domenica 24 giugno 2012

SOLENNITA' DELLA NATIVITA' DI SAN GIOVANNI BATTISTA (B)

Giovanni Battista ovvero, quando nasce la profezia. Famoso personaggio biblico, austero asceta del deserto e tagliente predicatore, nato fra i miracoli e morto in un lago di sangue. Giovanni che danza nel ventre della madre ("il bambino sussultò nel suo grembo" (Lc 1,41) e muore per la danza di una donna. Cerniera tra l'AT e il NT, Giovanni Battista è come una freccia segnaletica che ci indica il Cristo salvatore. La sua figura - il più grande dei profeti, sintesi di tutti profeti - va letta e compresa nel contesto dell'intera storia della salvezza. Giovanni non è figlio soltanto di due anziani genitori ma è anche figlio dell'attesa accorata di un intero popolo. La sua stessa nascita gli anticipa la sua vocazione al deserto: nasce da un grembo sterile, senza vita. Dio è stato più forte dei dubbi di Zaccaria che era rimasto muto perché non aveva creduto all'annuncio dell'angelo. Non ha ascoltato con l'orecchio del cuore e da allora ha perso la parola. Indicazione che ci deve fare pensosi: quando noi smarriamo il riferimento alla Parola di Dio diventiamo afoni, insignificanti. Strano il comportamento di questo Zaccaria, forse si è dimenticato che il suo nome significa "Dio si ricorda", eppure era rimastico incredulo e scettico alla notizia di un figlio in arrivo.

Nasce inatteso e fuori tempo come una sorpresa. Entra nella storia con un nome, Giovanni - "Dio fa grazia"-  è la sua identità, la sua vocazione. Un nome che è come una fotografia. Un nome carico di futuro, anche se nelle pieghe dell'imprevedidibile. Come lo è il nome di ciascuno di noi. Nella Bibbia il nome è tutta la persona, tutta la sua missione. Indica il suo destino. Forse dovremmo interrogarci sul nome che portiamo, percepirne tutte le associazioni implicite, intercettare i suoi messaggi spirituali. Il nostro nome è un tatuaggio indelebile sulla mano di Dio e lì è circondato dal suo amore. Non siamo nati per caso ma per compiere un sogno di Dio.  E' nella volontà del Signore, scoperta, accolta e realizzata con umile disponibilità, che risiede la nostra pace interiore e la nostra piena riuscita. La nascita del cugino di Gesù, del Battista ci riguarda, avvolge la nostra vita perché ci chiama ad essere dono per gli altri con il grembiule del servizio. Zaccaria ed Elisabetta sentono nel loro cuore che il loro bambino così speciale appartiene ad una storia più grande. Che il suo segreto è oltre lui. Lui, che sarà modello di discepolo e icona di missionario.

La sua vocazione è stata certo quella di essere il Precursore, cioè l'apri-pista al Messia ma anche quella di essere una meraviglia stupenda come viene messo in risalto sia dalla prima Lettura -"Io ti renderò luce delle nazioni" (Is 49,6) - come dal Salmo Responsoriale - " Hai fatto di me una meraviglia stupenda" - e anche dal Vangelo: "Che sarà mai questo bambino?" (Lc 1,66). Sarà un testimone limpido del paradosso evangelico e della potenza di Dio che si manifesta nella debolezza. La sua testa decapitata sul vassoio è più eloquente di quando parlava. "Che sarà mai questo bambino?": più che una grande domanda è un'affascinante porta di mistero.

La nascita di Giovanni Battista la celebriamo solennemente perché è una festa cristocentrica.
E' la festa della voce, che annuncia la Parola. Giovanni è "preso" da Gesù. Un cristiano deve essere soprattutto appassionato di Gesù. Si comunica chi si ama.

domenica 17 giugno 2012

DOMENICA 11ma DEL TEMPO ORDINARIO (B) e Oblazione Regolare di fra Mauro

Il linguaggio del mistero è il linguaggio delle cose semplici. Ecco perché Gesù adotta esempi concreti, immagini legate al quotidiano e all'immediatezza, attingendo al gran libro della natura.
C'è una specie di filo non rosso ma verde che percorre il Vangelo di questa Domenica. Non è solo il verde tonificante della natura evocata da Gesù ma il verde-speranza che colora l'insegnamento delle due mini-parabole che sono due chicche, dono esclusivo dell'evangelista Marco.
C'è il chicco di grano che diventa spiga rigogliosa.
C'è il granello di senape che diventa albero frondoso.
Tra i due poli non c'è il vuoto - la natura ce lo conferma - ma c'è un'energia, un movimento anche se impercettibile. Il seme è la Parola di Dio che Egli distribuisce in terreni diversi aspettandone lo sviluppo. Lo butta anche nei terreni che non offrono garanzia di fecondità e, a volte, i risultati più abbondanti li raccoglie proprio da  terreni da noi forse troppo facilmente etichettati  come  "non buoni", non idonei, non adatti... Analogamente, così e a volte accade, per la vocazione alla vita consacrata. Chiama chi vuole. Spesso il Signore si serve di vecchie ciabatte per farne calzari d'angeli. Chissà quante volte anche tu, carissimo Mauro, avrai interrogato te stesso non sentendoti all'altezza della vocazione ricevuta. Ma con gioia e armato di tanta buona volontà hai voluto proseguire nel cammino della vita monastica. Dentro di te, come la crescita silenziosa nel seme, ha lavorato la sua grazia e oggi dai la tua risposta più bella con l'Oblazione Regolare per la nostra abbazia, secondo la Regola di S. Benedetto e le nostre Costituzioni.
A volte la nostra vita ci sembra una lettera scritta da un mittente sbagliato ad un destinatario sbagliato perché orchestrato, programmato una regia che la fa da padrona e, ci spazientiamo, andiamo in crisi se non vediamo risultati. Dio invece, con passi che non fanno rumore, camminando per sentieri senza tracciati ufficiali, sta alla porta e bussa pazientemente fino al giorno in cui Lui sa. Il risultato cioè la spiga gonfia, l'albero verde nascono dal seme perché sono già presenti, iscritti in esso, nella sua forza vitale ed esplosiva.    Niente è più fragile di un seme, eppure niente è più carico di futuro.

Ognuno di noi nasce come un dono incompiuto. La vocazione che si riceve è un seme che Dio ci deposita dentro e che attende di crescere e di fiorire. Messo nelle fenditure del nostro cuore, moltiplica se stesso ed è capace con la punta fragilissima della sua gemma, di spaccare l'asfalto, cioè di vincere le nostre resistenze, le nostre perplessità, le nostre incertezze nel rispondere alla sua chiamata. Fidarsi e lasciare tutto in mano di Dio. Non diamo spazi a dubbi e inquietudini. Avere fiducia e pazienza. Un lungo cammino inizia con un passo, l'alfabeto con una lettera, il tempo con un attimo. Bisogna fidarsi più di Dio che di se stessi. Dio sceglie di esprimere la sua forza nei limiti umani del chiamato che si sentirà sempre inadeguato di fronte al dono della vocazione ricevuta. Il monaco è testimone felice di un Dio prodigo di grazia nonostante le sue fragilità.
 
Carissimo Mauro, in questo momento il libro della tua vita è aperto ad una pagina datata domenica 17 giugno 2012. dio la vuole firmare personalmente - una vera firma d'autore! - proprio come anche tu firmerai tra poco la tua carta di Oblazione Regolare. Noi, tua nuova famiglia, ti siamo tutti fraternamente vicini in questo momento così importante mentre stai per scegliere per sempre l'avvincente bellezza della vita monastica - ora lege labora - che vuoi umilmente testimoniare nella nostra abbazia, con l'obbedienza e la conversione del cuore. Maria accompagni i tuoi passi, oggi e sempre.

venerdì 15 giugno 2012

SOLENNITA' DEL SACRO CUORE DI GESU' (B)

A pochi giorni dalla celebrazione del Corpus Domini, celebriamo oggi la solennità del Sacro Cuore di Gesù, che ha riferimenti biblici saldi e profondi. La liturgia ci aiuta ad entrare sempre più nei  "particolari" della vita e dello stesso corpo del Signore: oggi ci sprofondiamo assieme all'apostolo ed evangelista Giovanni nel suo cuore, per cogliere sempre di più e sempre meglio il mistero d'amore che si è rivelato in Cristo Gesù. Nel cuore del Figlio c'è tutto il Padre, ci rivela il Padre. Gesù è "l'esegesi" del Padre. Per amare Dio bisogna passare dalla porta sempre aperta del cuore di suo Figlio. Dio è "cuore"! Ci possono aiutare le toccanti immagini trasmesseci dal profeta Osea nella prima lettura che ci fotografa Dio come un papà con il suo bambino. E poi c'è quel versetto che scalpella il suo amore per ciascuno di noi: "il mio cuore si commuove dentro di me" (Os 11,8). Quando noi abbiamo una sofferenza essa "fa piaga" - sono parole di Ungaretti - nel cuore di Dio. Questo ci aiuta a sganciarci da quell'immagine severa di Dio che più o meno fortemente ci portiamo nell'inconscio.

"Volgeranno lo sguardo a Colui che hanno trafitto": la profezia di Zaccaria, nella linea del poema del Servo sofferente di Isaia, riportata da Giovanni a chiusa del Vangelo ci fa guardare alla croce, epifania salvifica del cuore di Cristo, non dal basso ma dall'alto, dalla prospettiva del Padre e vi leggiamo scritta a lettere di sangue una sola parola: amore. Sì, amare voce del verbo morire. Un amore che si declina con una fedeltà che non viene mai meno. La croce misura questo suo amore per noi. Viene davvero da chiedere usando le stesse parole di S. Ignazio di Loyola davanti al crocifisso: "Tu hai fatto così tanto per me e io cosa farò per te ?". Un cuore trafitto con una lancia. L'ultimo colpo di crudeltà sul corpo ormai esanime di Cristo diventa fonte di benedizione. Da quella ferita escono infatti sangue e acqua, nei quali molti vedono i simboli dell'Eucarestia e del Battesimo, ma esce anche un amore che tutto feconda e rinnova: lo Spirito Santo.

La regia liturgica di questa solennità parte dall'inquadratura di un corpo morto. Gesù che viene ucciso. Questo ci interroga. Anche noi possiamo dare la morte a qualcuno. Lo possiamo cioè uccidere nella sua qualità di fratello, ad es. negandogli il perdono. Ripicche, risentimenti, rancori, indifferenza ostentata e ostinata, sono tutti "attentati" all'amore, e quindi alla vita. Quando nego a qualcuno un posto nel mio cuore, io gli nego in un certo senso il diritto di vivere. Rifiutando l'amore fraterno, il perdono, la riconciliazione, io tolgo la possibilità della vita. Quando io ritiro il mio dono d'amore, io offro la morte.

Siamo quindi chiamati a passare attraverso il cuore di Cristo e ricevere attraverso questo canale quelle che la seconda lettura, dall'andatura così lirica, chiama sue "impenetrabili ricchezze" (Ef 3,8) per diventare, a nostra volta, canali di quella  "compassione" (Os 11,8)  presso i nostri fratelli. Perché  non mettere un po' di "cuore" in tutto quello che facciamo, soprattutto quando si tratta di cose che richiedono molta pazienza e sacrificio?
Questa Solennità ci invita a ripetere il gesto bellissimo del discepolo amato, Giovanni, che, appoggiato il capo sul petto di Gesù, avverte un'indicibile commozione per l'imminenza della sua Pasqua e dai battiti del cuore si sente dire due parole: ti amo. Due parole che sono anche per ciascuno di noi. Convertiamoci alla sua tenerezza.

domenica 10 giugno 2012

SOLENNITA' DEL CORPO E SANGUE DI CRISTO (B)

"Dov'è la mia stanza, perché io vi possa mangiare la mia Pasqua?" (Mc 14,14). La "mia" stanza. Strano quel "mia". "Mia" come "miei" discepoli. Quella stanza è "sua" perché lì sarebbe avvenuto il gesto più "suo", quello che era la sintesi della sua vita. Gesù pronuncia la tradizionale benedizione, ma poi ecco, a sorpresa quelle misteriose parole: "Questo è il mio corpo", che nella mentalità orientale significano: "Questo sono io!". E poi e ancora: "Questo è il mio sangue", che nel linguaggio orientale significa: "Questa è la mia vita". Nell'Eucarestia ogni uomo, di ogni tempo e ogni luogo, vive in contemporaneità con il mistero di morte e risurrezione di Gesù. Questo è possibile grazie allo Spirito Santo che, nelle parole del celebrante, trasforma il pane e il vino nel corpo e nel sangue del Signore. Non si tratta di un semplice ricordo, come sostiene il pensiero protestante, ma di riattualizzare, rendendolo presente ed efficace quanto Gesù ha fatto nell'ultima Cena. E' l'Alleanza nuova siglata non come quella antica dal sangue anonimo di un animale ma da quello di Cristo.

L'istituzione dell'Eucarestia, presenza reale e sostanziale, è un gesto di sconcertante profondità. Avrebbe potuto rimanere in mezzo a noi in mille altri modi e in forme inequivocabili, per convincerci al cento per cento e smuovere pure i più dubbiosi. Invece no. Non sarebbe stato nel suo stile... Decide di rimanere in mezzo a noi nel segno umile, semplice, fragile, quotidiano di un pezzetto di pane e di un po' di vino. Ad ogni Eucarestia è Dio che ci cerca e ci chiama: "Beati gli invitati alla cena del Signore...". La piccola ostia sa di niente, leggera come un'ala, eppure, ci fa affacciare sull'immensità di Dio. In noi si deposita l'orma lieve di Dio, lieve come l'ostia. Dio ci scorre nelle vene. Lo ricevo dentro di me e abita in me: divento la sua stanza.

L'Eucarestia, memoriale della Pasqua di Cristo, è un dono trinitario. L'eucarestia non è un dono, è IL dono. Con essa abbiamo tutto - il Paradiso a portata di mano -  e nulla ci manca. Dio non può dare nulla di meno di se stesso. Cosa vogliamo di più? Nell'Eucarestia confluiscono, come a un solo mare, i fiumi di grazia degli altri Sacramenti. Tutto nasce e parte dall'Eucarestia, fons et culmen della vita cristiana. Eucarestia celebrata, Eucarestia ricevuta.
Eucarestia adorata.

Il tempo regalato all'Eucarestia nell'adorazione silenziosa e orante è il tempo più utile, meglio speso, per chi la compie. La lampada rossa, posta accanto al tabernacolo e che indica la presenza del SS.mo Sacramento, non diventa mai verde per farci andare via, ma ci trattiene, col suo colore rosso, per darci se stesso.
Eucarestia vissuta. L'Eucarestia non è solo rito e non è solo adorazione. Essa è scuola di fraternità. Diventa santuario di incontri. Non si può stare con Lui senza andare con Lui. Cioè stare in adorazione davanti al suo Corpo ci porta lontano dal nostro io per farci approdare là dove Lui ci attende. In altri tabernacoli. Talvolta sono tabernacoli scomodi. Per essere come Lui un dono d'amore. Per essere pane buono, genuino per gli altri. "Mangiato" dagli altri. Non stantio o ammuffito dall'egoismo. Dal Corpus Domini al corpus hominis: dall'altare fisso all'altare che cammina...il nostro fratello. Se io non adotto la grammatica eucaristica, se non mi faccio pane per ogni persona che conosco o incontro, Dio rimane senza epifania sulla terra. Con una comunione che si stratifica a diversi livelli come tonalità diverse dello stesso colore.

domenica 3 giugno 2012

SOLENNITA' DELLA SANTISSIMA TRINITA' (B)

Oggi ci sentiamo abbracciati dal mistero. Un mistero non da capire ma da carpire. Ogni volta che questa solennità ritorna, aprendo la lunga distesa delle domeniche del tempo ordinario, ci viene riproposto il mistero che essa celebra: la Trinità, volto differenziato dello stesso Dio. La Liturgia è percorsa da un'insistente richiamo di numeri: uno e tre. Il vocabolo Trinità è assente dalle pagine della Bibbia però in essa il contenuto si è delineato progressivamente, si è distribuito pedagogicamente nel tempo fino ad essere rivelato ed evidenziato da Gesù.

 La prima cosa da fare è vincere la tentazione di voler capire perché ridurrebbe la Trinità ad una specie di rompicapo celeste. Un teorema di raffinata teologia. Non lasciamoci invischiare da esercizi matematici o geometrici o adottando immagini che, pur originate da buone intenzioni, forse finiscono per banalizzare l'immensità di Dio. Volerci entrare di testa significa sfracellare la nostra razionalità contro il muro del mistero. La nostra fede non ci invita tanto a "capire" Dio ma a percepirlo, intercettarlo e adorarlo per scivolare umilmente nella sua grandezza. Un mistero non da comprendere ma da vivere. Un mistero non è qualcosa di assurdo ma una frontiera di luce troppo forte per poterla guardare. La parola "mistero" significa "tacere". Non a caso, nelle poche righe del Vangelo, ritorna per ben tre volte il verbo della fede: credere. Tutta la nostra vita cristiana è nel nome - non "nei nomi" - del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo.

 "Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Mt 28,20). In queste ultimissime parole di Matteo, Gesù ci ricorda qual'é il suo nome, Emmanuele, "Dio con noi" e per sempre. Se credessimo veramente in queste sue parole, dovremmo smettere di essere tristi, ansiosi, angosciati per il passato e preoccupati per il futuro. Non è una rassicurazione solo a livello emotivo, va ben al di là.

La Trinità è la carta d'identità di Dio. Nella Trinità non ci sono numeri ma Persone. Dio è uno solo ma non è solo: Padre, Figlio e Spirito Santo. E se Dio è amore non può che essere così. L'amore è sempre al plurale. Tre persone che si vogliono così bene al punto di identificarsi pur restando distinte. Tutto mettono insieme sul tavolo dell'unica natura divina eccetto i lineamenti non trasferibili delle loro rispettive identità. Le tre Persone sono una con l'altra, una per l'altra, una nell'altra...con-per-in: sono le tre paroline della comunione. Vivere gli uni con e per gli altri, gli uni negli altri. Il mistero di Dio non è un mistero di solitudine - Dio non è un single ! - ma di amore.
L'impronta della Trinità è nell'uomo. Ogni cristiano è tabernacolo della Trinità.  Essa è l'immagine, la sorgente, il modello di come dobbiamo vivere. Dio per crearci si è guardato allo specchio. Battezzati, cioè immersi non in club di singles ma in un Dio-famiglia - la Trinità - ne riceviamo il DNA che è quello della comunione che da la direzione di marcia a tutto il nostro alfabeto esistenziale. Ogni cristiano dovrebbe essere lo spazio pubblicitario della Trinità attivando una comunione che ci impedisce di giocare la nostra vita da solitari, una comunione che non è una marmellata relazionale ma è accettare la diversità dell'altro come dono e risorsa.

sabato 2 giugno 2012

VIGILIA DELLA SANTISSIMA TRINITA'

Terminato il ciclo liturgico pasquale, la liturgia si e ci immerge nuovamente nel tempo ordinario. Con la solennità della Trinità si vuole quasi fare una sintesi della storia della salvezza, celebrando insieme il mistero del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo, la Trinità  di cui noi siamo viva immagine dal momento del battesimo. Sappiamo tutti che il termine "Trinità" fu coniato da Tertulliano (160-220 d.C.) per facilitare la comprensione del concetto che altrimenti avrebbe richiesto più parole: "tre"+"unità" = trinità. Sebbene tale vocabolo non compaia mai nella Bibbia, in essa ne troviamo comunque il contenuto che si delinea progressivamente fino a raggiungere un'essenziale chiarezza: un unico Dio in tre persone uguali e distinte, il Pare, il Figlio, lo Spirito Santo.

Sul mistero della Trinità il Vangelo che sarà proclamato domani ci offre il racconto di un monte anonimo di Galilea e dell'ultima missione affidata da Gesù agli undici discepoli che sono usciti dal sottoscala della paura. Dice Matteo : "Gesù avvicinatosi a loro...". Gesù non si stanca mai di avvicinarsi, di venirci incontro. E' sempre incamminato verso di me, bussa alla mia porta e mi affida la sua Parola, nonostante incertezze e fragilità. Gesù non affida il mistero trinitario a gente di prestigio o ad acute intelligenze, ma ad un gruppo di pescatori di Galilea, illetterati e carichi di dubbi. Noi ci possiamo serenamente accodare a loro, consapevoli di non capire ma con la semplicità dei bambini cadere in una resa adorante e fare nostre le parole di S. Elisabetta della Trinità: "Ho trovato il cielo sulla terra perché il cielo è Dio e Dio abita nella mia anima". Ecco cos'é la Trinità: il cielo  "dentro" di noi. Noi ne siamo l'abitazione.
Un giorno una catechista ha chiesto ad un bambino della sua classe: "Senti: il Padre celeste è Dio, Gesù Cristo è Dio, e pure lo Spirito Santo è Dio:  come fa ad essere così, come fanno a stare insieme queste cose?". Il bambino riflette un attimo e poi risponde: " Si vede che Dio è il nome della famiglia". Un risposta che fa sorridere ma che, nella semplicità, contiene un'intuizione di fondo. Dio è una famiglia. Dio è una comunità di amore. E, se noi siamo fatti ad immagine di Dio, se ciascuno di noi con il Battesimo diventa "casa Trinità", se la Trinità si intreccia con la nostra vita, scopriamo e leggiamo la nostra vocazione ad essere persone di relazioni. Anche se non è facile. Ma non è impossibile. I santi ce lo insegnano.