Con una concretezza semplice, umile e calda, Gesù nel contesto di una catechesi sulla preghiera, ci insegna il Padre Nostro (la redazione di Luca è più breve di quella di Matteo che lo inserisce a conclusione del cosiddetto Discorso della Montagna) che non è solo una preghiera da dire ma una preghiera da fare, un programma di vita, perché in essa si condensano tutte le principali lezioni del Vangelo. Più che una preghiera da imparare è una preghiera che ci fa imparare, perché è come uno specchio nel quale vedere come diventare copia conforme all’originale, il Cristo. Una preghiera che è anche un serio esame di coscienza.
Riflettendo sul Padre Nostro si va infatti in molte direzioni. Noi stasera ne imbocchiamo almeno una. Una preghiera-specchio ma anche una preghiera-tranello: “perdona a noi le nostre colpe come noi le perdoniamo a chi ci ha offeso”. Una domanda in cui non solo chiediamo qualcosa, ma anche promettiamo qualcosa e, precisamente, di perdonare, a nostra volta, gli altri. Per ricevere il perdono di Dio occorre essere a nostra volta pronti a darlo. La porta da cui entra il perdono di Dio è la stessa da cui esce il nostro perdono, perché il perdono non si concede ma si condivide. La pace con Dio ha un prezzo: quella di farla con chi ci ha offeso o fatto del male. La Regola ci ammonisce: “Tornare in pace prima che tramonti il sole con chi è in discordia con noi” (RB 4,73) che si ispira ad Ef 4,26 : “Non tramonti il sole sopra la vostra ira”.
C’è quel paletto: “ante solis occasum”... Le “scandalorum spinas”-“le spine dei contrasti” (RB 13,12) che non mancano mai nella vita comunitaria, formato small o extralarge, devono essere prontamente risanate, sia per evitare che una piccola frattura degeneri in una rottura ricomponibile poi con maggiore difficoltà sia perché il differimento potrebbe portare ad una situazione insanabile o quasi. Si va avanti per settimane, mesi, forse anche anni con questo inquinamento interiore. Proprio per questo, nel cap. 13mo della Regola, S. Benedetto, chiede all’Abate di dire il Padre Nostro al termine dei Vespri. Penso che sia difficile per i monaci, in quel momento inchinati profondamente, sottrarsi all’urto delle parole cantate dall’Abate: “dimitte nobis debita nostra sicut et nos dimittimus debitoribus nostris”. Quel “sicut - come” non è una pretesa di Dio ma è una clausola luminosa! Chi non perdona rompe il ponte sul quale egli stesso deve passare. Ci sarà capitato di sentir bussare alla porta della nostra cella e trovarci di fronte un confratello che ci viene a chiedere scusa per un comportamento sbagliato, per una parola di troppo, una discussione in cui ha trasceso. Se proprio non si ha un cuore indurito e superbo, si resta disarmati, senza parole; magari viene anche un nodo alla gola. Poi si prova una grande gioia.
Il perdono fa più bene a chi lo da che a chi lo riceve, perché mentre lo si da si espelle il veleno del risentimento e della rabbia. E, invece, purtroppo ci sono alcuni in cui da tempo, da troppo tempo, ringhia un ostinato rancore. Con il perdono dato e ricevuto ci si sente meglio. Tra parentesi: le scienze mediche oggi scoprono sempre più come il perdono sia anche una causa di salute, di benessere fisico!
Il Padre Nostro: una preghiera semplice ed essenziale, da dire con il dialetto del cuore, dove mai si dice “io”, dove mai si dice “mio”, ma sempre “tuo” e “nostro”. Gesù mette in fila le poche cose indispensabili per vivere bene: il pane, il perdono e l’impegno contro il male.
Una preghiera dove si avverte il respiro di Dio che ci viene consegnato come Padre.
Accogliamo il Padre Nostro dalle mani di Dio: a volte sono mani di gioia, a volte sono mani di dolore, ma sono sempre mani di amore.
domenica 28 luglio 2013
domenica 21 luglio 2013
16ma DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
L’ “alto” e l’altro…
Con il Vangelo di questa domenica, ci vengono incontro due sorelle, Marta e Maria, due amiche di Gesù insieme con il fratello Lazzaro. Bisogna accantonare l’interpretazione datata e superata che vede in Marta l’immagine della vita attiva e in Maria di quella contemplativa, con un 30 e lode alla seconda e un 18 alla prima. Marta e Maria sono un’unica icona. Ma resta lì, e nessun esegeta lo può cancellare, l’affettuoso e delicato rimprovero di Gesù: “Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una sola cosa c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore che non le sarà tolto” (Lc 10,41). Qual è questa parte migliore, scelta da Maria? E’ tutta condensata in un verbo: “seduta”… “Maria seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola” (Lc 10,39). Si mette a scuola di Gesù che gli fa imboccare la strada del darsi. Marta si limita a quella del dare.
Marta accoglie Gesù in casa ma lo tiene fuori da se stessa. Maria ospita Gesù nella sua interiorità, come fosse un tabernacolo.
Marta offre delle cose. Marta offre se stessa.
Marta fa. Maria “è”.
Marta si caratterizza per i brontolamenti. Maria per lo stupore estatico di stare in compagnia di Gesù.
Marta sente. Maria ascolta. C’è differenza tra sentire e ascoltare. Sentire è un problema di acustica, ascoltare è un problema di cuore. Ascoltare è sedersi vicino a qualcuno. Non sbirciare l’orologio. Si ascolta con le orecchie, ma si ascolta con lo sguardo. Si ascolta con gli occhi. Si ascolta con le mani che si tendono per aiutare.
Ma non si tratta di scegliere tra Marta e Maria. La dimensione Marta e la dimensione Maria devono coabitare in noi. Marta e Maria, non Marta o
Maria. Sono due sorelle e vanno tenute insieme. Marta non può fare a meno di Maria, perché il nostro servire ha la sua sorgente in Dio che fa grande e buono il cuore. Maria non può fare a meno di Marta, perché l’amore per Dio non ci fare le corse con gli angeli in cielo ma ci fa muovere i passi in gesti concreti. I pensieri più belli e profondi che sono quelli targati servizio, nascono in ginocchio. Perché è davanti al Signore, all’Eucarestia, che impariamo a servire nel modo giusto. Altrimenti, tutti i nostri gesti di bene sono come il rumoroso agitarsi delle pentole e dei mestoli di Marta.
Marta e Maria si tengono per mano per farci capire che l’amore è un binario doppio: Dio e i fratelli. Avere le mani di Marta e il cuore di Maria. Scocca qui, per ognuno di noi, la doppia beatitudine: “Beati quelli che ascoltano la Parola di Dio. Beati quelli che la mettono in pratica” (Lc 8,21).
Con il Vangelo di questa domenica, ci vengono incontro due sorelle, Marta e Maria, due amiche di Gesù insieme con il fratello Lazzaro. Bisogna accantonare l’interpretazione datata e superata che vede in Marta l’immagine della vita attiva e in Maria di quella contemplativa, con un 30 e lode alla seconda e un 18 alla prima. Marta e Maria sono un’unica icona. Ma resta lì, e nessun esegeta lo può cancellare, l’affettuoso e delicato rimprovero di Gesù: “Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una sola cosa c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore che non le sarà tolto” (Lc 10,41). Qual è questa parte migliore, scelta da Maria? E’ tutta condensata in un verbo: “seduta”… “Maria seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola” (Lc 10,39). Si mette a scuola di Gesù che gli fa imboccare la strada del darsi. Marta si limita a quella del dare.
Marta accoglie Gesù in casa ma lo tiene fuori da se stessa. Maria ospita Gesù nella sua interiorità, come fosse un tabernacolo.
Marta offre delle cose. Marta offre se stessa.
Marta fa. Maria “è”.
Marta si caratterizza per i brontolamenti. Maria per lo stupore estatico di stare in compagnia di Gesù.
Marta sente. Maria ascolta. C’è differenza tra sentire e ascoltare. Sentire è un problema di acustica, ascoltare è un problema di cuore. Ascoltare è sedersi vicino a qualcuno. Non sbirciare l’orologio. Si ascolta con le orecchie, ma si ascolta con lo sguardo. Si ascolta con gli occhi. Si ascolta con le mani che si tendono per aiutare.
Ma non si tratta di scegliere tra Marta e Maria. La dimensione Marta e la dimensione Maria devono coabitare in noi. Marta e Maria, non Marta o
Maria. Sono due sorelle e vanno tenute insieme. Marta non può fare a meno di Maria, perché il nostro servire ha la sua sorgente in Dio che fa grande e buono il cuore. Maria non può fare a meno di Marta, perché l’amore per Dio non ci fare le corse con gli angeli in cielo ma ci fa muovere i passi in gesti concreti. I pensieri più belli e profondi che sono quelli targati servizio, nascono in ginocchio. Perché è davanti al Signore, all’Eucarestia, che impariamo a servire nel modo giusto. Altrimenti, tutti i nostri gesti di bene sono come il rumoroso agitarsi delle pentole e dei mestoli di Marta.
Marta e Maria si tengono per mano per farci capire che l’amore è un binario doppio: Dio e i fratelli. Avere le mani di Marta e il cuore di Maria. Scocca qui, per ognuno di noi, la doppia beatitudine: “Beati quelli che ascoltano la Parola di Dio. Beati quelli che la mettono in pratica” (Lc 8,21).
domenica 14 luglio 2013
15ma DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
Avanti il “prossimo”! Ma chi è?
Tutti conosciamo la parabola del Buon Samaritano che costituisce la terza Lettura della 15ma Domenica del Tempo Ordinario dell’Anno C.
Questa parabola, probabilmente tratta dalla cronaca nera del tempo, si snoda tra due domande. Quella iniziale: “Chi è il mio prossimo?” e quella finale: “Chi ha dato prova di essere il prossimo ?”.
Gesù non snobba la prima domanda, postagli da un dottore della legge. Sembra che Gesù non ami discutere con gli intellettuali. Porta il discorso su un terreno concreto. “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico”. “Un uomo”. Gesù non aggiunge un aggettivo che lo inquadri. Non ha un nome, perché può avere uno qualsiasi dei nostri nomi. Quella strada, la strada da Gerusalemme a Gerico, passa dappertutto, anche dal nostro monastero. La strada da Gerusalemme a Gerico, allora notoriamente pericolosa, è lunga 27 chilometri. Sufficienti a dividere le persone in due categorie. Quelli che tirano diritti e coloro che si fermano per occuparsi della sofferenza altrui. 27 chilometri, per noi anche meno. Può anche essere solo un corridoio. O i pochi metri che separano la nostra cella da quella dove forse c’è chi ha bisogno di me. Quella è la nostra personale strada che scende da Gerusalemme a Gerico dove, se perdo tempo, guadagno però l’eternità.
Tornando alla parabola, sappiamo che quell’uomo ferito viene incrociato da un sacerdote e da un levita. Questi due non sembrano fare una bella figura perché per entrambi va in onda la stessa sequenza di indifferenza. Nella loro agenda liturgica non era fissato l’appuntamento con quell’uomo ferito. Essi sterzano il loro sguardo dall’altro lato della strada. Verrebbe voglia di rincorrerli, tirarli per i vestiti e domandare: Perché non vi siete fermati? Ma non lo avete visto quel poveraccio? Certamente lo hanno visto, ma sono proseguiti imperterriti autogiustificandosi con delle ragioni. Anche noi, qualche volta, abbiamo una scorta di motivazioni per sottrarci agli impegni dell’amore. “Non è compito mio, ci deve pensare l’Abate, c’è un Procuratore, c’è già un incaricato ecc…”. Ma tutte le nostre presunte valide ragioni, davanti a Dio, equivalgono ad avere torto. Colpevoli di aver fatto tacere il cuore. E’ il tuo fratello: questo titolo è sufficiente e lo legittima ad avere il tuo aiuto. Il nostro cuore deve saper trovare un varco tra le maglie di eventuali e rigide armature interiori.
Impariamo dal Samaritano. Luca sgrana dieci verbi per descrivere il suo amore, una vera e toccante liturgia della compassione: lo vide, si mosse a pietà, si avvicinò, versò, fasciò, caricò, lo portò, si prese cura, pagò… fino al decimo verbo: al mio ritorno salderò il debito se manca qualcosa. 10 verbi, un nuovo decalogo. Ogni gesto è una miniera di riflessioni. Su quella strada non c’è stato solo l’agguato dei briganti ma c’è stato anche l’agguato dell’amore. Al v. 33 del cap. 10 di Luca ci dovrebbe essere registrato il nostro nome.
Possiamo allora capire la domanda finale di Gesù che sposta i termini e il senso della questione. Non mi devo chiedere chi è il mio prossimo ma se io sono “prossimo”, cioè vicino.
“Anche tu fa lo stesso”, cioè “amerai”: un verbo al futuro perché amare è un’azione che non si conclude mai.
Questa parabola, insieme a quella del Figlio prodigo (meglio del Padre prodigo, prodigo di perdono) è al centro del Vangelo e, al centro della parabola, c’è un uomo. E un verbo: tu amerai.
Tutti conosciamo la parabola del Buon Samaritano che costituisce la terza Lettura della 15ma Domenica del Tempo Ordinario dell’Anno C.
Questa parabola, probabilmente tratta dalla cronaca nera del tempo, si snoda tra due domande. Quella iniziale: “Chi è il mio prossimo?” e quella finale: “Chi ha dato prova di essere il prossimo ?”.
Gesù non snobba la prima domanda, postagli da un dottore della legge. Sembra che Gesù non ami discutere con gli intellettuali. Porta il discorso su un terreno concreto. “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico”. “Un uomo”. Gesù non aggiunge un aggettivo che lo inquadri. Non ha un nome, perché può avere uno qualsiasi dei nostri nomi. Quella strada, la strada da Gerusalemme a Gerico, passa dappertutto, anche dal nostro monastero. La strada da Gerusalemme a Gerico, allora notoriamente pericolosa, è lunga 27 chilometri. Sufficienti a dividere le persone in due categorie. Quelli che tirano diritti e coloro che si fermano per occuparsi della sofferenza altrui. 27 chilometri, per noi anche meno. Può anche essere solo un corridoio. O i pochi metri che separano la nostra cella da quella dove forse c’è chi ha bisogno di me. Quella è la nostra personale strada che scende da Gerusalemme a Gerico dove, se perdo tempo, guadagno però l’eternità.
Tornando alla parabola, sappiamo che quell’uomo ferito viene incrociato da un sacerdote e da un levita. Questi due non sembrano fare una bella figura perché per entrambi va in onda la stessa sequenza di indifferenza. Nella loro agenda liturgica non era fissato l’appuntamento con quell’uomo ferito. Essi sterzano il loro sguardo dall’altro lato della strada. Verrebbe voglia di rincorrerli, tirarli per i vestiti e domandare: Perché non vi siete fermati? Ma non lo avete visto quel poveraccio? Certamente lo hanno visto, ma sono proseguiti imperterriti autogiustificandosi con delle ragioni. Anche noi, qualche volta, abbiamo una scorta di motivazioni per sottrarci agli impegni dell’amore. “Non è compito mio, ci deve pensare l’Abate, c’è un Procuratore, c’è già un incaricato ecc…”. Ma tutte le nostre presunte valide ragioni, davanti a Dio, equivalgono ad avere torto. Colpevoli di aver fatto tacere il cuore. E’ il tuo fratello: questo titolo è sufficiente e lo legittima ad avere il tuo aiuto. Il nostro cuore deve saper trovare un varco tra le maglie di eventuali e rigide armature interiori.
Impariamo dal Samaritano. Luca sgrana dieci verbi per descrivere il suo amore, una vera e toccante liturgia della compassione: lo vide, si mosse a pietà, si avvicinò, versò, fasciò, caricò, lo portò, si prese cura, pagò… fino al decimo verbo: al mio ritorno salderò il debito se manca qualcosa. 10 verbi, un nuovo decalogo. Ogni gesto è una miniera di riflessioni. Su quella strada non c’è stato solo l’agguato dei briganti ma c’è stato anche l’agguato dell’amore. Al v. 33 del cap. 10 di Luca ci dovrebbe essere registrato il nostro nome.
Possiamo allora capire la domanda finale di Gesù che sposta i termini e il senso della questione. Non mi devo chiedere chi è il mio prossimo ma se io sono “prossimo”, cioè vicino.
“Anche tu fa lo stesso”, cioè “amerai”: un verbo al futuro perché amare è un’azione che non si conclude mai.
Questa parabola, insieme a quella del Figlio prodigo (meglio del Padre prodigo, prodigo di perdono) è al centro del Vangelo e, al centro della parabola, c’è un uomo. E un verbo: tu amerai.
Iscriviti a:
Post (Atom)