“Tibi silentium laus” – “per te il silenzio è lode”. Mi sembra che il secondo versetto del Sal 65 nella
versione ebraica possa fare da filo rosso per una breve riflessione nel ricordo
di San Bernardo Tolomei.
La figura del nostro Fondatore ci ripresenta ogni anno
una lista di valori di pura marca benedettina, da lui vissuti al massimo grado
come affermano concordi i nostri storici. Tra essi, brilla in modo particolare
il suo amore al silenzio. Lui e i suoi monaci erano entrati nel solco classico
dell’ascesi monastica: “in silentio
maximi” e vivendo sine glossa il
sesto capitolo della Regola di S. Benedetto: De taciturnitate.
Il silenzio fa paura a molti nostri contemporanei
perché li obbliga a fare dei conti inquietanti con se stessi. Costringe ad
ascoltare gli atti di accusa di una coscienza forse troppo disattesa. Sono
assediati dal rumore, bombardati da parole e suoni di ogni tipo. Un’aggressione
acustica. Come se si volesse mettere sotto anestesia le dimensioni più
importanti della vita. E così si resta facilmente nella schiuma delle
apparenze, si vive alla superficie di se stessi.
Naturalmente il silenzio non va confuso con il mutismo
cronico e ostinato che è la deformazione del silenzio. Il silenzio può essere
negativo se esprime egoismo, indifferenza, insensibilità, estraneità ai problemi
e sofferenze dell’altro; un silenzio in cui ringhia il rancore, l’ostilità, il
disprezzo. E’ quello che S. Gregorio Magno definisce come lo strepitus silentii… O, come si dice oggi
con il linguaggio post-moderno, è il silenzio “nero”. Si può mancare al
silenzio ma anche mancare con il silenzio.
Il nostro Fondatore aveva capito che il silenzio è il
maestro dei maestri perché insegna senza parlare. Aveva capito che il silenzio
è la componente essenziale per entrare in comunione profonda con Dio, è il
grembo da cui nasce il nostro dialogo con Lui. Il silenzio è la casa dei
ritorni: del ritorno a Dio, del ritorno verso la propria vera identità, del
ritorno verso gli altri.
T
utta la nostra vita corre tra due grandi silenzi: il
silenzio del grembo materno per nove mesi e il silenzio di quello che sarà
l’abbraccio con Dio al momento della nostra morte. Il silenzio dunque ci ha
segnato e ci segnerà.
Nel silenzio non si cerca qualcosa, magari solo sensazioni emotive legate all’istante, ma si
cerca il Tutto che è Dio.
Naturalmente non basta il silenzio esteriore: esso è solo la cornice, ma il
quadro è il silenzio interiore. E’ importante essere nel silenzio più che fare
silenzio. Spesso si dice che si deve custodire il silenzio, in realtà è il
silenzio che ci custodisce. Un monaco abitato dal silenzio diventa - sono
parole di Elisabetta della Trinità - “come
una cetra che suona sotto il tocco misterioso dello Spirito Santo”.
La nostra comunità monastica dovrebbe aiutare coloro
che vengono in mezzo a noi a ritrovare la chiave perduta del silenzio, a
riaccendere la nostalgia del silenzio che è nostalgia di Dio ma anche nostalgia
del meglio di noi e della vita. Sì, gocce di silenzio sui nostri ospiti perché
tornino poi a casa come se avessero ricevuto un dono. Perciò impegniamoci tutti
a mettere in pratica quanto le Costituzioni (articolo V) e il Direttorio (nn.
57-60) ci indicano in merito. Facciamo in modo che questo luogo, come ai tempi
del nostro Fondatore, sia sempre attraversato, come nella famosa esperienza di
Elia sul Sinai, dalla “voce di un
silenzio sottile” (I Re 19,12).
Un anticipo di Paradiso.
La celebrazione liturgica della Solennità
dell’Assunzione delle Madre del Signore ci invita a guardare a questo dogma
mariano nel quadro globale della storia della salvezza - c’è in lei il pieno compimento del mistero
pasquale di Cristo - e come una realtà che ci riguarda da vicino. Non è solo un
fatto personale di Maria ma ne siamo tutti coinvolti. Non è una verità mariana
isolata ma è anche una verità circa il nostro futuro finale: lei è già ciò che
tutta la Chiesa sarà. Qui possiamo cogliere un aspetto della maternità di Maria
verso di noi: lei ci genera alla speranza della vita eterna, prospettiva che ci
riconduce all’essenziale, ci da orientamenti precisi, ci evita di essere
schiacciati sul presente.
Maria non è emigrata in cielo: è rimpatriata. Ci ha
aperto la strada. Lei è già sulla riva dell’eternità. Arrivata prima, aspetta
ognuno di noi per l’abbraccio con Dio. La processione di cui facciamo parte è
iniziata. Come credenti, noi abbiamo il cielo incorporato.
Domani, all’interno della liturgia della Parola, il
Vangelo - Lc 1,39-56 - ci trasmetterà il noto episodio della visita di Maria
a S. Elisabetta, l’incontro tra il Nuovo e il Vecchio Testamento. Come un
ostensorio che cammina, la Madonna già porta Gesù per le strade del mondo. Qui noi
possiamo cogliere l’immagine di ogni credente: “portare Verbum”( Origene), portare la Parola, missione di ogni
battezzato. “Benedetta tu”: è la prima parola che risuona nel
dialogo tra Maria e Elisabetta. Forse
dovremmo custodirla come un tesoro e farla nostra. E’ la nota giusta per le
nostre relazioni interpersonali. Cioè benedire, dire bene, cercare le parole
più buone; dire all’altro: tu sei una benedizione di Dio per me, tu sei un dono
di Dio per me, farlo sentire come tale. Altrimenti i nostri rapporti
interpersonali saranno solo una ginnastica relazionale.
La stessa pagina evangelica ci srotolerà nel cuore il
celebre canto di Maria, caratterizzato da gioia, stupore e gratitudine - Il Magnificat - con il quale la Chiesa, nella Liturgia delle
Ore chiude ogni giorno la celebrazione dei Vespri. Un mosaico di citazioni e
riferimenti biblici, un alternarsi di emozioni delicate e di drammi storici. Un
nuovo decalogo (ci sono come dieci “onde”!) non più prescrittivo di
comportamenti verso Dio e i fratelli ma narrativo di un Dio che è per l’uomo. In
nessun’altra pagina del Vangelo troviamo così tante parole dette da Maria che
accoglie Dio per la grandezza che esso ha. Ognuno di noi riceve Dio nella
misura in cui lo “magnifica”, cioè gli cede posto ( “più” posto!) nella sua
vita e questo comporta rimpicciolire il proprio io, talvolta ingombrante.
Avere la fede di Maria che pone al centro non quello
che io faccio per Dio, ma quello che Dio fa per me.
La liturgia di questa festa è come intessuta di fuoco
e di stelle, di fiamme e di bagliori in cui emerge la dimensione più coinvolgente di chi vuole essere discepolo del
Signore crocifisso e risorto, così come Lui ci ha appena indicato nel Vangelo
ora proclamato.
“In verità, in
verità vi dico…” (Gv 12,24). Tutti sappiamo che questa ripetizione nel linguaggio
biblico equivale al nostro superlativo assoluto. Quindi si tratta di una
importante affermazione di Gesù. Immediata
ed esplicita. E’ sicuramente autobiografica perché Lui sarà il vero seme che
dona la vita per la nostra salvezza, ma chiunque vuole essere suo discepolo
deve fare lo stesso percorso e indirizzarsi alla medesima scelta. Così ha fatto
anche San Lorenzo.
“Se il chicco di
grano non muore, rimane solo; se muore produce molto frutto” (Gv 12,24). E’ una legge della natura ma è anche una
regola di vita per il cristiano. La parola centrale non è morire, ma molto frutto.
Lo sguardo è sulla fecondità. Vivere è dare vita e ci sono molti modi per
farlo. Dare la vita è ciò che fa intense e generose le nostre giornate. Le
occasioni non mancano, si affacciano continuamente. Basta volerle incontrare.
Non dare è già morire. L’amore nel Vangelo è un verbo: dare. Tutto ciò che non
viene donato va perduto. L’amore non dice mai: basta ma dice: tutto. Per
questo ognuno di noi deve sentirsi impegnato, con i gesti del servizio, a farsi
chicco di grano seminato nel quotidiano monastico convertendo in seme ogni sua
ora, nella terra della nostra comunità.
E’ il segreto della felicità del monaco. Almeno
idealmente, sulla tomba di ognuno di noi si dovrebbe leggere: “Ha creduto all’amore”.