Stiamo celebrando la Solennità dei Santi Pietro e Paolo, le due colonne e i due polmoni della chiesa.
Pietro: il pescatore di Cafarnao, uomo semplice e rozzo, entusiasta e irruente, generoso e fragile. Unico per quella sua solare professione di fede, che è un resumé di teologia allo stato puro: “Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio”. E che si accorda alla pagina di Giovanni (21, 15-19), letta all’Ufficio delle Letture, dove Gesù chiede per tre volte a Pietro se lo ama. “Signore, tu conosci tutto, tu sai che ti voglio bene” (Gv 21,17). E’ stato un po’ l’esame di maturità di Pietro!
Paolo: l’intellettuale raffinato e polemico, lo zelante e fanatico persecutore, il convertito divorato dalla passione per Cristo. E’ significativo che questo nome - Christos - ricorra ben 400 volte nel corpus dei suoi scritti! E’ il dato biografico più importante e più bello di Paolo. Senza di lui il Vangelo sarebbe rimasto chiuso nel piccolo orizzonte di Israele. Con lui, ha valicato i confini e la storia.
Pietro: rinnegatore di Gesù. La sua storia ha un’impennata inattesa quando sbatte la testa contro i suoi limiti. Uomo abituato alle ruvide corde, all’odore pungente del pesce, alle lunghe noti passate in mare, scelto per custodire la nostra fede. Capace di piangere i suoi sbagli. Per questo pianto noi ti amiamo, Pietro, per questo tuo silenzioso singhiozzare di amico fedele, perché la tua fragilità e la tua paura sono anche le nostre.
Nonostante il suo tradimento, Gesù lo rende il primo - il leader fra gli Apostoli, consegnandogli la responsabilità di guidare la Chiesa. Ogni Papa, con la sua fede-roccia (super hanc petram!), con la potestà delle chiavi, con l’uso del binomio legare-sciogliere, è il Pietro del suo tempo.
Dio non guarda i meriti perché il suo amore non lo si merita ma lo si accoglie e condivide. Anche chi tra noi proviene da fragilità, miserie e debolezze assortite se se ne pente, può sperare e ottenere fiducia da Dio che trasforma in positivo la nostra vita. I Santi non sono coloro che non sbagliano mai, non cadono mai, non peccano mai, ma sono piuttosto coloro che, quando sbagliano si ravvedono, quando cadono si rialzano, quando peccano si pentono. La grandezza di Dio è sempre superiore ai nostri sbagli.
Adesso riascoltiamo quella inquietante domanda di Gesù, la domanda delle domande, che dal plurale si restringe al singolare: “Chi sono io per te?”. Una domanda che forse vogliamo fuggire, perché ci mette al muro. La risposta vera deve essere personale. La nostra risposta, come quella di Pietro, deve pennellare il rapporto che abbiamo con Gesù. Riguarda il “come” e il “quanto” collochiamo la sua presenza nelle nostre 24 ore. Cristo non è ciò che dico di Lui, ma ciò che vivo di Lui. “Chi sono io per te?”. Domanda da amare.
sabato 29 giugno 2013
domenica 23 giugno 2013
PRIMI VESPRI DELLA SOLENNITA’ DELLA NASCITA DI S. GIOVANNI BATTISTA – Vestizione del postulante Ezio
Carissimo Ezio, mi sembra oltremodo significativo che la tua vestizione, come novizio, avvenga nel contesto della Solennità della nascita di Giovanni Battista.
Egli nasce inatteso e fuori tempo come una sorpresa. Entra nella storia con un nome, Giovanni - “Dio fa grazia” - che è la sua identità, la sua vocazione. Un nome che è come una fotografia. Giovanni, era anche il nome del nostro Fondatore prima di assumere quello monastico di Bernardo. Giovanni: un nome carico di futuro, anche se nelle pieghe dell’imprevedibile. Come lo è il nome di ciascuno di noi. Come lo è e lo sarà il nome monastico che tra poco riceverai.
Come ciascuno di noi, anche tu non sei nato per caso ma per compiere un sogno di Dio. Ed è nella volontà del Signore, da te scoperta, accolta e realizzata con umile disponibilità nel nostro monastero che risiede e risiederà la tua pace interiore. Come il Battista, anche tu sei chiamato ad essere un testimone limpido della potenza di Dio che si manifesta nella debolezza. Il padre del Battista, Zaccaria, era rimasto muto perché non aveva creduto all’annuncio dell’angelo. Eppure il suo dubitare non ferma Dio e questo è molto consolante per noi: i nostri limiti, le nostre fragilità non bloccano Dio che appunto sa scrivere diritto su righe storte.
Giovanni Battista è il Precursore del Salvatore ma è anche il precursore dei monaci, a motivo della sua scelta di vita nel deserto dove, come ricorda Elredo di Rievaulx nel suo sermone Nella Nascita di Giovanni il Battista, “poté liberamente vedere e gustare come è buono il Signore” (Sl 30,20). Anche il monaco è chiamato ad essere un “precursore” di Cristo per molte persone, se non direttamente almeno con la preghiera e il buon esempio. Sii “voce”, proprio come il Battista.
In un museo tedesco, c’è un famoso dipinto in cui il Battista è raffigurato con un enorme indice puntato verso il crocifisso. E’ in questo atteggiamento che si riassume la sua storia e la sua vocazione. Anche, tu fai tuo questo atteggiamento, su di esso plasma la tua vita in ogni direzione. Se metti
La voce di Giovanni, con il suo appello alla conversione, risuona ancora oggi, non più nel deserto della Giudea ma, per te e per tutti noi monaci, nel nostro monastero che, come tutti i monasteri, è una chiesa addossata al deserto.
Egli nasce inatteso e fuori tempo come una sorpresa. Entra nella storia con un nome, Giovanni - “Dio fa grazia” - che è la sua identità, la sua vocazione. Un nome che è come una fotografia. Giovanni, era anche il nome del nostro Fondatore prima di assumere quello monastico di Bernardo. Giovanni: un nome carico di futuro, anche se nelle pieghe dell’imprevedibile. Come lo è il nome di ciascuno di noi. Come lo è e lo sarà il nome monastico che tra poco riceverai.
Come ciascuno di noi, anche tu non sei nato per caso ma per compiere un sogno di Dio. Ed è nella volontà del Signore, da te scoperta, accolta e realizzata con umile disponibilità nel nostro monastero che risiede e risiederà la tua pace interiore. Come il Battista, anche tu sei chiamato ad essere un testimone limpido della potenza di Dio che si manifesta nella debolezza. Il padre del Battista, Zaccaria, era rimasto muto perché non aveva creduto all’annuncio dell’angelo. Eppure il suo dubitare non ferma Dio e questo è molto consolante per noi: i nostri limiti, le nostre fragilità non bloccano Dio che appunto sa scrivere diritto su righe storte.
Giovanni Battista è il Precursore del Salvatore ma è anche il precursore dei monaci, a motivo della sua scelta di vita nel deserto dove, come ricorda Elredo di Rievaulx nel suo sermone Nella Nascita di Giovanni il Battista, “poté liberamente vedere e gustare come è buono il Signore” (Sl 30,20). Anche il monaco è chiamato ad essere un “precursore” di Cristo per molte persone, se non direttamente almeno con la preghiera e il buon esempio. Sii “voce”, proprio come il Battista.
In un museo tedesco, c’è un famoso dipinto in cui il Battista è raffigurato con un enorme indice puntato verso il crocifisso. E’ in questo atteggiamento che si riassume la sua storia e la sua vocazione. Anche, tu fai tuo questo atteggiamento, su di esso plasma la tua vita in ogni direzione. Se metti
La voce di Giovanni, con il suo appello alla conversione, risuona ancora oggi, non più nel deserto della Giudea ma, per te e per tutti noi monaci, nel nostro monastero che, come tutti i monasteri, è una chiesa addossata al deserto.
domenica 9 giugno 2013
DOMENICA DECIMA DEL TEMPO ORDINARIO
Gesù e un corteo funebre. La Vita incontra la morte. E, su tutto l’episodio, quelle parole: “ne ebbe compassione”.
Una madre privata dell’unico figlio. In quella bara ci sono due vite. Il suo viso rigato di lacrime che disegnano sentieri dolcissimi di nostalgia del figlio, è una preghiera senza parole. “Vedendola…”, ci dice Luca riferendosi a Gesù. “Vedere” non è solo posare lo sguardo sull’altro ma è farlo entrare dentro di se, perché l’occhio è la vera finestra del cuore. Così fa Gesù, anzi il Signore, come lo chiama quasi d’improvviso Luca. Gesù, che ha in sé cuore di uomo e cuore di Dio, si commuove. “Ne ebbe compassione”, traduzione pallida di un verbo greco che significa sconvolgimento dentro di sé insieme ad un’incontenibile tenerezza. La terra che più tardi berrà il suo sangue, adesso beve il suo piangere commosso. Il Signore raccoglie ogni nostra sofferenza, ogni nostra paura, ogni nostra malattia, ogni nostra tristezza. Ogni nostro pianto più o meno sommesso. Con noi, in quei momenti, anche Dio è infelice.
La Vita tocca la morte. Quel figlio viene restituito vivo a sua madre.
“Non piangere” le ha detto Gesù. Lo dice a tutti noi. Equipaggiati di questo suo annuncio, possiamo vincere ogni paura. Egli ripete a ciascuno di noi: “Ragazzo, te lo dico io: alzati!” (lc 7,14). E quanto è bello quel “te lo dico io”, quanto da pace e sicurezza, quanto ci fa abbandonare in Dio ed avere più fiducia nella vita.
Ma, anche noi, se abbiamo compassione, possiamo compiere dei piccoli miracoli. In certe tristi situazioni sono più efficaci le lacrime delle parole. Qualche volta, invece di dire “non piangere” sarebbe bello chiedere di poter piangere insieme perché ci sono dolori più grandi di noi, ci sono dei drammi più grandi della nostra intelligenza.
Ci sono tante “risurrezioni” possibili, se non necessarie, da attuare. Anzitutto, dentro di noi. Possiamo avere forse una fede spenta, un cuore sotto anestesia, sepolto dall’egoismo e dall’indifferenza. Una coscienza disattivata da troppo tempo. Addirittura ci può essere un’anima morta dentro di noi. Le peggiori morti sono quelle spirituali anche se dall’esterno non si notano. Sono molte e variegate le situazioni verso le quali esercitarci in tentativi di restituzione alla vita. Sono miracoli alla nostra portata.
A pensarci bene, ci sono anche vivi da risuscitare! Persone che non si aspettano più nulla. Persone mai amate o mal amate. Persone paralizzate dalla solitudine o dalla disperazione, magari per una brutta malattia. Persone che hanno perso la voglia di vivere o che sono stanche di non vivere. Prima o poi incontriamo qualcuno che ci offre la possibilità di rappresentare Dio che ama la vita, cambia la vita, restituisce la vita.
Essere cristiani non significa solo avere il coraggio della propria fede ma avere anche il coraggio del proprio cuore, commisurato su quello di Cristo.
Una madre privata dell’unico figlio. In quella bara ci sono due vite. Il suo viso rigato di lacrime che disegnano sentieri dolcissimi di nostalgia del figlio, è una preghiera senza parole. “Vedendola…”, ci dice Luca riferendosi a Gesù. “Vedere” non è solo posare lo sguardo sull’altro ma è farlo entrare dentro di se, perché l’occhio è la vera finestra del cuore. Così fa Gesù, anzi il Signore, come lo chiama quasi d’improvviso Luca. Gesù, che ha in sé cuore di uomo e cuore di Dio, si commuove. “Ne ebbe compassione”, traduzione pallida di un verbo greco che significa sconvolgimento dentro di sé insieme ad un’incontenibile tenerezza. La terra che più tardi berrà il suo sangue, adesso beve il suo piangere commosso. Il Signore raccoglie ogni nostra sofferenza, ogni nostra paura, ogni nostra malattia, ogni nostra tristezza. Ogni nostro pianto più o meno sommesso. Con noi, in quei momenti, anche Dio è infelice.
La Vita tocca la morte. Quel figlio viene restituito vivo a sua madre.
“Non piangere” le ha detto Gesù. Lo dice a tutti noi. Equipaggiati di questo suo annuncio, possiamo vincere ogni paura. Egli ripete a ciascuno di noi: “Ragazzo, te lo dico io: alzati!” (lc 7,14). E quanto è bello quel “te lo dico io”, quanto da pace e sicurezza, quanto ci fa abbandonare in Dio ed avere più fiducia nella vita.
Ma, anche noi, se abbiamo compassione, possiamo compiere dei piccoli miracoli. In certe tristi situazioni sono più efficaci le lacrime delle parole. Qualche volta, invece di dire “non piangere” sarebbe bello chiedere di poter piangere insieme perché ci sono dolori più grandi di noi, ci sono dei drammi più grandi della nostra intelligenza.
Ci sono tante “risurrezioni” possibili, se non necessarie, da attuare. Anzitutto, dentro di noi. Possiamo avere forse una fede spenta, un cuore sotto anestesia, sepolto dall’egoismo e dall’indifferenza. Una coscienza disattivata da troppo tempo. Addirittura ci può essere un’anima morta dentro di noi. Le peggiori morti sono quelle spirituali anche se dall’esterno non si notano. Sono molte e variegate le situazioni verso le quali esercitarci in tentativi di restituzione alla vita. Sono miracoli alla nostra portata.
A pensarci bene, ci sono anche vivi da risuscitare! Persone che non si aspettano più nulla. Persone mai amate o mal amate. Persone paralizzate dalla solitudine o dalla disperazione, magari per una brutta malattia. Persone che hanno perso la voglia di vivere o che sono stanche di non vivere. Prima o poi incontriamo qualcuno che ci offre la possibilità di rappresentare Dio che ama la vita, cambia la vita, restituisce la vita.
Essere cristiani non significa solo avere il coraggio della propria fede ma avere anche il coraggio del proprio cuore, commisurato su quello di Cristo.
venerdì 7 giugno 2013
SOLENNITA’ DEL SACRO CUORE DI GESU’
A pochi giorni dalla Solennità del Corpus Domini, celebriamo oggi quella del Sacro Cuore di Gesù. Nel cuore del Figlio c’è tutto il Padre. Dio è “cuore”! E è questa la conclusione cui si arriva dopo aver ascoltato la parabola di Gesù che, insieme ad altre due, Luca raggruppa nel capitolo 15° del suo Vangelo e che vengono significativamente collocate sotto il comune denominatore della misericordia.
Viene abitualmente chiamata la parabola della pecora smarrita. Non è un raccontino strappa lacrime anche se commuove. In realtà, dovrebbe essere definitiva come la parabola dell’uomo dalle cento pecore. E’ lui, il proprietario e pastore, che sta al centro. Un comportamento un po’ atipico e strano il suo, anzi piuttosto imprudente. Ne lascia 99 incustodite per cercare quella non smarrita ma perduta. Dio non ragiona come il contabile di una ditta. Per una, rischia tutte le altre. Sembra quasi che Dio sappia contare solo fino ad uno. E’ la logica del suo amore esagerato che non si rassegna a perdere nessuno di noi. Questa ostinazione di Dio ci è rivelata da un avverbio: “finchè…”. Dio non accetta il fallimento del suo amore per ciascuno di noi. Non vuole un posto vuoto in cielo. In un libro dedicato all’arte romanica, ho notato che in uno dei capitelli di una basilica si contempla il Cristo, che appena risorto, va all’albero da cui pende Giuda e se lo mette sulle spalle. Quelle spalle che hanno portato il peso della croce diventano lo spazio su cui ognuno di noi può essere portato col suo carico di debolezze e fragilità.
A questo punto, il vero protagonista della parabola è la gioia che celebra un amore che non si è arreso. Una gioia che si trasferisce anche in cielo: “… così vi sarà gioia nel cielo”. (Lc 15,7).
Entriamo nel Cuore di Dio attraverso l’accesso unico, il solo, il sole di quel Cuore: Gesù.
Per entrare nel cuore di Dio e nel nostro stesso cuore basta un nome: Gesù!
E saremo salvati da tutto ciò che non è amore.
Inizio: A pochi giorni dalla Solennità del Corpus Domini, celebriamo oggi la Solennità del Sacro Cuore di Gesù, che ha riferimenti biblici saldi e profondi. Un Cuore che ci rivela il Padre. Un Cuore che ci educa a vivere nell’amore.
Viene abitualmente chiamata la parabola della pecora smarrita. Non è un raccontino strappa lacrime anche se commuove. In realtà, dovrebbe essere definitiva come la parabola dell’uomo dalle cento pecore. E’ lui, il proprietario e pastore, che sta al centro. Un comportamento un po’ atipico e strano il suo, anzi piuttosto imprudente. Ne lascia 99 incustodite per cercare quella non smarrita ma perduta. Dio non ragiona come il contabile di una ditta. Per una, rischia tutte le altre. Sembra quasi che Dio sappia contare solo fino ad uno. E’ la logica del suo amore esagerato che non si rassegna a perdere nessuno di noi. Questa ostinazione di Dio ci è rivelata da un avverbio: “finchè…”. Dio non accetta il fallimento del suo amore per ciascuno di noi. Non vuole un posto vuoto in cielo. In un libro dedicato all’arte romanica, ho notato che in uno dei capitelli di una basilica si contempla il Cristo, che appena risorto, va all’albero da cui pende Giuda e se lo mette sulle spalle. Quelle spalle che hanno portato il peso della croce diventano lo spazio su cui ognuno di noi può essere portato col suo carico di debolezze e fragilità.
A questo punto, il vero protagonista della parabola è la gioia che celebra un amore che non si è arreso. Una gioia che si trasferisce anche in cielo: “… così vi sarà gioia nel cielo”. (Lc 15,7).
Entriamo nel Cuore di Dio attraverso l’accesso unico, il solo, il sole di quel Cuore: Gesù.
Per entrare nel cuore di Dio e nel nostro stesso cuore basta un nome: Gesù!
E saremo salvati da tutto ciò che non è amore.
Inizio: A pochi giorni dalla Solennità del Corpus Domini, celebriamo oggi la Solennità del Sacro Cuore di Gesù, che ha riferimenti biblici saldi e profondi. Un Cuore che ci rivela il Padre. Un Cuore che ci educa a vivere nell’amore.
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