Anche oggi è scattato, puntuale ed elettrizzante come la suoneria di una sveglia, l’energico richiamo di Gesù nel vangelo delle Ceneri che apre quella specie di grande e collettivo ritiro spirituale di tutta la Chiesa che è la Quaresima, all’insegna del trinomio dettato direttamente da Gesù: elemosina, preghiera, digiuno che erano tre le opere classiche della pietà giudaica. Gesù le ripropone ma passandole in rassegna al filtro del suo sguardo acuto e penetrante, mettendoci in guardia dalle tossine dell’ipocrisia che potrebbero appannarne la trasparenza e la genuinità.
“Pieno compimento della legge è la carità” (Rm 13,10). Solo la carità può raschiare la ruggine dell’ipocrisia quando essa intacca le nostre pratiche. Ma una carità è perfetta quando non è finta. Per questo Paolo, sempre nella stessa lettera ai Romani, raccomanda:”La carità non sia ipocrita” (Rm 12,9), cioè letteralmente: senza finzioni. Se, come sappiamo, la parola “ipocrita” nell’antichità alludeva all’attore che nasconde il suo vero volto sotto la maschera, il termine “sincero” invece, secondo una etimologia popolare deriverebbe da sine cera, potremmo tradurre “senza trucco”, cioè autentico. Il termometro per questa verifica è quello della verità nella carità (cfr Ef 4,15). Ora, la carità si ammala di ipocrisia nella nostra vita comunitaria in due casi: quando si dice bene dell’altro e nello stesso tempo si pensa male di lui, oppure quando si fa del bene a qualcuno, ma poi con la bocca si fa della maldicenza alle sue spalle.
Ci sono due falò che bisogna accendere nel nostro cuore in questa Quaresima. Il primo è quello dei pensieri maligni o dei giudizi temerari. Sono tre i motivi che ci consegna la Parola di Dio per non cadere nel peccato grave di giudicare i nostri fratelli. Il primo lo troviamo sulle labbra di Gesù: “Non giudicate, per non essere giudicati…perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?” (MT 7,1-3). Cioè: il peccato del tuo fratello è una pagliuzza rispetto alla trave quale è il peccato tuo di giudicare il peccato suo. Un secondo motivo lo troviamo in San Giacomo: “Chi sei tu, che giudichi il tuo prossimo?” (Gc 4,12) L’Apostolo vuol dire: alt! Come ti permetti di giudicare quello che passa nel cuore di una persona? Che ne sai tu del “guazzabuglio del cuore umano” (Manzoni)? A volte, giudicare i movimenti del cuore altrui può essere un’operazione ad alto rischio, perché è come sparare nel mucchio, senza sapere dove si andrà a colpire. Lasciamo che a far luce nei sotterranei della coscienza del fratello scenda solo il raggio imparziale, ma pur sempre misericordioso, di Dio. Il terzo motivo per non giudicare gli altri ce lo propone S. Paolo: “… mentre giudichi l’altro tu condanni te stesso; infatti tu che giudichi, fai le medesime cose” (Rm 2,1). Questa è una verità amara di cui ci siamo resi conto ogni volta che abbiamo giudicato qualcuno e poi ci è toccato riconoscere di esserci macchiati anche noi della stessa colpa. L’ipocrisia va a braccetto con l’autoassoluzione indulgente di sé e con il giudizio impietoso nei confronti degli altri. E’ un tratto conosciuto e tipico della psicologia umana il giudicare e condannare negli altri ciò che ci dispiace in noi stessi. In genere, a questo, si accompagna anche la mormorazione: “murmurationis malum” (RB 34,6) e, al cap. 40,9: “raccomandiamo anzitutto di astenersi dal mormorare”. Sappiamo come S. Benedetto sia molto severo su questo punto.
Il secondo falò interiore da fare è quello delle parole cattive. Un digiuno quanto mai salutare. Esercitarci a bruciare sul nascere, nel nostro cuore, quelle parole negative, maliziose, taglienti, impietose, che se dette sarebbero altrettante frecce avvelenate. In un apoftegma si racconta di un giovane monaco, fanatico del digiuno e delle austerità ma che però parlava sempre male dei suoi confratelli. Venne ricondotto al primato della carità da un monaco che gli disse: ”E’ meglio per te mangiare carne e bere vino piuttosto che ‘mangiare’ con la maldicenza la carne dei tuoi fratelli”. Rimane sempre vero che ne uccide più la lingua della spada! Nessuno di noi può sentirsi esonerato da questo robusto ma necessario impegno. In quel romanzo incompiuto, saturo di infelicità e di poesia, che è “Il processo” di Kafka, il protagonista dichiara: “Io non sono colpevole … qui siamo tutti uomini, l’uno come l’altro”. E la risposta che riceve è: “Giusto, ma è proprio così che parlano i colpevoli”.
La Quaresima è tempo forte di conversione, cioè di inversione a U per imboccare decisamente la svolta verso la Pasqua. Spesso si dice che la conversione è un rovesciamento. Dipende dalla prospettiva. A ben guardare è un raddrizzamento, cioè una rimettersi in piedi con una sana e santa inquietudine. Non potremo fare la comunione pasquale il 31 marzo se non ci alleniamo a fare comunione tra noi, volendoci sinceramente bene gli uni gli altri e, per questo, a pensare bene e a dire bene gli uni degli altri. Una Quaresima seria per una Pasqua vera!
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