’Opus Dei. Il tempo del monaco indossa quotidianamente il paramento della Liturgia delle ore. Il Papa ha detto una frase che non ha bisogno di commenti: “Chi trova Dio, ha trovato tutto. E noi lo possiamo trovare solo perché egli prima ci ha cercato e ci ha trovato”.

La fede di San Benedetto espressa nella Regola e che dovrebbe essere anche quella di ogni monaco, può essere sintetizzata in tre parole: “Obsculta”: ascolta la chiamata di Dio… fides ex auditu, “perfice”: porta a compimento il sogno che Dio ha avuto su di te creandoti; “pervenies”: approderai nell’abbraccio finale con Dio.

Sotto un certo aspetto, quest’anno della fede per noi monaci è un “di più”. Il motu proprio con il quale Benedetto XVI indice l’Anno della fede si intitola significativamente “Porta fidei”. Se ci pensiamo bene la porta del nostro monastero, quella vera, è quella della fede, una porta sempre aperta.
Maria, donna di fede, “beata quae credidisti”- “beata perché ha creduto” (lc 1,45), tonifichi la nostra fede per credere senza chiedere e assumendo con fierezza il Credo nel domicilio del nostro cuore perché da lì doni cadenze di testimonianza cristallina alla nostra vita cristiana.

martedì 2 ottobre 2012

SANTI ANGELI CUSTODI

Ogni anno la memoria dei Santi Angeli custodi viene a ricordarci queste presenze invisibili ma reali e sensibili nella nostra vita. Essi sono dono ai quali Dio ci affida, perché la nostra vita è un mistero così prezioso ma anche così fragile che proprio per questo ha bisogno di essere custodita amorevolmente ed efficacemente.

Gesù nel Vangelo alla domanda dei suoi discepoli chi sia il più grande nel regno dei cieli, da una risposta che li spiazza: chiama un bambino e lo indica: ecco chi è il più grande. Grande certo non in statura ma grande “altrove”. La porta d’ingresso del Paradiso è piuttosto bassa. Se abbiamo certe “altezze” faremo fatica a passarla. Gesù ci incoraggia a diventare come  bambini, cioè ad avere un cuore  quello sì veramente “grande”, a metterci fiduciosamente nelle mani di Dio, accettando serenamente di dipendere da Lui. Come ha fatto lo stesso Gesù che si è sempre rimesso nelle mani del Padre, nell’ascolto e nell’obbedienza alla sua volontà.