La figura del nostro Fondatore ci ripresenta ogni anno una lista di valori di pura marca benedettina, da lui vissuti al massimo grado come affermano concordi i nostri storici. Tra essi, brilla in modo particolare il suo amore al silenzio. Lui e i suoi monaci erano entrati nel solco classico dell’ascesi monastica: “in silentio maximi” e vivendo sine glossa il sesto capitolo della Regola di S. Benedetto: De taciturnitate.
Il silenzio fa paura a molti nostri contemporanei perché li obbliga a fare dei conti inquietanti con se stessi. Costringe ad ascoltare gli atti di accusa di una coscienza forse troppo disattesa. Sono assediati dal rumore, bombardati da parole e suoni di ogni tipo. Un’aggressione acustica. Come se si volesse mettere sotto anestesia le dimensioni più importanti della vita. E così si resta facilmente nella schiuma delle apparenze, si vive alla superficie di se stessi.
Naturalmente il silenzio non va confuso con il mutismo cronico e ostinato che è la deformazione del silenzio. Il silenzio può essere negativo se esprime egoismo, indifferenza, insensibilità, estraneità ai problemi e sofferenze dell’altro; un silenzio in cui ringhia il rancore, l’ostilità, il disprezzo. E’ quello che S. Gregorio Magno definisce come lo strepitus silentii… O, come si dice oggi con il linguaggio post-moderno, è il silenzio “nero”. Si può mancare al silenzio ma anche mancare con il silenzio.
Il nostro Fondatore aveva capito che il silenzio è il maestro dei maestri perché insegna senza parlare. Aveva capito che il silenzio è la componente essenziale per entrare in comunione profonda con Dio, è il grembo da cui nasce il nostro dialogo con Lui. Il silenzio è la casa dei ritorni: del ritorno a Dio, del ritorno verso la propria vera identità, del ritorno verso gli altri.
Tutta la nostra vita corre tra due grandi silenzi: il silenzio del grembo materno per nove mesi e il silenzio di quello che sarà l’abbraccio con Dio al momento della nostra morte. Il silenzio dunque ci ha segnato e ci segnerà.
Nel silenzio non si cerca qualcosa, magari solo sensazioni emotive legate all’istante, ma si cerca il Tutto che è Dio. Naturalmente non basta il silenzio esteriore: esso è solo la cornice, ma il quadro è il silenzio interiore. E’ importante essere nel silenzio più che fare silenzio. Spesso si dice che si deve custodire il silenzio, in realtà è il silenzio che ci custodisce. Un monaco abitato dal silenzio diventa - sono parole di Elisabetta della Trinità - “come una cetra che suona sotto il tocco misterioso dello Spirito Santo”.
La nostra comunità monastica dovrebbe aiutare coloro che vengono in mezzo a noi a ritrovare la chiave perduta del silenzio, a riaccendere la nostalgia del silenzio che è nostalgia di Dio ma anche nostalgia del meglio di noi e della vita. Sì, gocce di silenzio sui nostri ospiti perché tornino poi a casa come se avessero ricevuto un dono. Perciò impegniamoci tutti a mettere in pratica quanto le Costituzioni (articolo V) e il Direttorio (nn. 57-60) ci indicano in merito. Facciamo in modo che questo luogo, come ai tempi del nostro Fondatore, sia sempre attraversato, come nella famosa esperienza di Elia sul Sinai, dalla “voce di un silenzio sottile” (I Re 19,12).
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