Spesso Gesù, quando vuole insegnarci qualcosa di importante, va a pescare professori fuori ruolo, addirittura senza alcuna laurea, senza uno straccio di diploma come, ad esempio il samaritano della nota parabola. Il Vangelo di questa domenica ci trasmette (Lc 16, 1-13) una parabola dal finale sconcertante, con la lezione - una lectio difficilis da digerire - sul dovere di essere intelligenti e di saper usare la fantasia; Gesù ci sorprende dandoci come maestro un imbroglione, un ladro matricolato, simpatico fin che si vuole, ma pur sempre un ladro. E ci dice di imitarlo.
C’è un amministratore che viene accusato di aver sperperato il patrimonio del suo padrone, con disordini amministrativi, con falsi in bilancio, tangenti e tutto quello che la nostra attualità può aggiungere. Il padrone lo viene a sapere e il licenziamento risulta inevitabile. E lui cosa fa? Con una spregiudicata e abile saggezza last minute, evita la sua rovina dimezzando quanto i creditori dovevano al suo padrone, invitandoli a falsificare le ricevute: a chi il 50%, chi il 30% dei debiti.
E il padrone? Il padrone, raggirato due volte, lo loda e lo stima. Gesù in realtà non loda la disonestà e l’imbroglio ma loda la tempestiva capacità di reazione di quell’uomo, che di fronte ad un errore non perde la fiducia in se stesso e si tira fuori da una situazione critica. Il Signore ama le persone che si danno da fare, che non dimenticano di possedere un cervello, che ricorrono alle risorse della fantasia.
La parabola ci insegna a compiere “irregolarità” che vanno a vantaggio del prossimo. Si tratta di minimizzare le colpe degli altri e non di maggiorarle. Si tratta di non mormorare che è un verbo purtroppo molto coniugato, verso i confratelli e i Superiori ; in certe comunità è lo sport preferito. A volte la mormorazione, senza prove oggettive e senza riscontri si trasforma in maldicenza e calunnia, figlie dell’ignoranza e dell’invidia. Il veleno di quest’ultima finisce sempre nel bicchiere di chi lo ha versato. Papa Francesco, nelle sue omelie quotidiane a S. Marta, è ritornato più volte su questo argomento. Venerdì scorso ha addirittura definito “cristiani omicidi” coloro che giudicano e sparlano degli altri. E se le chiacchiere corrispondono al vero? Il Papa ha suggerito questo comportamento: “Prega per lui, fai penitenza per lui”. Non altro. Si racconta negli apoftegmi dei padri del deserto che un giorno un giovane monaco si era recato da un anziano e santo confratello per sottomettergli il suo desiderio di non mangiare mai la carne. Il santo monaco, sapendo che quel giovane monaco aveva la lingua lunga, gli diede questa risposta:” E’ meglio per te mangiare la carne ogni giorno piuttosto che ogni giorno mangiare la carne dei tuoi fratelli con la maldicenza”. Si tratta di ridurre i difetti degli altri, cancellare le offese, tirare una riga sopra i torti, non ragionare in termini di diritti o ragione, ma in termini di amore.
Di fronte a Dio siamo tutti debitori, nessuno di noi ha i registri in ordine. Ciò che noi facciamo per Dio è niente confronto a ciò che Lui ha fatto e fa per noi. La nostra vita è sempre un’amministrazione in rosso. Dio comunque non ci chiede di ripagarlo per il dono della vita (sarebbe impossibile!) ma ci chiede di viverla bene, meglio facendo del bene. Dio non ci chiede di fare quello che non possiamo fare. Lui sa fino a che punto possiamo arrivare. Ci chiede solo quello che possiamo fare. In tutto ciò che facciamo, facciamo del nostro meglio, anche se non è perfetto. Il bene è sempre bene, è comunque bene. Creare oasi di positivo. E molte piccole oasi conquisteranno il deserto.
Perché il disonesto amministratore viene lodato? Perché il bene vale di più, conta di più, pesa di più, dura di più, illumina di più; perché una spiga di buon grano vale più di tuta la zizzania del campo.
Alla fine della nostra vita, Dio non guarderà tanto a quanto abbiamo commesso ma a quanto bene abbiamo seminato nei solchi della vita degli altri. Il giudizio di Dio sarà non sulla nostra disonestà ma sulla nostra bontà, e non guarderà tanto noi ma attorno a noi, cioè alle persone che sono stare raggiunte dal nostro cuore. Le braccia di chi abbiamo aiutato sono le braccia di Dio. Esse hanno in mano, per noi, le chiavi del Paradiso.
domenica 22 settembre 2013
domenica 15 settembre 2013
24 ma DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
Il cap. 15mo del Vangelo di Luca sarà domani, dalla Liturgia della Parola, offerto alla nostra riflessione. Non si tratta di tre parabole, ma di tre racconti di un’unica parabola: quella che narra la misericordia di Dio. La pecora perduta con il pastore che rischia la vita per recuperarla, la moneta smarrita con quella casalinga che rovista dappertutto per ritrovarla, un figlio che scappa di casa con un padre che, al suo ritorno, non lo condanna ma risolve tutto in abbracci e baci di gioia e organizza una grande festa.
Con voi, vorrei però limitarmi a compiere una breve sottolineatura che riguarda un verbo che si trova proprio agli inizi del capitolo, dove brilla sinistro e inquietante: “mormoravano”… Anche Gesù ha avuto i suoi mormoratori, chi lo ha giudicato negativamente. Nessuna meraviglia se questo può forse capitare anche a noi! Mormorare, purtroppo è un verbo molto coniugato. In certe comunità, per qualcuno è lo sport preferito! Senza poi guardare se ci sono riscontri e prove oggettive, magari ci si basa sui “si dice”, sui “sembra che” - “pare che”, il tutto alimentato da grande fantasia. Con bassezza di toni e argomenti pretestuosi. Papa Francesco più volte, nelle sue omelie quotidiane nella cappella di S. Marta, ha ricordato che la mormorazione e la maldicenza sono un male grave. Se poi essa si trasformano in diffamazione e calunnia, figlie dell’ignoranza e dell’invidia, diventa peccato grave. L’esperienza dimostra che il veleno dell’invidia finisce sempre nel bicchiere di chi lo ha versato. Anche se è vero che il segreto della libertà interiore consiste nel non preoccuparsi di quello che dicono e pensano gli altri di noi, se abbiamo la coscienza a posto, non è però piacevole ritrovarsi schizzati di fango. Dice Papa Francesco: “La diffamazione avviene quando una persona davvero ha un difetto, ne ha fatto una grossa raccontarla, fare il giornalista… e la fama di quella persona è rovinata; la calunnia è dire cose che non sono vere. Questo è proprio ammazzare il fratello! Questo è come dare uno schiaffo a Gesù nella persona degli altri” (18 maggio 2013). Due giorni fa, ha ripreso lo stesso argomento, dicendo cosi: “Coloro che vivono giudicando il prossimo, parlando male del prossimo sono ipocriti, perché non hanno il coraggio di guardare i loro propri difetti. E allora li leggono o pensano di leggerli negli altri. Coloro che giudicano e sparlano degli altri sono cristiani omicidi. Se parli male del fratello, uccidi il fratello. Imiti il gesto di Caino, il primo omicida della storia.” Parole molto forti quelle del Papa e che fanno riflettere. Se poi le chiacchiere corrispondono al vero, Papa Francesco suggerisce questo comportamento: “Prega per lui. Fai penitenza per lui.” Ognuno di noi si impegni personalmente nel non cadere nella mormorazione, nella maldicenza e, peggio ancora, nella calunnia.
Con voi, vorrei però limitarmi a compiere una breve sottolineatura che riguarda un verbo che si trova proprio agli inizi del capitolo, dove brilla sinistro e inquietante: “mormoravano”… Anche Gesù ha avuto i suoi mormoratori, chi lo ha giudicato negativamente. Nessuna meraviglia se questo può forse capitare anche a noi! Mormorare, purtroppo è un verbo molto coniugato. In certe comunità, per qualcuno è lo sport preferito! Senza poi guardare se ci sono riscontri e prove oggettive, magari ci si basa sui “si dice”, sui “sembra che” - “pare che”, il tutto alimentato da grande fantasia. Con bassezza di toni e argomenti pretestuosi. Papa Francesco più volte, nelle sue omelie quotidiane nella cappella di S. Marta, ha ricordato che la mormorazione e la maldicenza sono un male grave. Se poi essa si trasformano in diffamazione e calunnia, figlie dell’ignoranza e dell’invidia, diventa peccato grave. L’esperienza dimostra che il veleno dell’invidia finisce sempre nel bicchiere di chi lo ha versato. Anche se è vero che il segreto della libertà interiore consiste nel non preoccuparsi di quello che dicono e pensano gli altri di noi, se abbiamo la coscienza a posto, non è però piacevole ritrovarsi schizzati di fango. Dice Papa Francesco: “La diffamazione avviene quando una persona davvero ha un difetto, ne ha fatto una grossa raccontarla, fare il giornalista… e la fama di quella persona è rovinata; la calunnia è dire cose che non sono vere. Questo è proprio ammazzare il fratello! Questo è come dare uno schiaffo a Gesù nella persona degli altri” (18 maggio 2013). Due giorni fa, ha ripreso lo stesso argomento, dicendo cosi: “Coloro che vivono giudicando il prossimo, parlando male del prossimo sono ipocriti, perché non hanno il coraggio di guardare i loro propri difetti. E allora li leggono o pensano di leggerli negli altri. Coloro che giudicano e sparlano degli altri sono cristiani omicidi. Se parli male del fratello, uccidi il fratello. Imiti il gesto di Caino, il primo omicida della storia.” Parole molto forti quelle del Papa e che fanno riflettere. Se poi le chiacchiere corrispondono al vero, Papa Francesco suggerisce questo comportamento: “Prega per lui. Fai penitenza per lui.” Ognuno di noi si impegni personalmente nel non cadere nella mormorazione, nella maldicenza e, peggio ancora, nella calunnia.
domenica 8 settembre 2013
SOLENNITA’ DELLA NASCITA DELLA B. V. MARIA
“Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo…” (Mt 1,1). Mentre i nomi si susseguono come una cascata, con un alternarsi di luci e di ombre introdotto per 39 volte da un “generò” di personaggi biblici, forse non ci rendiamo conto che, come cristiani, quella litania di ritratti è il nostro album di famiglia. Quei nomi sono i nostri antenati. Si tratta della nostra genealogia, perché noi facciamo parte di quei “molti fratelli” di Gesù, come ricorda la seconda lettura. La catena di generazioni, con un lento zig-zag che intreccia miserie e grandezze, giunta al nome di Giuseppe rompe quest’ultimo anello per dirci che egli “era lo sposo di Maria dalla quale è nato Gesù” (Mt 1,16). Gesù, l’estuario benedetto in cui finisce quel lungo fiume di vita.
La Liturgia della Parola della Solennità della nascita di Maria riporta intenzionalmente la nascita di Gesù , perché le due nascite sono collegate e l’una spiega il perché dell’altra. Dallo stelo Maria, il fiore Gesù. Maria nasce, cioè viene alla luce, per darci la Luce che è suo Figlio. La sua nascita è in prospettiva di quella di Gesù. Con lei inizia il cammino della Redenzione.
Ma, in povere parole, questa festa in fondo è un appuntamento con il nostro cuore. Stamattina noi siamo qui per chiedere a Maria la sua materna protezione. E chi non ne ha bisogno? Siamo qui per pregarla ed onorarla.
Il regalo più bello che possiamo farle per il suo compleanno lo troviamo indicato in quelle poche parole che ha detto alla nozze di Cana: “Fate quello che Gesù vi dice”. Facciamo il suo Vangelo. Non sostituiamolo con altri testi di vita. Mettiamoci alla scuola del suo Gesù, soprattutto per quanto riguarda i rapporti con il nostro prossimo. Se lo vedessimo con i suoi occhi, forse le cose andrebbero meglio. Certo, l’altro può avere limiti e difetti pesanti da accettare ma è anche vero che se non sopportiamo il suo peggio non meritiamo il suo meglio.
Il titolo di mamma per Maria non è un titolo onorifico o retorico. Lei è davvero mamma per ciascuno di noi, anche se viviamo in un certo modo,
anche se siamo lontani dal Signore. Per lei, noi siamo e restiamo suoi figli. Gli siamo stati affidati da Gesù in croce. Facciamola diventare la coinquilina dei nostri appartamenti, delle nostre case (per noi monaci, delle nostre celle), ma anche la persona con la quale noi confidiamo per prima le nostre sofferenze, i nostri dispiaceri, le nostre preoccupazioni, i nostri sbagli ma anche le nostre gioie, i nostri progetti. Permettiamole di starci accanto soprattutto quando sperimentiamo che a volerci bene c’è rimasta solo lei.
Abbiamo bisogno di Maria, un nome semplice ma che pronunciandolo ci mette addosso una gran voglia di ricominciare e di ripartire dopo periodi e situazioni difficili; forse alcune pagine del libro della nostra vita, si sono incollate tra loro racchiudendo momenti e segreti che talvolta ci fanno ancora star male. Maria: un nome che ci mette addosso una gran voglia di far pulizia nella nostra vita e nel nostro cuore, forse inquinato da qualcosa o da qualcuno. Maria: basta che questo nome risuoni nelle pareti più sensibili del nostro cuore, esso risveglia nostalgia verso tutto un alfabeto di valori che forse è andato in tilt. Abbiamo tutti bisogno di Maria, perché tutti abbiamo bisogno di umanità, sensibilità, attenzione, delicatezza, dolcezza, tenerezza, fantasia, vita!
Se qualche volta ci ritroviamo senza pace, non dobbiamo esitare a chiamarla, rivolgendoci a lei con quella umile preghiera che è l’Ave Maria. Ma questa è la preghiera che ci apre il cuore di Dio. E’ la preghiera che cambia la nostra vita.
La Liturgia della Parola della Solennità della nascita di Maria riporta intenzionalmente la nascita di Gesù , perché le due nascite sono collegate e l’una spiega il perché dell’altra. Dallo stelo Maria, il fiore Gesù. Maria nasce, cioè viene alla luce, per darci la Luce che è suo Figlio. La sua nascita è in prospettiva di quella di Gesù. Con lei inizia il cammino della Redenzione.
Ma, in povere parole, questa festa in fondo è un appuntamento con il nostro cuore. Stamattina noi siamo qui per chiedere a Maria la sua materna protezione. E chi non ne ha bisogno? Siamo qui per pregarla ed onorarla.
Il regalo più bello che possiamo farle per il suo compleanno lo troviamo indicato in quelle poche parole che ha detto alla nozze di Cana: “Fate quello che Gesù vi dice”. Facciamo il suo Vangelo. Non sostituiamolo con altri testi di vita. Mettiamoci alla scuola del suo Gesù, soprattutto per quanto riguarda i rapporti con il nostro prossimo. Se lo vedessimo con i suoi occhi, forse le cose andrebbero meglio. Certo, l’altro può avere limiti e difetti pesanti da accettare ma è anche vero che se non sopportiamo il suo peggio non meritiamo il suo meglio.
Il titolo di mamma per Maria non è un titolo onorifico o retorico. Lei è davvero mamma per ciascuno di noi, anche se viviamo in un certo modo,
anche se siamo lontani dal Signore. Per lei, noi siamo e restiamo suoi figli. Gli siamo stati affidati da Gesù in croce. Facciamola diventare la coinquilina dei nostri appartamenti, delle nostre case (per noi monaci, delle nostre celle), ma anche la persona con la quale noi confidiamo per prima le nostre sofferenze, i nostri dispiaceri, le nostre preoccupazioni, i nostri sbagli ma anche le nostre gioie, i nostri progetti. Permettiamole di starci accanto soprattutto quando sperimentiamo che a volerci bene c’è rimasta solo lei.
Abbiamo bisogno di Maria, un nome semplice ma che pronunciandolo ci mette addosso una gran voglia di ricominciare e di ripartire dopo periodi e situazioni difficili; forse alcune pagine del libro della nostra vita, si sono incollate tra loro racchiudendo momenti e segreti che talvolta ci fanno ancora star male. Maria: un nome che ci mette addosso una gran voglia di far pulizia nella nostra vita e nel nostro cuore, forse inquinato da qualcosa o da qualcuno. Maria: basta che questo nome risuoni nelle pareti più sensibili del nostro cuore, esso risveglia nostalgia verso tutto un alfabeto di valori che forse è andato in tilt. Abbiamo tutti bisogno di Maria, perché tutti abbiamo bisogno di umanità, sensibilità, attenzione, delicatezza, dolcezza, tenerezza, fantasia, vita!
Se qualche volta ci ritroviamo senza pace, non dobbiamo esitare a chiamarla, rivolgendoci a lei con quella umile preghiera che è l’Ave Maria. Ma questa è la preghiera che ci apre il cuore di Dio. E’ la preghiera che cambia la nostra vita.
domenica 1 settembre 2013
22ma Domenica del Tempo Ordinario
L’importanza di non essere importanti. Per essere importanti è importante non essere importanti. Mi sembra sia questo un po’ il messaggio di Gesù che, nel contesto di un pranzo - da osservato ad osservatore - nota il comportamento degli altri invitati, intenti nella corsa ai primi posti. Ed ecco che scocca la sua lezione, non priva di una certa vena ironica: “Tu, quando sei invitato, non metterti al primo posto ma va all’ultimo” (Lc 14, 8.10). Non mettersi in pole position! Gesù invita a farci indietro non a farci avanti.
Gesù non intende dare regole di galateo o di bon-ton.
I primi, cioè gli ultimi. “Chi si umilia, sarà esaltato” (Lc 14,11). Il rapporto con Dio e con gli altri va modellato sul rapporto che Dio ha con noi. Francesco d’Assisi diceva a Dio: “Tu sei umiltà”. Dio è umiltà, nel senso che non avendo nessuno al di sopra di sé, non può fare altro, per amare, che abbassarsi. E Gesù veramente “è tutto suo Padre”, perché in tutta la sua vita non ha fatto altro che servire, fino a lavare i piedi ai suoi discepoli.
L’umiltà, quella vera, non le sue contraffazioni. L’umiltà non è autodisprezzo. Non è umile chi dice a Dio: “Non valgo nulla, faccio schifo”. Uno così è una persona depressa, non una persona umile! Dio non fa sgorbi, ma capolavori.
L’umiltà vera è vedere e far vedere con verità chi si è. Essere se stessi non è una brutta idea. E l’umiltà è l’arte di essere se stessi. Ci libera dalla fatica di coprirci con maschere sempre più insostenibili. L’umiltà vera è accettare i propri limiti e le proprie fragilità, prendendone atto con serenità ma anche con l’impegno a correggerli. E’ non spaventarsi se abbiamo più ombre che luci: non dimentichiamo che anche le pozzanghere riflettono il sole e questo le rende meno brutte. A volte non sappiamo accettare i nostri difetti ed un giudizio negativo detto da qualcuno su di noi vale più di mille pensieri positivi, e ci mette di malumore tutto il giorno. Siamo sinceri: la più grossa fatica è quella di amarci. Non importa cosa gli altri pensano di te. Agli occhi di Dio siamo importanti, cosa vogliamo di più?
Si scrive umiltà ma si legge “servizio”. L’ultimo posto non è una condanna, è il posto di Dio. L’ultimo posto è sempre il posto di Dio “che è venuto per servire e non per essere servito”. Gesù ci offre anche un criterio: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini”(14,12) : sono quattro gradini del cuore. Non invitarli, perché anche loro poi ti inviteranno e così c’è solo la legge del dare e del ricevere. Un cerchio che ci chiude in una logica gretta. “Ma invita poveri, storpi, zoppi, ciechi (Lc 14,13). Cioè, fuor di metafora: accogli nella tua vita e fai sedere intorno al tuo cuore coloro che non ti possono ricambiare perché sono gli ultimi della fila, là dove vivi. Gesù poi chiude con una bellissima promessa: “sarai felice”. Perché Dio regala gioia a chi produce amore.
Gesù non intende dare regole di galateo o di bon-ton.
I primi, cioè gli ultimi. “Chi si umilia, sarà esaltato” (Lc 14,11). Il rapporto con Dio e con gli altri va modellato sul rapporto che Dio ha con noi. Francesco d’Assisi diceva a Dio: “Tu sei umiltà”. Dio è umiltà, nel senso che non avendo nessuno al di sopra di sé, non può fare altro, per amare, che abbassarsi. E Gesù veramente “è tutto suo Padre”, perché in tutta la sua vita non ha fatto altro che servire, fino a lavare i piedi ai suoi discepoli.
L’umiltà, quella vera, non le sue contraffazioni. L’umiltà non è autodisprezzo. Non è umile chi dice a Dio: “Non valgo nulla, faccio schifo”. Uno così è una persona depressa, non una persona umile! Dio non fa sgorbi, ma capolavori.
L’umiltà vera è vedere e far vedere con verità chi si è. Essere se stessi non è una brutta idea. E l’umiltà è l’arte di essere se stessi. Ci libera dalla fatica di coprirci con maschere sempre più insostenibili. L’umiltà vera è accettare i propri limiti e le proprie fragilità, prendendone atto con serenità ma anche con l’impegno a correggerli. E’ non spaventarsi se abbiamo più ombre che luci: non dimentichiamo che anche le pozzanghere riflettono il sole e questo le rende meno brutte. A volte non sappiamo accettare i nostri difetti ed un giudizio negativo detto da qualcuno su di noi vale più di mille pensieri positivi, e ci mette di malumore tutto il giorno. Siamo sinceri: la più grossa fatica è quella di amarci. Non importa cosa gli altri pensano di te. Agli occhi di Dio siamo importanti, cosa vogliamo di più?
Si scrive umiltà ma si legge “servizio”. L’ultimo posto non è una condanna, è il posto di Dio. L’ultimo posto è sempre il posto di Dio “che è venuto per servire e non per essere servito”. Gesù ci offre anche un criterio: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini”(14,12) : sono quattro gradini del cuore. Non invitarli, perché anche loro poi ti inviteranno e così c’è solo la legge del dare e del ricevere. Un cerchio che ci chiude in una logica gretta. “Ma invita poveri, storpi, zoppi, ciechi (Lc 14,13). Cioè, fuor di metafora: accogli nella tua vita e fai sedere intorno al tuo cuore coloro che non ti possono ricambiare perché sono gli ultimi della fila, là dove vivi. Gesù poi chiude con una bellissima promessa: “sarai felice”. Perché Dio regala gioia a chi produce amore.
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