Ogni anno la Chiesa latina celebra la Cattedra di San Pietro. Ma non è la festa di un mobile - la cattedra - per quanto sacro e necessario.
La Parola di Dio scelta per accompagnare questa festa ci riporta ad uno dei momenti più forti dell’esperienza di Pietro alla sequela del Signore Gesù e alla sua bella, nitida,solare e ardente professione di fede: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16). Pietro inciampa in parole più grandi lui, vertiginose, che non possono essere il prodotto della sua testa o di congetture, ma una verità che ha avuto in dono dall’alto. Sulla bocca di Pietro fioriscono delle parole che stanno a fondamento della fede di tutta la Chiesa, in ogni luogo e sempre.
Ogni giorno ma soprattutto in questo anno della fede, il Signore Gesù continua ad interrogarci: “Ma voi, chi dite che io sia?” (Mt 16,15). Lasciamoci intercettare e interpellare da questa domanda.
Il Credo con scrupolosa chiarezza ci fa dire: “Credo in Gesù Cristo…”. Nella grammatica della fede cristiana il verbo credere non regge il complemento oggetto: credo Gesù Cristo…, ma credo in Gesù Cristo. C’è una specie di movimento verso, di trasporto in direzione del Cristo nel senso che su di Lui si costruisce la vita, ne diventa il baricentro, il cuore pulsante della nostra storia personale.
Questa festa cade in un momento particolare della vita della Chiesa: vogliamo pregare con particolare intensità e gratitudine pere l’attuale successore di San Pietro e per il ministero di presidenza e servizio del prossimo papa.
venerdì 22 febbraio 2013
mercoledì 13 febbraio 2013
MERCOLEDÌ DELLE CENERI
Anche oggi è scattato, puntuale ed elettrizzante come la suoneria di una sveglia, l’energico richiamo di Gesù nel vangelo delle Ceneri che apre quella specie di grande e collettivo ritiro spirituale di tutta la Chiesa che è la Quaresima, all’insegna del trinomio dettato direttamente da Gesù: elemosina, preghiera, digiuno che erano tre le opere classiche della pietà giudaica. Gesù le ripropone ma passandole in rassegna al filtro del suo sguardo acuto e penetrante, mettendoci in guardia dalle tossine dell’ipocrisia che potrebbero appannarne la trasparenza e la genuinità.
“Pieno compimento della legge è la carità” (Rm 13,10). Solo la carità può raschiare la ruggine dell’ipocrisia quando essa intacca le nostre pratiche. Ma una carità è perfetta quando non è finta. Per questo Paolo, sempre nella stessa lettera ai Romani, raccomanda:”La carità non sia ipocrita” (Rm 12,9), cioè letteralmente: senza finzioni. Se, come sappiamo, la parola “ipocrita” nell’antichità alludeva all’attore che nasconde il suo vero volto sotto la maschera, il termine “sincero” invece, secondo una etimologia popolare deriverebbe da sine cera, potremmo tradurre “senza trucco”, cioè autentico. Il termometro per questa verifica è quello della verità nella carità (cfr Ef 4,15). Ora, la carità si ammala di ipocrisia nella nostra vita comunitaria in due casi: quando si dice bene dell’altro e nello stesso tempo si pensa male di lui, oppure quando si fa del bene a qualcuno, ma poi con la bocca si fa della maldicenza alle sue spalle.
Ci sono due falò che bisogna accendere nel nostro cuore in questa Quaresima. Il primo è quello dei pensieri maligni o dei giudizi temerari. Sono tre i motivi che ci consegna la Parola di Dio per non cadere nel peccato grave di giudicare i nostri fratelli. Il primo lo troviamo sulle labbra di Gesù: “Non giudicate, per non essere giudicati…perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?” (MT 7,1-3). Cioè: il peccato del tuo fratello è una pagliuzza rispetto alla trave quale è il peccato tuo di giudicare il peccato suo. Un secondo motivo lo troviamo in San Giacomo: “Chi sei tu, che giudichi il tuo prossimo?” (Gc 4,12) L’Apostolo vuol dire: alt! Come ti permetti di giudicare quello che passa nel cuore di una persona? Che ne sai tu del “guazzabuglio del cuore umano” (Manzoni)? A volte, giudicare i movimenti del cuore altrui può essere un’operazione ad alto rischio, perché è come sparare nel mucchio, senza sapere dove si andrà a colpire. Lasciamo che a far luce nei sotterranei della coscienza del fratello scenda solo il raggio imparziale, ma pur sempre misericordioso, di Dio. Il terzo motivo per non giudicare gli altri ce lo propone S. Paolo: “… mentre giudichi l’altro tu condanni te stesso; infatti tu che giudichi, fai le medesime cose” (Rm 2,1). Questa è una verità amara di cui ci siamo resi conto ogni volta che abbiamo giudicato qualcuno e poi ci è toccato riconoscere di esserci macchiati anche noi della stessa colpa. L’ipocrisia va a braccetto con l’autoassoluzione indulgente di sé e con il giudizio impietoso nei confronti degli altri. E’ un tratto conosciuto e tipico della psicologia umana il giudicare e condannare negli altri ciò che ci dispiace in noi stessi. In genere, a questo, si accompagna anche la mormorazione: “murmurationis malum” (RB 34,6) e, al cap. 40,9: “raccomandiamo anzitutto di astenersi dal mormorare”. Sappiamo come S. Benedetto sia molto severo su questo punto.
Il secondo falò interiore da fare è quello delle parole cattive. Un digiuno quanto mai salutare. Esercitarci a bruciare sul nascere, nel nostro cuore, quelle parole negative, maliziose, taglienti, impietose, che se dette sarebbero altrettante frecce avvelenate. In un apoftegma si racconta di un giovane monaco, fanatico del digiuno e delle austerità ma che però parlava sempre male dei suoi confratelli. Venne ricondotto al primato della carità da un monaco che gli disse: ”E’ meglio per te mangiare carne e bere vino piuttosto che ‘mangiare’ con la maldicenza la carne dei tuoi fratelli”. Rimane sempre vero che ne uccide più la lingua della spada! Nessuno di noi può sentirsi esonerato da questo robusto ma necessario impegno. In quel romanzo incompiuto, saturo di infelicità e di poesia, che è “Il processo” di Kafka, il protagonista dichiara: “Io non sono colpevole … qui siamo tutti uomini, l’uno come l’altro”. E la risposta che riceve è: “Giusto, ma è proprio così che parlano i colpevoli”.
La Quaresima è tempo forte di conversione, cioè di inversione a U per imboccare decisamente la svolta verso la Pasqua. Spesso si dice che la conversione è un rovesciamento. Dipende dalla prospettiva. A ben guardare è un raddrizzamento, cioè una rimettersi in piedi con una sana e santa inquietudine. Non potremo fare la comunione pasquale il 31 marzo se non ci alleniamo a fare comunione tra noi, volendoci sinceramente bene gli uni gli altri e, per questo, a pensare bene e a dire bene gli uni degli altri. Una Quaresima seria per una Pasqua vera!
“Pieno compimento della legge è la carità” (Rm 13,10). Solo la carità può raschiare la ruggine dell’ipocrisia quando essa intacca le nostre pratiche. Ma una carità è perfetta quando non è finta. Per questo Paolo, sempre nella stessa lettera ai Romani, raccomanda:”La carità non sia ipocrita” (Rm 12,9), cioè letteralmente: senza finzioni. Se, come sappiamo, la parola “ipocrita” nell’antichità alludeva all’attore che nasconde il suo vero volto sotto la maschera, il termine “sincero” invece, secondo una etimologia popolare deriverebbe da sine cera, potremmo tradurre “senza trucco”, cioè autentico. Il termometro per questa verifica è quello della verità nella carità (cfr Ef 4,15). Ora, la carità si ammala di ipocrisia nella nostra vita comunitaria in due casi: quando si dice bene dell’altro e nello stesso tempo si pensa male di lui, oppure quando si fa del bene a qualcuno, ma poi con la bocca si fa della maldicenza alle sue spalle.
Ci sono due falò che bisogna accendere nel nostro cuore in questa Quaresima. Il primo è quello dei pensieri maligni o dei giudizi temerari. Sono tre i motivi che ci consegna la Parola di Dio per non cadere nel peccato grave di giudicare i nostri fratelli. Il primo lo troviamo sulle labbra di Gesù: “Non giudicate, per non essere giudicati…perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?” (MT 7,1-3). Cioè: il peccato del tuo fratello è una pagliuzza rispetto alla trave quale è il peccato tuo di giudicare il peccato suo. Un secondo motivo lo troviamo in San Giacomo: “Chi sei tu, che giudichi il tuo prossimo?” (Gc 4,12) L’Apostolo vuol dire: alt! Come ti permetti di giudicare quello che passa nel cuore di una persona? Che ne sai tu del “guazzabuglio del cuore umano” (Manzoni)? A volte, giudicare i movimenti del cuore altrui può essere un’operazione ad alto rischio, perché è come sparare nel mucchio, senza sapere dove si andrà a colpire. Lasciamo che a far luce nei sotterranei della coscienza del fratello scenda solo il raggio imparziale, ma pur sempre misericordioso, di Dio. Il terzo motivo per non giudicare gli altri ce lo propone S. Paolo: “… mentre giudichi l’altro tu condanni te stesso; infatti tu che giudichi, fai le medesime cose” (Rm 2,1). Questa è una verità amara di cui ci siamo resi conto ogni volta che abbiamo giudicato qualcuno e poi ci è toccato riconoscere di esserci macchiati anche noi della stessa colpa. L’ipocrisia va a braccetto con l’autoassoluzione indulgente di sé e con il giudizio impietoso nei confronti degli altri. E’ un tratto conosciuto e tipico della psicologia umana il giudicare e condannare negli altri ciò che ci dispiace in noi stessi. In genere, a questo, si accompagna anche la mormorazione: “murmurationis malum” (RB 34,6) e, al cap. 40,9: “raccomandiamo anzitutto di astenersi dal mormorare”. Sappiamo come S. Benedetto sia molto severo su questo punto.
Il secondo falò interiore da fare è quello delle parole cattive. Un digiuno quanto mai salutare. Esercitarci a bruciare sul nascere, nel nostro cuore, quelle parole negative, maliziose, taglienti, impietose, che se dette sarebbero altrettante frecce avvelenate. In un apoftegma si racconta di un giovane monaco, fanatico del digiuno e delle austerità ma che però parlava sempre male dei suoi confratelli. Venne ricondotto al primato della carità da un monaco che gli disse: ”E’ meglio per te mangiare carne e bere vino piuttosto che ‘mangiare’ con la maldicenza la carne dei tuoi fratelli”. Rimane sempre vero che ne uccide più la lingua della spada! Nessuno di noi può sentirsi esonerato da questo robusto ma necessario impegno. In quel romanzo incompiuto, saturo di infelicità e di poesia, che è “Il processo” di Kafka, il protagonista dichiara: “Io non sono colpevole … qui siamo tutti uomini, l’uno come l’altro”. E la risposta che riceve è: “Giusto, ma è proprio così che parlano i colpevoli”.
La Quaresima è tempo forte di conversione, cioè di inversione a U per imboccare decisamente la svolta verso la Pasqua. Spesso si dice che la conversione è un rovesciamento. Dipende dalla prospettiva. A ben guardare è un raddrizzamento, cioè una rimettersi in piedi con una sana e santa inquietudine. Non potremo fare la comunione pasquale il 31 marzo se non ci alleniamo a fare comunione tra noi, volendoci sinceramente bene gli uni gli altri e, per questo, a pensare bene e a dire bene gli uni degli altri. Una Quaresima seria per una Pasqua vera!
lunedì 11 febbraio 2013
B.M.V. di Lourdes – Giornata del malato –
Siamo qui riuniti a celebrare l’Eucarestia nel ricordo delle 18 apparizioni della Madonna a Lourdes, avvenute tra l’11 febbraio e il 16 luglio del 1858, ad una ragazzina quattordicenne analfabeta, Bernardette Soubirous. Oggi Lourdes è uno dei più grandi luoghi di pellegrinaggio, è una capitale della preghiera e delle conversioni. Molti vanno a chiedere il miracolo della guarigione fisica. Lourdes è in realtà come la mano tesa di un mendicante, un collage di migliaia, di milioni di mani spalancate. Il miracolo che tutti ricevono a Lourdes è un miracolo quotidiano e umile: la speranza. Speranza come un filo sottile ma forte, come il rosario stretto tra le dita della mano quasi ad aggrapparcisi. Un miracolo che non è registrato dai giornali ma si legge nelle faccia di coloro che se ne escono da quel santuario. L’ospedale è un po’ un pianeta del dolore, un mosaico di sofferenze fisiche. So che sono presenti diversi operatori sanitari, medici, in- fermieri e volontari e li ringrazio per questo gesto di partecipazione. Siamo tutti certi della professionalità e della sensibilità che vi impegna a servizio dei vostri malati, protagonisti all’ingrosso o al dettaglio (a secondo della malattia) delle vostre cure. Il mondo del dolore invoca il vostro amore.
Qui, in mezzo a noi, ci sono dei fratelli e delle sorelle provati dalla malattia, che stano facendo esperienza della fragilità della vita, dei propri limiti. E magari, sul panno già sfibrato della loro permanenza in ospedale, si sono aggiunte sofferenze supplementari o problemi vari dei loro famigliari. E a loro, che convivono con il dolore, che mi rivolgo adesso in modo particolare, chiedendo però scusa per ogni parola di troppo. Voi non dite niente ma dite tutto. Siete cattedre luminose. La malattia è una grande scuola, ma una scuola difficile. A questa scuola spesso siete chiamati a far compagnia ai rantoli di Cristo in croce. E’ una scuola dove non contano le parole, contano le lacrime, soprattutto quelle che non arrivano agli occhi ma si fermano al cuore. E’ una scuola dura dove i progressi non sono misurati dai libri che si leggono ma dalle ore e dai giorni segnati da un dolore fisico spesso ostinato e persistente. E’ una scuola dove la promozione non è espressa dal giudizio degli uomini ma è scritta da Dio il quale ben sa ciò che amaramente sopportate. Il Crocifisso è di questa scuola l’unico testo valido. Alla scuola del doloro c’è stato anche Gesù.
La Madonna, in questo momento parla a ciascuno di voi, malati. E vi dice così: Dio sa che ci sei e chi sei. Quante volte, magari nelle interminabili notti senza sonno e senza riposo, in quelle matinate noiose, in quei pomeriggi che non finiscono mai, ti sei sentito solo ad affrontare la tua sofferenza fisica e forse, proprio per questo, hai provato un senso di grande inutilità della tua vita e ti sei detto: ma che ci sto a fare io al mondo? Ti sei sentito come un povero in cerca di surrogati di speranza. Ebbene Dio in quei momenti viene sempre a trovarti in punta di piedi. Quando accanto al tuo letto non c’è nessuno, Lui c’è sempre, come ricorda un versetto del Salmo 34:”Il Signore è vicino a chi ha il cuore ferito” (Sl 34,18). La tentazione di ribellarsi o di rassegnarsi è facile e comprensibile. Occorre invece reagire con tutte le forze con fiducia nei medici e nelle medicine certo ma anche mettersi in cooperativa con la croce di Cristo. Questo è un punto inquietante e difficile, ma vero. Quando non ce la fai più, chiamalo il tuo Signore, non è necessario urlare, non può non sentirti. E’ appena inchiodato dietro di te. Ha un nome breve: Gesù.
Qui, in mezzo a noi, ci sono dei fratelli e delle sorelle provati dalla malattia, che stano facendo esperienza della fragilità della vita, dei propri limiti. E magari, sul panno già sfibrato della loro permanenza in ospedale, si sono aggiunte sofferenze supplementari o problemi vari dei loro famigliari. E a loro, che convivono con il dolore, che mi rivolgo adesso in modo particolare, chiedendo però scusa per ogni parola di troppo. Voi non dite niente ma dite tutto. Siete cattedre luminose. La malattia è una grande scuola, ma una scuola difficile. A questa scuola spesso siete chiamati a far compagnia ai rantoli di Cristo in croce. E’ una scuola dove non contano le parole, contano le lacrime, soprattutto quelle che non arrivano agli occhi ma si fermano al cuore. E’ una scuola dura dove i progressi non sono misurati dai libri che si leggono ma dalle ore e dai giorni segnati da un dolore fisico spesso ostinato e persistente. E’ una scuola dove la promozione non è espressa dal giudizio degli uomini ma è scritta da Dio il quale ben sa ciò che amaramente sopportate. Il Crocifisso è di questa scuola l’unico testo valido. Alla scuola del doloro c’è stato anche Gesù.
La Madonna, in questo momento parla a ciascuno di voi, malati. E vi dice così: Dio sa che ci sei e chi sei. Quante volte, magari nelle interminabili notti senza sonno e senza riposo, in quelle matinate noiose, in quei pomeriggi che non finiscono mai, ti sei sentito solo ad affrontare la tua sofferenza fisica e forse, proprio per questo, hai provato un senso di grande inutilità della tua vita e ti sei detto: ma che ci sto a fare io al mondo? Ti sei sentito come un povero in cerca di surrogati di speranza. Ebbene Dio in quei momenti viene sempre a trovarti in punta di piedi. Quando accanto al tuo letto non c’è nessuno, Lui c’è sempre, come ricorda un versetto del Salmo 34:”Il Signore è vicino a chi ha il cuore ferito” (Sl 34,18). La tentazione di ribellarsi o di rassegnarsi è facile e comprensibile. Occorre invece reagire con tutte le forze con fiducia nei medici e nelle medicine certo ma anche mettersi in cooperativa con la croce di Cristo. Questo è un punto inquietante e difficile, ma vero. Quando non ce la fai più, chiamalo il tuo Signore, non è necessario urlare, non può non sentirti. E’ appena inchiodato dietro di te. Ha un nome breve: Gesù.
sabato 2 febbraio 2013
FESTA DELLA PRESENTAZIONE DEL SIGNORE
Ecco è accaduto: è realmente accaduto a un bambino portato nel tempio come tanti altri bambini, secondo il precetto mosaico, di venire riconosciuto come il primo - “il primogenito sacro al Signore” – di essere identificato come l’unico, come l’atteso. E’ realmente accaduto ad un anziano di stringere tra le sue braccia la luce del mondo, “leggere” Dio nel bambino di Maria. E’ realmente accaduto alla giovanissima madre di sentirsi percorrere da un brivido nel lampo di quella spada che le avrebbe attraversato la vita, facendole acquistare un altro nome: Addolorata. Simeone lega Maria non solo alla croce del Figlio ma anche alle innumerevoli croci degli uomini, tutti a carico del suo amore materno, insegnandoci che la sofferenza più che spiegazione vuole condivisione. Così il mistero gaudioso della presentazione di Gesù al tempio è diventato di schianto il prologo della serie straziante dei futuri misteri dolorosi.
Orientati a Dio come girasoli alla luce. Simeone e Anna vivono la sorpresa dell’incontro con Dio che si manifesta ai loro occhi rapiti e sbigottiti. Vedono l’infinito entrare nel finito. Raccolgono la risposta retrodatata all’appassionato sospiro di Albert Camus: “Basterebbe che l’impossibile fosse!”. Simeone e Anna vedono ciò che altri non vedono: l’inizio dell’offensiva di Dio per salvarci. Loro sono lì, nel tempio, anche per tutti noi: l’intera umanità incrocia il suo Salvatore nella Chiesa.
Un gesto, un segno, un dono. Sono i tre archi che articolano questa festa, ponte tra Natale e Pasqua. Il gesto è quello dell’offerta, il segno è quello della luce, il dono è quello dell’incontro. In questo itinerario che scorre dall’offerta all’incontro, noi monaci come tutti i consacrati, ci rispecchiamo perché vi possiamo riconoscere la dinamica della nostra vocazione, con la sua avvincente bellezza. Ognuno con varianti proprie, dovute a circostanze, luoghi e persone. “E anche a te una spada trafiggerà l’anima” (Lc 2,35). L’espressione “e anche a te” (et tuam ipsius animam…) ci ricorda con realismo che accogliere il progetto di Dio su di noi può talvolta costare tanta fatica, le prove e le crisi o ci sono o sono sempre in agguato. In quei momenti, facciamoci regalare da Simeone la virtù della perseveranza, abbinata a speranza e fiducia in Dio sforzandoci di vedere noi stessi dall’alto e anche, se è il caso, non prendendoci troppo sul serio. Quel passare del bambino dalle braccia di Maria a quelle di Simeone è carico di messaggi che dobbiamo raccogliere. In filigrana vi leggiamo l’invito forte a prendere tra le nostre braccia la presenza di Dio che abita il nostro quotidiano in monastero. Abbracciando quel bambino riceviamo inevitabilmente le impronte di Dio su di noi.
Sappiamo che la grammatica esistenziale del monaco si declina sul “si revera Deum quaerit” (RB 58,7). Come è stato per Simeone, così anche per il monaco è necessario avere un cuore attento per riconoscere il Signore che abitualmente si nasconde sotto le apparenze più semplici. La Regola ce lo ricorda in quasi tutti i capitoli: l’abate, i fratelli (anziani e giovani), gli ammalati, i poveri, gli ospiti…in quello spazio che è il monastero: “officina vero claustra sunt monasterii, ricorda la Regola in chiusa del quarto capitolo(RB 4,78). E, in fondo, sta in questa litania quotidiana di incontri la vera gioia del monaco che alla fine di ogni sua giornata, a Compieta, può cantare in verità: “Ora lascia o Signore, che il tuo servo vada in pace… perché i miei occhi hanno visto…visto!. E in questo vedere è tutta la vita del monaco!
Orientati a Dio come girasoli alla luce. Simeone e Anna vivono la sorpresa dell’incontro con Dio che si manifesta ai loro occhi rapiti e sbigottiti. Vedono l’infinito entrare nel finito. Raccolgono la risposta retrodatata all’appassionato sospiro di Albert Camus: “Basterebbe che l’impossibile fosse!”. Simeone e Anna vedono ciò che altri non vedono: l’inizio dell’offensiva di Dio per salvarci. Loro sono lì, nel tempio, anche per tutti noi: l’intera umanità incrocia il suo Salvatore nella Chiesa.
Un gesto, un segno, un dono. Sono i tre archi che articolano questa festa, ponte tra Natale e Pasqua. Il gesto è quello dell’offerta, il segno è quello della luce, il dono è quello dell’incontro. In questo itinerario che scorre dall’offerta all’incontro, noi monaci come tutti i consacrati, ci rispecchiamo perché vi possiamo riconoscere la dinamica della nostra vocazione, con la sua avvincente bellezza. Ognuno con varianti proprie, dovute a circostanze, luoghi e persone. “E anche a te una spada trafiggerà l’anima” (Lc 2,35). L’espressione “e anche a te” (et tuam ipsius animam…) ci ricorda con realismo che accogliere il progetto di Dio su di noi può talvolta costare tanta fatica, le prove e le crisi o ci sono o sono sempre in agguato. In quei momenti, facciamoci regalare da Simeone la virtù della perseveranza, abbinata a speranza e fiducia in Dio sforzandoci di vedere noi stessi dall’alto e anche, se è il caso, non prendendoci troppo sul serio. Quel passare del bambino dalle braccia di Maria a quelle di Simeone è carico di messaggi che dobbiamo raccogliere. In filigrana vi leggiamo l’invito forte a prendere tra le nostre braccia la presenza di Dio che abita il nostro quotidiano in monastero. Abbracciando quel bambino riceviamo inevitabilmente le impronte di Dio su di noi.
Sappiamo che la grammatica esistenziale del monaco si declina sul “si revera Deum quaerit” (RB 58,7). Come è stato per Simeone, così anche per il monaco è necessario avere un cuore attento per riconoscere il Signore che abitualmente si nasconde sotto le apparenze più semplici. La Regola ce lo ricorda in quasi tutti i capitoli: l’abate, i fratelli (anziani e giovani), gli ammalati, i poveri, gli ospiti…in quello spazio che è il monastero: “officina vero claustra sunt monasterii, ricorda la Regola in chiusa del quarto capitolo(RB 4,78). E, in fondo, sta in questa litania quotidiana di incontri la vera gioia del monaco che alla fine di ogni sua giornata, a Compieta, può cantare in verità: “Ora lascia o Signore, che il tuo servo vada in pace… perché i miei occhi hanno visto…visto!. E in questo vedere è tutta la vita del monaco!
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